20150708 I Rusteghi Teatro Romano Verona 2384 Teatro romano

I Rusteghi di Carlo Goldoni


Teatro Romano di Verona 9-10-11-13-14 luglio 2015, ore 21.00
Venerdì 10 luglio 2015, ore 17.30 Incontro con gli attori in Biblioteca Civica Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale in collaborazione con Estate Teatrale Veronese presenta

I RUSTEGHI

di Carlo Goldoni
regia Giuseppe Emiliani
scenografia Federico Cautero
costumi Stefano Nicolao
disegno luci Enrico Berardi
musiche Massimiliano Forza
arrangiamenti Fabio Valdemarin

prima nazionale

personaggi e interpreti (in ordine alfabetico):

Canciano, cittadino – Alessandro Albertin
Maurizio, cognato di Marina – Alberto Fasoli
Simon, mercante – Piergiorgio Fasolo
Felice, moglie di Canciano – Stefania Felicioli
Margarita, moglie di Lunardo in seconde nozze – Cecilia La Monaca
il conte Riccardo – Michele Maccagno
Marina, moglie di Simon – Maria Grazia Mandruzzato
Lucietta, figliuola di Lunardo di primo letto – Margherita Mannino
Lunardo, mercante – Giancarlo Previati
Felippetto, figliuolo di Maurizio – Francesco Wolf

Galleria foto e video della Prima

 

I rusteghi, in programma dal 9 al 14 luglio 2015 (escluso il 12), in prima nazionale, è uno dei titoli di Carlo Goldoni più noti e amati dal pubblico, in cui Lunardo, Maurizio, Simon e Canciano, un quartetto di burberi e scontrosi, sono al centro di intrighi e sotterfugi per combinare i matrimoni dei loro figli. La produzione del Teatro Stabile del Veneto ha puntato su interpreti specializzati nel repertorio goldoniano: Stefania Felicioli, Giancarlo Previati e Piergiorgio Fasolo. La regia, di Giuseppe Emiliani, evidenzia la grande metafora del teatro che percorre la commedia ed è avvertibile sin dalle prime battute, in particolare in quella di Lucietta: “Debotto xe fenio el carneval e gnanca una strazza de comedia no avemo visto” dove traspare un mondo “rustego” che tende a considerare il Teatro come un rito pericoloso e inutile. «I rusteghi non sono soltanto uno spaccato di interno borghese – scrive Emiliani – ma la messa in evidenza di un rapporto continuo tra questo interno e una città che penetra in esso nonostante l’ideale di claustrazione che domina i rusteghi. Il teatro penetra nel chiuso mondo domestico, sommuovendolo dall’interno, smascherandone le contraddizioni: per affermare, insomma, il proprio potere demiurgico. Goldoni riesce a costruire, nel modo insieme più naturale e raffinato, una struttura comica omogenea e pur fondata su sottili differenze (sociali, familiari, di sesso e di generazioni). Lunardo si presenta con due donne giovani in casa (la figlia e la seconda moglie), fin troppo “desmesteghe” per lui. Maurizio, vedovo, vive, per opposizione, un mondo senza donne. È il rustego apparentemente più favorito, il più silenzioso, austero. Simon costituisce con Marina una coppia solitaria, legata da una lunga consuetudine di reciproca aggressività. Canciano, infine, costituisce con donna Felice la coppia più civile, proprio perché il rapporto tende a rovesciarsi, rendendo Canciano il rustego più velleitario e represso… In questo universo domestico di rancori e ossessioni – conclude – non ci sono alla fine né cordialità né riscatti: solo l’effimera tenerezza della scena nuziale conclusiva, che non reca un vero sollievo. La commozione finale dei quattro rusteghi, occasionalmente sconfitti, non prelude a significativi cambiamenti. Ed è questa la sottile crudeltà sottesa alla commedia. E la sua straordinaria modernità».

Video della conferenza stampa in Sala Arazzi del Comune di Verona

Galleria fotografica

I rusteghi

Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.
I rusteghi
Commedia in tre atti
Autore Carlo Goldoni
Lingua originale Veneto
Prima assoluta 1760 Teatro San Luca, in occasione del Carnevale di Venezia
Personaggi
  • Canciano, cittadino di Venezia
  • Felicia, moglie di Canciano
  • il conte Riccardo
  • Lunardo, mercante
  • Margarita, moglie di Lunardo in seconde nozze
  • Lucietta, figlia di Lunardo di primo letto
  • Simon, mercante
  • Marina, moglie di Simon
  • Maurizio, cognato di Marina
  • Felippetto, figliuolo di Maurizio

I rusteghi è una commedia di Carlo Goldoni, in veneto. Fu rappresentata per la prima volta a Venezia alteatro San Luca verso la fine del Carnevale del 1760 e fu pubblicata nel 1762.

Trama

Atto primo

La commedia si apre con Lucietta, figlia di Lunardo, uno dei quattro rusteghi, e Margarita, moglie di quest’ultimo e matrigna di Lucietta, che si lamentano di non poter mai uscire di casa. Vengono interrotte da Lunardo che dice che avrebbero avuto ospiti quella sera stessa (gli altri tre rusteghi con le rispettive mogli) e spiega velocemente alla moglie, dopo aver mandato via in malo modo la figlia, l’accordo che ha fatto con Maurizio, un altro rustego, per farla sposare con il figlio di questo, Felippetto. Maurizio giunge proprio in quel momento e parla del prossimo matrimonio a Lunardo, dicendogli che suo figlio Felippetto vorrebbe vedere la figlia prima, il che viene fermamente negato da Lunardo Nella scena sesta del primo atto la scena cambia: Felippetto, a casa di Marina, sua zia, le confessa il suo desiderio di vedere Lucietta. La zia si stupisce di questo divieto imposto al nipote, che viene fatto andar via dal marito di Marina, Simon, il terzo rustego che fa la sua apparizione. Poco dopo un breve diverbio fra Marina e suo marito, a casa loro arrivano Felice, suo marito Canciano (il quarto e ultimo rustego, sottomesso alla moglie), ed il conte Riccardo, amico di Felice. Mentre Riccardo tenta di cominciare una conversazione con il poco loquace Canciano, Felicia viene messa a conoscenza dei fatti e svela a Marina un piano che le è venuto in mente per far incontrare i due giovani fidanzati. Simon manda ancora tutti a casa in malo modo.

Atto secondo

Anche il secondo atto si apre con Margarita e Lucietta. Questa invidia i vestiti della matrigna, agghindata per la cena di quella sera, e riesce a convincerla a farsi dar «un per de cascate» e una «colana de perle», che però non apprezza. Quando Lunardo arriva, dice ad entrambe di vestirsi come si conviene, e continua a rimbrottarle anche quando giungono i primi invitati, Marina e suo marito Simon. Lunardo viene a sapere che Simon è a conoscenza dei preparativi del matrimonio e i due si buttano a capofitto in una conversazione che sfiora la misoginia. Nel frattempo, Marina, con il consenso di Margarita, racconta a Lucietta l’intera faccenda del matrimonio, compreso l’impegno che Felicia si era assunta di far incontrare i due promessi sposi. Infatti, poco dopo giunge Felice che preannuncia l’imminente arrivo di Felippetto. Questo arriva mascherato da donna, accompagnato dal conte Riccardo. I due si piacciono a prima vista. Il dolce incontro viene però bruscamente interrotto dal ritorno inaspettato di Lunardo, Simon e Canciano. Lunardo, del tutto imprevedibilmente, annuncia alle donne che il matrimonio si sarebbe fatto «ancuo, adessadesso», e che Maurizio era già stato mandato a chiamare il figlio. Questo torna, trafelato, dicendo di non aver trovato il figlio a casa, che infatti, insieme al conte Riccardo, si era nascosto in una stanza.

Atto terzo

Scoppia il putiferio tra gli uomini, che si lamentano delle proprie mogli e accusano quelle degli altri. La situazione viene risolta solo dall’intervento di Felice, che, dimostrando fermezza ed abilità retorica, riesce a convincere i quattro rusteghi che, dopotutto, non era successo nulla di grave. Dopo gli ultimi rimproveri ai figli da parte dei rispettivi padri, tutti si riconciliano e Felice può ben ricordare il motivo per cui si erano dati appuntamento, ossia cenare piacevolmente insieme.

Personaggi

rusteghi

I quattro rusteghi che danno il nome alla commedia sono, in ordine di apparizione, Lunardo, Maurizio, Simon e Canciano. Tutti e quattro condividono diversi aspetti in comune: cercano di imporre alle rispettive mogli le usanze tradizionali, di frenarle nelle mode da loro considerate troppo bizzarre o eccentriche; vietano loro di uscire di casa, addirittura di affacciarsi sul balcone, e di andare alle feste o a vedere commedie; non sopportano estranei in casa, e ciò denota anche una loro naturale ripulsione verso la conversazione. È significativo il fatto che Goldoni sfaccetti lo stesso genere di personaggio. Nelle proprie rappresentazioni, egli vuole rappresentare tutta la realtà contemporanea, nelle sue multiformi manifestazioni, osservandone i vari tipi umani e situazioni che vi si possono determinare: in ciò si allontana della tradizione della Commedia dell’Arte, fino ad allora di molto successo, che rappresentava solo stereotipi per ogni personaggio. La figura del rustego, in questo caso, si amplia, e al suo interno si crea tutta una serie di caratteri aventi ognuno una propria particolarità, non solo fisica, ma anche morale e psicologica.

Lunardo

Lunardo è un mercante, marito di Margarita e padre di Lucietta: già di primo acchito, dopo una descrizione indiretta da parte di moglie e figlia (I, 1), si mostra come un personaggio serio, che tende ad imporre la sua autorità (I, 2), nonostante il suo intercalare «vegnimo a dir el merito», al pari del «figurarse» di sua moglie, lo renda un poco ridicolo. Sebbene sia sicuramente impulsivo e diffidente, in alcune battute emerge il suo carattere a volte affettuoso, cauto ed appassionato: evita, infatti, di entrare in liti furibonde con Margarita (I, 2: «Cussì, vedeu? me piase anca mi praticar»), e, a volte, usa persino espressioni dolci (I, 2: «Via, vegní qua tute do, sentí»). È il primo a parlare dopo che Felicia ha terminato il suo persuasivo discorso rivolto ai quattro (III, 2: «Cossa diseu, sior Simon?»).

Maurizio

Maurizio, cognato di Marina e padre di Felippetto, è il più avaro: ciò si evince già dalla prima scena in cui compare, dove si mette a discorrere con Lunardo della dote della figlia come se si trattasse di una pura compravendita commerciale (I, 5). Dotato di questo spirito da mercante, è strettamente chiuso nel suo mondo e pensa di avere autorità sul figlio (I, 5: «el puto farà tuto quelo che voggio mi»), cercando di imporgliela in modo goffo (III, ultima: «Varda ben che anca se ti te maridi, voggio che ti me usi l’istessa ubidienza, e che ti dipendi da mi», subito dopo accettando Lucietta come figlia).

Simon

Simon è un mercante, marito di Marina. Appena entra in scena, in casa sua, scaccia Felippetto (suo nipote) bruscamente (I, 7: rivolto alla moglie, afferma che «Tuto quelo che no me piase, ve lo posso, e ve lo voggio impedir»), mostrando di essere il rustego più duro ed inaccessibile: ostinato, nemmeno dice alla moglie dove sarebbero andati a mangiare (I, 8).

Canciano

Canciano, marito di Felice, è il più debole dei quattro, di poche parole e vilmente sottomesso alla moglie (I, 9: è l’unico che dice «siora sì»). Già nella prima scena in cui compare viene messo in disparte e si capisce che la moglie sta tramando qualcosa, siccome va in giro col conte Riccardo, che Canciano neanche conosce, con la tacita approvazione del marito. Rifiuta ogni stimolo di conversazione col conte Riccardo, mentre si mostra più che loquace con gli altri rusteghi, mentre sparla del carattere delle donne e dei modi con cui si dovrebbe «castigarle» (III, 1).

Le donne

Le donne sono certamente molto più differenziate dei rusteghi. Esiste una profonda differenza fra la concezione del mondo di queste ultime della commedia e quella dei mariti: mentre questi sono ostinatamente legati a regole dettate da un irragionevole senso del pudore o della tradizione, le donne sono portatrici di un senso della misura molto più sano ed elastico; Felicia testimonia questa visione della vita nel suo discorso ai rusteghi nella scena seconda del terzo atto:

« Acordo anca mi, che le pute no sta ben che le fazza l’amor, che el mario ghe l’ha da trovar so sior padre, e che la ha da obedir, ma no xe mo gnanca giusto de meter a le fie un lazzo al colo. »
(Atto III, scena 2)

Margarita

Margarita, moglie di Lunardo in seconde nozze, è la donna meno briosa. Con la figliastra Lucietta ha un rapporto altalenante, fatto di ostinati, ma non troppo convinti, divieti, compromessi, concessioni e qualche piccola litigata. Lucietta prova nei confronti di Margarita un tiepido affetto, mentre Margarita appare solamente affettuosa, ma prova in realtà invidia per Lucietta che è in procinto di sposare un giovane e bell’uomo, quale Filippetto, a differenza di Margarita, moglie del vecchio Lunardo. Di carattere arrendevole e pauroso, ma anche buono e ragionevole, Margarita intrattiene col marito la relazione migliore fra le coppie della commedia: entrambi replicano e si ascoltano a vicenda, sebbene Margarita mostri, soprattutto all’inizio, una certa arrendevolezza al coniuge. Nel terzo atto, invece, finalmente, si fa portavoce delle istanze della figliastra e al marito dice, pur moderata nel tono, convinta e sicura:

« Ghe voggio mo intrar anca mi in sto negozio. Sior sì, m’ha despiasso che el vegna: l’ha fato mal a vegnir; ma col gh’ha dà la man, no xe fenìo tuto? Fina a un certo segno me l’ho lassada passar, ma adesso mo ve digo, sior sì, el l’ha da tor, el l’ha da sposar. […] Via, caro mario, ve compatisso. Conosso el vostro temperamento: sé un galantomo, sé amoroso, sé de bon cuor; ma, figurarse, sé un pocheto sutilo. Sta volta gh’avè anca rason: ma finalmente tanto vostra fia, quanto mi, v’avemo domandà perdonanza. Credème, che a redur una donna a sto passo, ghe vol asse. Ma lo fazzo, perché ve voggio ben, perché voggio ben a sta puta, benché no l’al conossa, o no la voggio conosser. Per éla, per vu, me caverave tuto quelo che gh’ho: sparzerave el sangue per la pase de sta fameggia »
(Atto III, scena ultima)

Marina

Marina, moglie di Simon, buona e amante del pettegolezzo, è la prima a voler cercare di render giustizia e a pronunciare a Felippetto, riferendosi a Lucietta, la frase da cui nasce tutto l’espediente:

« Sarave meggio che la vedessi avanti. »
(Atto I, scena 6)

Con tutti intrattiene rapporti di affettuosità, soprattutto con i due giovani, di cui si prende fortemente a cuore il desiderio di incontrarsi. È lei a dare la lieta notizia a Lucietta, previo l’ottenimento del consenso, a scapito di litigi, della matrigna. Col marito, invece, ha una relazione disastrosa, ma non per causa sua, bensì per l’assurda ottusità di Simon. Non si fa sottomettere, ma non riesce ad aver ragione delle reticenze ingiustificate del marito, che non le dice nemmeno dove sarebbero andati la sera né con chi. Solo nel terzo atto riesce finalmente a zittirlo:

« Felicia: Son stada mi, ve digo, son stada mi. Marina: Per dir la verità, gh’ho anca mi la mia parte de merito. Simon: Eh, savemo che sé una signora de spirito (a Marina, con ironia Marina: Più de vu certo. »
(Atto III, scena 4)

Felice

Felice è certamente la figura più baldanzosa di tutta la commedia. Stupisce la sua posizione di dominanza rispetto al marito Canciano, che la rende unica fra tutte le donne. Intraprendente e risoluta, dà l’impressione di aver in mano l’intera situazione, talvolta sfiorando la presunzione (II, 8: «lassème far a mi. So mi quel che gh’ho da dir»). Sa, tuttavia, riconoscere i suoi sbagli (II, 14: «Son una donna onorata. Ho falà, e ghe vôi remediar»), e riesce magistralmente a risolvere la situazione. È lei, infatti, che parla ai rusteghi facendoli ragionare sull’insensatezza delle loro decisioni, persuadendoli che non c’era nulla di male nel fatto che Felippetto e Lucietta si vedessero; Felicia si mostra sempre sicura di sé, affermando di essere una «donna civil», «donna giusta» e «donna d’onor» (III, 2). Si assume tutte le responsabilità della vicenda (III, 4: «No la ghe n’ha colpa, son causa mi», «Parlè con mi, ve responderò mi», «Criè co mi, che son causa mi») e scioglie, finalmente, tutte le tensioni, offrendo anche una sincera lezione di vita:

« In soma, se volè viver quieti, se volè star in bon co le muggier, fe da omeni, ma no da salvadeghi; comandè, no tiraneggiè, e amè, se volè esser amai. »
(Atto III, scena ultima)

Lucietta e Felippetto

Lucietta e Felippetto, i due giovani mai incontratisi, ma destinati dai padri a sposarsi, sono figure rispettose, ingenue e inesperte. Non tentano mai di sovvertire l’ordine, ma subiscono passivamente sia le imposizioni limitanti dei padri, sia l’euforia delle donne, che quasi, specialmente Marina e Felicia, sembrano assumersi in modo sentito l’incarico di farli incontrare. In questo essi non possono essere visti come i diretti antagonisti dei rusteghi, perché mancano di forza propria; anzi, risultano, con la loro subordinazione, taciti approvatori dell’obsoleta tradizione che i padri stanno portando ostinatamente avanti.

La critica della borghesia

Nei capolavori goldoniani tra gli anni 1759 e 1762 (Gl’innamoratiLa casa nova, la «Trilogia della villeggiatura», Sior Todero brontolon e Le baruffe chiozzotte, oltre che I rusteghi) si assiste ad una profonda critica della borghesia. I quattro rusteghi rappresentano, appunto, il ripiegamento conservatore di questo ceto, che viene contrapposto alla vitalità dei giovani e delle donne della commedia.

Il paragone con Pantalone

Pur appartenenti al medesimo strato sociale, i rusteghi si contrappongono in modo forte alla saggezza del borghese Pantalone, protagonista de La famiglia dell’antiquario, commedia scritta una decina di anni prima. Pantalone si impegnava nella ricomposizione del diverbio nato fra la suocera e la nuora, che minacciava l’unità familiare, mentre questo compito, ne I rusteghi, è svolto dalle mogli e non dai quattro zotici che danno il titolo alla commedia. Le somiglianze ci sono: non si mette in dubbio la laboriosità e l’onestà dei rusteghi, delle quali, peraltro, non si accenna nemmeno; ma l’adesione maniacale a dei principi tradizionalisti ne decretano il giudizio negativo.

Teatro e metateatro

Tutta la vicenda è incentrata in una situazione di metateatro. Già nella prima scena Margarita e Lucietta si lamentano di non essere potute andare a vedere, durante tutto il Carnevale, «gnanca una strazza de comedia». Goldoni sfrutta questo espediente per accrescere la simpatia del pubblico verso le donne, che, al contrario dei mariti che ritengono il teatro una disprezzabile e sconveniente perdita di tempo, guardano ad esso come una valvola di sfogo per le pressioni che i mariti esercitano su di loro, esattamente come il pubblico veneziano di quel periodo guardava alle rappresentazioni sceniche. Altri esempi di metateatro, più espliciti, sono la battuta del conte Riccardo nella scena undicesima del secondo atto:

« Riccardo: (Sono obbligato alla signora Felicia, che oggi mi ha fatto godere la più bella commedia di questo mondo) »
(Atto II, scena 11)

e le battute di Felicia alla fine sia del secondo sia del terzo atto:

« Riccardo: Ma come? Felicia: Come, come! se ghe digo el come, xè fenìa la comedia. Andemo. »
(Atto II, scena 14)
« Felicia: […] Stemo aliegri, magnemo, bevemo, e femo un prindese alla salute de tuti queli che con tanta bontà e cortesia n’ha ascoltà, n’ha sofferto, e n’ha compatìo. »
(Atto III, scena ultima)

Miracolo a Verona: I Rusteghi di Goldoni al Teatro Romano, fedeli al testo, senza stravolgimenti. Eppure, un successo!

VERONA, venerdì 10 luglio  ● 
(di Paolo A. Paganini) A Teatro si può essere straordinariamente felici o disperatamente tristi. Con tutte le sfumature del grigio. Al Teatro Romano, dov’è andata in scena, in prima nazionale, la commedia di Goldoni “I rusteghi”, è esplosa la santabarbara della felicità teatrale. Cos’è successo? Diciamolo in due parole. Con una piccola divagazione. In un’epoca che vede spesso uno scriteriato antagonismo tra regista e autore, con il pretesto d’un aggiornamento, d’una attualizzazione, d’un adeguamento a un malinteso senso di modernità, si pretende di sancire il “diritto” del regista a una personale creatività, del tutto arbitraria, che spesso si riduce a eccentrici stravolgimenti. Poi, il regista, compiaciuto, sembra che voglia dire: “Visto che bravo?”. Salvo incavolarsi a qualche critica non allineata. In genere, il pubblico lo applaude credendo di aver visto Shakespeare o Goldoni. E viene invece diseducato alla conoscenza di Shakespeare o di Goldoni.
Torniamo al Teatro Romano di Verona.
“I rusteghi”, scritti nel 1760, quando già Goldoni guardava all’Illuminismo e all”amico” Voltaire, sono di una straordinaria, incredibile modernità. Si dibatte addirittura, in embrione, della dignità ed eguaglianza della donna, criticandone qualche sobbalzo d’indipendenza (In suma, o co le bone, o co le cattive, le fa tutto quel che le vol…), si parla del rapporto genitori e figli, si discute di autorità e dispotismo, si denuncia ironicamente la libertà come fonte di ogni disordine. Basta. Per dire soltanto di quale lungimirante visione oltre gli orizzonti del suo tempo andasse l’occhio di Goldoni con questi “Rusteghi”.
E, tuttavia, ciò è addirittura secondario rispetto alla sua fulgida e spregiudicata bellezza letteraria e drammaturgica, ch’è anche un apologo in difesa del teatro contro la malmostosa tirchieria dei nostri quattro “selvadeghi” goldoniani, ottusi, autoritari, depositari d’un diritto che nasce da un indiscutibile e autoritario “son paròn mi“, che spiega tutto senza spiegare niente.
Ma veniamo alla mess’in scena ad opera dello Stabile del Veneto, Teatro nazionale, con la regia di Giuseppe Emiliani, che, udite udite, non stravolge niente, non cambia niente, non crea niente, ma si attiene al testo, rispettando la natura dei personaggi, in un lavoro di limpida e onesta interpretazione dell’originale, privilegiando l’autore, e ancor più rispettando il pubblico, il suo pubblico veneto, che gli ha tributato un’apotesi di applausi e di risate.
Ma, ancora, dove sta la straordinarietà dell’operazione?
In poco più di due ore con un intervallo (con la regia di Massimo Castri, nel ’92, al Teatro Nazionale di Milano, cominciava alle 21.10 e terminava a mezzanotte e venti; e anche nell’edizione del 2003 firmata da Francesco Macedonio i tempi non si discostavano troppo), Emiliani ha concepito l’allestimento come un concertato ora a due voci, ora a tre, ora tutt’insieme, quasi come in un’opera buffa o, se preferite, come in uno scatenato cabaret, in una irresistibile successione di battute fulminanti, che non danno tregua. E tutto con le parole, lo spirito e le intenzioni di Goldoni, senza nulla togliere o aggiungere (ma con una “birichinata” finale del regista). Semmai, l’originalità di Emiliani riguarda proprio i tempi, sempre larghi nel dialetto veneto, così propenso al ragionamento filosofico, all’indugiare in pause d’effetto. E qui invece no. Il pubblico non fa in tempo a tirare il fiato, che subito è travolto da altre bordate di goduriose risate. Non si salva nessuno, grazie, però e soprattutto, a un eccezionale staff attoriale.
Il “rustego” Lunardo, occhiuto inesorabile “custode” delle virtù delle due giovani donne di casa, la figlia di primo letto (l’ottima Margherita Mannino) e la moglie sposata in seconde nozze (Cecilia La Monaca), è interpretato da uno strepitoso Giancarlo Previati. Il rustego Maurizio, vedovo e inflessibile padre di Filippeto (Francesco Wolf) è un convincente Alberto Fasoli. Il rustego Simon (Piergiorgio Fasolo) e Marina (Maria Grazia Mandruzzato), sono marito e moglie sempre l’un contro l’altra armati “Se el me dise tantin, mi ghe respondo tanton”. Il rustego Canciano (Alessandro Albertin) e Felice (Stefania Felicioli, alter ego in gonnella del pensiero di Goldoni) sono, tutto sommato, la coppia più civile, anche perché il rapporto marito/moglie tende a rovesciarsi sul ponte di comando. Michele Maccagno, infine, nel ruolo del Conte Riccardo, è qui un’altra bella invenzione di Goldoni, quasi anticipando i futuri tormentoni dei nostrani varietà. Almeno un cenno alla funzionale scenografia di Federico Cautero e ai costumi di Stefano Nicolao.

“I rusteghi” di Carlo Goldoni, Compagnia Teatro Stabile del Veneto, regia di Giuseppe Emiliani. Al Teatro Romano di Verona. Repliche fino a martedì 14 giugno.
Il prossimo anno, per ora, si conoscono le seguenti date:3-7 febbraio: Teatro Goldoni, Venezia – 10-14 febbraio: Teatro Verdi, Padova – 17-21 febbraio: Teatro Politeama Rossetti, Trieste – 23 febbraio: Teatro Fabbri, Vignola – 25-28 febbraio: Teatro Bonci, Cesena – 3-6 marzo: Teatro Metastasio, Prato – 9-13 marzo: Teatro Sociale, Brescia

ESTATE TEATRALE. La commedia di Goldoni da stasera a martedì 14

I Rusteghi, ritorno
dopo vent’anni
«Nuova emozione»

Alessandra Galetto

Stefania Felicioli (Felice) e Piergiorgio Fasolo (Simon) erano stati Lucietta e Felippetto nell’edizione del ’92 «Rientriamo nel testo scoprendone altre valenze»

giovedì 09 luglio 2015 SPETTACOLI, pagina 51

Una scena dei Rusteghi del Teatro Stabile del Veneto, da stasera al Teatro Romano FOTO …

Debutta questa sera alle 21,15 in prima nazionale al Teatro Romano, secondo appuntamento dell’Estate Teatrale Veronese, I rusteghi di Carlo Goldoni per la regia di Giuseppe Emiliani, che resterà in cartellone fino a martedì 14. Si tratta di uno dei testi più amati dal pubblico, che però al Romano non era più stato rappresentato dal 1992, quando a portarlo in scena era stato il regista Massimo Castri, offrendo della commedia un’interpretazione innovativa, che ebbe grande successo. Ma il legame con quell’ultima rappresentazione dei Rusteghi non si limita al titolo. Due degli attori che infatti incontreremo questa sera, protagonisti della commedia, erano, con parti ovviamente differenti, anche nel cast di quei Rusteghi di 23 anni fa. Sono Stefania Felicioli, che ha il ruolo di Felice, la moglie del rustego Canciano, e che invece 23 anni fa era la giovane Lucietta, e Piergiorgio Fasolo, che interpreta un altro rustego, Simon, e che in passato era stato Felippetto.Tornate nello stesso luogo, al Teatro Romano, e con lo stesso testo, I rusteghi, ma in ruoli differenti da vent’anni fa. Che effetto fa rientrare nel testo ma da un altro punto di vista?Felicioli: Tornare al Teatro Romano mi emoziona sempre, ma devo ammettere che questa volta l’emozione è al quadrato, se non al cubo. Torno infatti con un testo che ho fatto più e più volte e di cui credevo di conoscere tutte le sfumature, e se devo essere sincera, prima di cominciare a studiare la nuova parte, ero piuttosto preoccupata perchè temevo di essere per così dire «corrotta» rispetto ad un’opera che mi pareva di conoscere così bene. Ho scoperto con stupore con quanta ricchezza invece Goldoni si lasci riscoprire, se solo si cambia prospettiva. Di Felice ad esempio non mi ero mai accorta prima di una vena direi sentimentale sotto l’apparenza frivola. Nel celebre finale la sua battuta «Amate se volete essere amati» ci fa capire che questa donna «sente».Fasolo: Non è solo un’occasione per scoprire I rusteghi da un’altra prospettiva. È davvero una prima volta, innanzitutto perchè li affronto con una maturità diversa, e poi anche se volessi e potessi ripetere il vecchio ruolo, fare Felippetto, già fatto tante volte, non mi divertirebbe più.Voi avete recitato insieme ormai in molti spettacoli. Ma è vero che Stefania deve a lei, Piergiorgio, il suo debutto nella carriera di attrice?Fasolo: Senza esagerare (sarebbe diventata attrice comunque), è però vero che io l’ho vista, ho pensato che era molto brava e l’ho segnalata. La storia è semplice. Parliamo del 1984, io allora già lavoravo per la compagnia Veneto Teatro, che in sostanza era l’attuale Teatro Stabile del Veneto. Ero stato contattato per fare Il campiello, l’edizione con la regia di Sandro Sequi. Mi avevano chiesto se conoscessi una ragazza di non più di 18 anni per la parte di Gnese. Avevo visto di recente uno spettacolo del Teatro a l’Avogaria in cui Stefania faceva la parte di un ragazzino e mi aveva molto colpito, ho fatto il suo nome e ci siamo ritrovati nel Campiello. Goldoni dunque filo conduttore che vi porta a questa sera. In cui viene messo in scena un Goldoni letto in chiave moderna, precursore dei cambiamenti del tempo. Un messaggio capace di parlare al pubblico di oggi?Felicioli: Il mio ruolo in particolare è estremamente moderno, alle donne e a Felice in particolare è affidata la capacità di andare oltre i pregiudizi della fiacca classe borghese, fatta di uomini vecchi dentro.Fasolo: Come tutti i grandi autori, Goldoni offre un’interpretazione del mondo che va oltre il limite delle mode dei tempi e parla al lettore, allo spettatore di sempre. Con I Rusteghi in particolare si fa interprete di una modernità anche storica, mostrandosi capace di cogliere i fermenti di rinnovamento che rivoluzioneranno l’epoca successiva alla sua.

Comunicato stampa Estate Teatrale Veronese

Il 9 luglio debuttano in prima nazionale al Teatro Romano I rusteghi di Carlo Goldoni Dopo Rosencrantz e Guildenstern sono morti di Tom Stoppard che ha felicemente inaugurato il 67esimo Festival Shakespeariano dell’Estate Teatrale Veronese, il testimone passa a Carlo Goldoni, a un suo classico che da anni non era rappresentato al Teatro Romano. Del grande commediografo veneziano andranno in scena, il 9 luglio alle 21.15 in prima nazionale, I rusteghi nell’allestimento del Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale con la regia di Giuseppe Emiliani. In scena un affiatassimo gruppo di attori specialisti nel repertorio goldoniano: Alessandro Albertin, Alberto Fasoli, Piergiorgio Fasolo, Stefania Felicioli, Cecilia La Monaca, Michele Maccagno, Maria Grazia Mandruzzato, Margherita Mannino, Giancarlo Previati e Francesco Wolf. Repliche il 10, 11, 13 e 14 luglio. Dopo il debutto veronese lo spettacolo sarà in scena, nella prossima stagione invernale, a Venezia, Padova, Trieste, Vignola, Cesena, Prato e Brescia. Scritta nel gennaio 1760 a chiusura del Carnevale, la commedia fu rappresentata per la prima volta al Teatro San Luca di Venezia il 16 febbraio con il titolo La compagnia dei selvadeghi, o sia i Rusteghi suscitando grande entusiasmo nel pubblico, tanto che nell’edizione Pasquali del 1762 Goldoni stesso dichiarò: «Il pubblico si è moltissimo divertito, e posso dire che quest’opera è una delle mie più fortunate, perché non solo in Venezia riuscì gradita, ma da per tutto, dove finora fu dai comici rappresentata». «Quando scrive I rusteghi – spiega il regista Giuseppe Emiliani – Goldoni è un intellettuale sempre più lucido, aperto alle esperienze e alla cultura europea (nel 1760 avverrà il famoso contatto epistolare con Voltaire), più filosofo insomma, nel senso settecentesco del termine. I rusteghi nascono anche da questa attenzione ai “lumi” che vengono dall’Europa, e permettono un giudizio più ampio sulla società veneziana. I “rusteghi” del titolo sono quattro uomini (sulla quarantina, non i vecchi entrati nell’immaginario del pubblico) alle prese con un eros inquieto e perturbante, con famiglie difficili da governare e con affari ancora prosperi ma già minacciati dalla crisi. Sono quattro “rusteghi” che – prosegue Emiliani – si sentono minacciati dai grandi rivolgimenti che stanno per toccare Venezia e riescono a esistere soltanto nel chiuso delle loro mura domestiche dove agiscono con prepotenza insopportabile vietando visite, divertimenti, sprechi e frivolezze e ogni minima forma di ozio, soprattutto il teatro. Considerano il teatro luogo di corruzione e di spreco, come il carnevale che c’è fuori e a cui è vietato partecipare. Ma il carnevale negato, alla fine irromperà lo stesso nelle stanze serrate e austere, con tutta la sua carica di comicità trasgressiva. Netta, evidente – conclude Emiliani – è la polemica di Goldoni con il conservatorismo ormai rozzo della classe cui apparteneva e in cui aveva per molto tempo ciecamente creduto». La commozione finale dei quattro “rusteghi”, occasionalmente sconfitti, non prelude a significativi cambiamenti. Questa la sottile crudeltà sottesa alla commedia. E la sua straordinaria modernità. Venerdì 10 luglio alle 17.30 la compagnia incontrerà il pubblico presso la Biblioteca Civica, via Cappello 43. L’incontro, a ingresso libero, sarà condotto dalla giornalista Betty Zanotelli.

CarloGoldoni

IRUSTEGHI

 

L’AUTOREA CHI LEGGE

I Rusteghi in lingua Veneziana non è lo stesso che i Rustici in lingua Toscana. Noi intendiamo in Venezia per uomo Rustego un uomo aspro zottico nemico della civiltà della cultura del conversare. Si scorge dal titolo della Commedia non essere un solo il Protagonista ma varii insiemee in fatti sono eglino quattro tutti dello stesso carattere ma con varie tinte delineati cosa per dire il vero dificilissima sembrando che più caratteri eguali in una stessa Commedia possano più annoiare che dilettare.

Questa volta mi è riuscito tutto al contrario: il Pubblico si è moltissimo divertito e posso dire quest’opera una delle mie più fortunate; perché non solo in Venezia riuscì gradita ma da per tutto dove finora fu dai comici rappresentata. Ciò vuol dire che il costume ridicolo delle Persone è conosciuto da tutti e poco scapita la Commedia per il linguaggio particolare.Quantunque per altro sia stata fuor di qui recitata con buona sorte son sicurissimo che tutti i terminie tutte le frasi nostre non possono esser capiteperò con quanto studio ho potutone ho posta in piè di pagina la spiegazione.

Molti bramerebbero un Dizionario Veneziano per intendere questa lingua ed io stesso ho pensato di farlo; ma credo sieno meglio i Leggitoriserviti dando loro la spiegazione sul fattoanzicchédistrarli dalla letturaper ricorrere al Dizionarioil quale non sipuò aver sempre vicino quando bisogna.

Ionon credea veramente dover sì presto annicchiare ne’ primiTomi di quest’edizione Commedie in Veneziana favella. L’ho fatto perla ragione accennata nella precedente epistola dedicatoriae non mipento d’averlo fattodacché parmi colle annotazioni piùnecessarie aver chiarito il più difficile da capirsi. Ho datala spiegazione a tutti quei terminie a quelle frasiche nonpossono dagli stranieri rinvenirsi nei Vocabolari Italiani; ma quellevociche hanno in qualche modo dell’analogia colle dizioni Toscanele ho lasciate com’eranopotendo chi ha un po’ di talento conoscernela derivazionee superare la picciola diferenza. Per esempioleconiugazioni de’ verbi sono alquanto diversema si capisconofacilmente: “farave” per “farei”; “son andà”per “sono andato”; “se savessi” in luogo di “sesapeste”non sono modi sì straniche abbino bisogno dispiegazionené basterebbe il Dizionario a spiegarlima vivorrebbe ancor la Grammatica.

Anchel’ortografia Veneziana altera talvolta il significatoma chi viabbada l’intendeed è l’ortografia regolata secondo il suonodella pronuncia. Noiper esempionon diciamo “bello”ma”belo”non “perfetto”ma “perfeto”; eper regola generale quasi tutte le consonanti doppie da noi sipronunciano semplici. Però in alcune voci le lettere semplicida noi si raddoppianocome in luogo di “cosa” noi diciamo”cossa”ma queste sono pochissime.

Ipronomi hanno qualche diversità dai Toscani: i piùosservabili sono “io”che si dice “mi””tu”che si dice “ti””egli”che dicesi “elo”.Così è osservabile nella espressione dei verbichetanto nel singolareche nel pluralesi dice nella stessa maniera.Per esempio: “io andava: mi andava”; “quelli andavano:queli andava”. Molto vi vorrebbe per dir tutto su tal proposito.Per ora basti così. Può essere che in altra occasionedirò qualche cosa di più.

 

Personaggi

Cancianocittadino

Felicemoglie di Canciano

Ilconte Riccardo

Lunardomercante

Margaritamoglie di Lunardo in seconde nozze

Luciettafigliuola di Lunardo del primo letto

Simonmercante

Marinamoglie di Simon

Mauriziocognato di Marina

Filippettofigliuolo di Maurizio

Lascena si rappresenta in Venezia

 

ATTOPRIMO

SCENA PRIMA

Camerain casa di Lunardo

MARGARITA che fila. LUCIETTA che fa le calze. Ambe a sedere

Lucietta:Siora madre.

Margarita:Fia mia.

Lucietta:Deboto xè fenìo carneval.

Margarita:Cossa diseuche bei spassiche avemo abuo ?

Lucietta:De diana! gnanca una strazza de commedia no avemo visto.

Margarita:Ve feu maraveggia per questo? Mi gnente affato. Xèdeboto sedese mesiche son maridada m’àlo mai menà innissun liogo vostro sior padre?

Lucietta:E sìsàla? no vedeva l’orache el setornasse a maridar. Co giera solain casadiseva tra de mi: locompatisso sior padre; élo no me vol menarnol gh’ha nissunda mandarme; se el se maridaanderò co siora maregna. El s’hatornà a maridarma per quelche vedono ghe xègnente né per miné per éla.

Margarita:El xè un orsofia mia; nol se diverte éloenol vol che se divertimo gnanca nu. E sìsavè? cogiera da maridardei spassi no me ne mancava. Son stada arlevadaben. Mia mare giera una donna sutilae se qualcossa no ghe piasevala saveva criare la saveva menar le man. Ma ai so tempi la ne davai nostri divertimenti. Figurarsel’autuno se andava do o tre volteal teatro; el carneval cinque o sie. Se qualchedun ghe dava unachiave de palco la ne menava all’operase noalla comediae lacomprava la so bona chiavee la spendeva i so boni bezzeti. Laprocurava de andar dove la savevache se fava delle comedie bonedapoderghe menar de le fiee la vegniva con nue se divertivimo.Andévimofigurarsequalche volta a Reduto; un pochetin sulListonun pochetin in Piazzeta da le stròleghedai buratinie un pèr de volte ai casoti. Co stevimo po in casagh’avevimosempre la nostra conversazion. Vegniva i parentivegniva i amicianca qualche zovene; ma no ghe giera pericolofigurarse.

Lucietta:(“Figurarsefigurarse”; la l’ha dito fin adessosie volte).

Margarita:No digo; che no son de queleche ghe piasa tutto el zornoandar a torziando . Masior sì. Qualche volta me piaseraveanca a mi.

Lucietta:E mi poverazza che no vago mai fora della porta? E nol volmo gnanca che vaga un fià al balcon? L’altro zorno me sonbutada cusìun pocheto in scampar; m’ha visto quella petazzadella lasagnerala ghe l’ha ditoe ho credestoche el me bastona.

Margarita:E a mi quante no me n’àlo dito per causa vostra?

Lucietta:De diana! cossa ghe fazzio?

Margarita:Vu almancofia miave mariderè; ma mi gh’ho dastar finche vivo.

Lucietta:La digasiora madreme marideròggio?

Margarita:Mi crederave de sì.

Lucietta:La digasiora madree quando me marideròggio?

Margarita:Ve mariderèfigurarsequandoche el Cielo vorà.

Lucietta:El Cielo me marideràlosenza che mi lo sappia?

Margarita:Che spropositi! l’avè da saver anca vu.

Lucietta:Nissun gnancora m’ha dito gnente.

Margarita:Se no i ve l’ha ditoi ve lo dirà.

Lucietta:Ghe xè gnente in cantier?

Margarita:Ghe xèe no ghe xè; mio mario no vol che vediga gnente.

Lucietta:Cara élala diga.

Margarita:No dassenofia mia.

Lucietta:Cara élaqualcossa.

Margarita:Se ve digo gnenteel me salta ai occhi co fa un basilisco.

Lucietta:Noi lo saverà miga sior padrese la me lo dise.

Margarita:Oh figurarsese no lo dirè!

Lucietta:No dassenofigurarseche no lo digo.

Margarita:Cossa gh’intra sto “figurarse”?

Lucietta:No so gnanca migh’ho sto usoel digoche no men’incorzo.

Margarita:(Gh’ho in testache la me burla mi sta frascona).

Lucietta:La digasiora madre.

Margarita:Animo laorèl’aveu gnancora fenìa quellacalza!

Lucietta:Deboto.

Margarita:Se el vien a casa éloe che la calza no sia fenìael dirà che sè stada su per i balconie mi no vòifigurarse… (sia maledeto sto vizio!)

Lucietta:La varda co spessego . La me diga qualcossa de sto novizzo.

Margarita:De qual novizzo?

Lucietta:No dìxelache me mariderò?

Margarita:Pol esser.

Lucietta:Cara élase la sa qualcossa.

Margarita:No so gnente. (con un poco di collera)

Lucietta:Gnanca mo gnentemognanca mo.

Margarita:Son stuffa.

Lucietta:Sia malignazo .(con rabbia)

Margarita:Coss’è sti sesti?

Lucietta:No gh’ho nissun a sto mondoche me voggia ben.

Margarita:Ve ne voggio anca troppofrascona.

Lucietta:Ben da maregna . (a mezza voce)

Margarita:Cossa aveu dito?

Lucietta:Gnente.

Margarita:Sentìsavèno me stè a seccarchedebotodeboto… (con isdegno) Davantazo ghe ne soporto assaein sta casa. Gh’ho un mario che me rosega tutto el zornono ghemancarave altrofigurarseche m’avesse da inrabiar anca per lafiastra.

Lucietta:Mo cara siora madre la va in colera molto presto!

Margarita:(La gh’ha squasi rason. No giera cusì una voltasondeventada una bestia. No gh’è remedio; chi sta col lovo imparaa urlar).

SCENASECONDA

LUNARDOe dette

Lumardo:(entra e viene bel bellosenza parlare)

Margarita:(Vèlo qua per diana). (s’alza)

Lucietta:(El vien co fa i gatti). (s’alza) Sior padrepatron.

Margarita:Sioria. No se saludemo gnanca? (a Lunardo)

Lumardo:Laorèlaorè. Per farme un complimentotralassè de laorar?

Lucietta:Ho laorà fin adesso. Ho deboto fenìo la calza.

Margarita:Stago a véderfigurarseche siémo pagae azornada.

Lumardo:Vu semprevegnimo a dir el meritome dè semprede ste risposte.

Lucietta:Mo viacaro sior padre; almanco in sti ultimi zorni decarnevalche nol staga a criar. Se no andemo in nissun logopazenzia; stemo in pase almanco.

Margarita:Ohélo no pol star un zorno senza criar.

Lumardo:Sentì che strambazza? Cossa songio? un tartaro? unabestia? De cossa ve podeu lamentar? Le cosse oneste le me piase ancaa mi.

Lucietta:Via doncache el ne mena un pocheto in maschera.

Lumardo:In maschera? In maschera?

Margarita:(Adessoel va zoso).

Lumardo:E avè tanto muso de dirmeche ve mena in maschera?M’aveu mai visto mivegnimo a dir el meritoa meterme el volto sulmuso? Coss’èla sta maschera? Per cossa se va in maschera? Nome fe parlar; le putte no ha da andar in maschera.

Margarita:E le maridae?

Lumardo:Gnanca le maridaesiora nognanca le maridae.

Margarita:E per cossa donca le altrefigurarseghe vàle?

Lumardo:“Figurarsefigurarse”. Mi penso a casa miaeno penso ai altri. (la burla del suo intercalare)

Margarita:Perché”vegnimo a dir el merito”perchésè un orso. (fa lo stesso)

Lumardo:Siora Margaritala gh’abia giudizio.

Margarita:Sior Lunardono la me stuzzega.

Lucietta:Mo viasia malignazo! sempre cusì. No m’importad’andar in maschera. Starò a casama stemo in bona.

Lumardo:No sentìu? Vegnimo… no sentìu? La xèéla che sempre…

Margarita:(ride)

Lumardo:Ridèpatrona?

Margarita:Ve n’aveu per malperché rido?

Lumardo:Viavegnì qua tutte dosentì. Delle volteanca mi gh’ho qualcossa per la testae parche sia fastidiosomaancuo son de voggia. Semo de carnevale vòiche se tolemo lanostra zornada.

Lucietta:Oh magari.

Margarita:Via mosentimo.

Lumardo:Sentì; voggioche ancuo disnemo in compagnia.

Lucietta:Dovedovesior padre? (con allegria)

Lumardo:In casa.

Lucietta:In casa? (malinconica)

Lumardo:Siora sìin casa. Dove voressi che andessimo?all’osteria?

Lucietta:Sior no all’osteria.

Lumardo:In casa de nissun mi no vagomi no vagovegnimo a direl meritoa magnar le coste a nissun.

Margarita:Viaviano ghe tendè. Parlè con mifiguremosevoleu invidar qualchedun?

Lumardo:Siora sì. Ho invidà della zentee i vegniràquae se goderemoe staremo ben.

Margarita:Chi aveu invidà?

Lumardo:Una compagnia de galantomenitra i quali ghe ne xèdo de maridaie i vegnirà co le so paronee staremoalliegri.

Lucietta:(Viavia gh’ho a caro). (allegra) Caro élochi xèli? (a Lunardo)

Lumardo:Siora curiosa!

Margarita:Viacaro vecchiono volè che sappiemo chi ha davegnir?

Lumardo:No voleuche vel diga? Se sa. Vegnirà sior CanzianTartuffolasior Maurizio dalle Stropee sior Simon Maroele.

Margarita:Cospeto de diana! tre cai su la giusta! I avè bentrovai fora del mazzo.

Lumardo:Cossa voressi dir? No i xè tre omeni co se diè?

Margarita:Sior sì. Tre salvadeghi come vu.

Lumardo:Ehpatronaal tempo d’ancuovegnimo a dir el meritoaun omoche gh’ha giudizio se ghe dise un omo salvadego. Saveuperché? Perché vualtre donne xè tropodesmesteghe. No ve contentè dell’onesto; ve piaserave ichiassetii pacchietile modele buffoneriei putelezzi. A starin casave par de star in preson . Co i abiti no costa assaeno ixè beli; co no se praticave vien la malinconiae no pensèal fin; e no gh’avè un fià de giudizioe ascoltèchi ve mette sue no ve fa specie sentir quel che se dise de tantecasede tante fameggie precipitae; chi ve dà drio se fa menarper lenguase fa meter sui ventolie chi vol viver in casa soa conriguardocon serietàcon reputazionse ghe disevegnimo adir el meritoseccaggineomo rustegoomo salvadego. Pàrlioben? Ve par che diga la verità?

Margarita:Mi no vòi contender; tutto quelche volè.Vegnirà donca a disnar con nu siora Felicee siora Marina.

Lumardo:Siora sì. Cusìvedeu? me piase anca mipraticar. Tutti col so matrimonio. Cusì no ghe xèsporchezzino ghe xèvegnimo a dir el merito… Cosa steu aascoltar? Adesso no se parla con vu. (a Lucietta)

Lucietta:Xèle cosseche mi no possa sentir? (a Lunardo)

Lumardo:(No vedo l’ora de destrigarmela).(piano a Margherita)

Margarita:(Come va quel negozio?) (piano a Lunardo)

Lumardo:(Ve conterò). (piano a Margherita) Andèvia de qua. (a Lucietta)

Lucietta:Cossa ghe fazzio?

Lumardo:Andè via de qua.

Lucietta:De diana! el xè impastà de velen.

Lumardo:Andè viache ve dago una schiaffazza in tel muso.

Lucietta:Séntelasiora madre?

Margarita:Viacol v’ha ditoche andèobedì. (concaldezza)

Lucietta:(Ohse ghe fusse mia mare bona! Pazzenziase me vegnisseun scoazzerlo torìa). (parte)

SCENATERZA

LUNARDOe MARGARITA

Margarita:Caro sior Lunardosul so visono ghe dago rasonma inverità sè troppo rustego con quela puta.

Lumardo:Vedeu? vu no savè gnente. Ghe voggio benma lategno in timor.

Margarita:E mai che ghe dessi un devertimento.

Lumardo:Le pute le ha da star a casae no le se mena a torziando.

Margarita:Almanco una sera alla comedia.

Lumardo:Siora no. Vòi poder dirco la marido; tolèsiorve la dagovegnimo a dir el meritoche no la s’ha mai messomaschera sul visoche no la xè mai stada a un teatro.

Margarita:E cusìvàlo avanti sto maridozzo?

Lumardo:Gh’aveu dito gnente a la puta?

Margarita:Mi? Gnente.

Lumardo:Vardè benvedè.

Margarita:No in veritàve digo.

Lumardo:Mi credovedèmi credo d’averla maridada.

Margarita:Con chi? se porlo saver?

Lumardo:Zitoche gnanca l’aria lo sapia. (guarda intorno)Col fio de sior Maurizio.

Margarita:Co sior Filipetto?

Lumardo:Sìzitono parlè.

Margarita:Zitozitode diana! xèlo qualche contrabando?

Lumardo:No voggioche nissun sapia i fati mi.

Margarita:Se faràlo presto?

Lumardo:Presto.

Margarita:L’àlo fata domandar?

Lumardo:No pensè altro. Che l’ho promessa.

Margarita:Anca promessa ghe l’avè? (con ammirazione)

Lumardo:Siora sìve feu maraveggia?

Margarita:Senza dir gnente?

Lumardo:Son paron mi.

Margarita:Cossa ghe deu de dota?

Lumardo:Queloche voggio mi.

Margarita:Mi son una statuadonca. A mifigurarseno se me disegnente.

Lumardo:“Figurarsefigurarse”no ve lo dìghioadesso?

Margarita:Sior sìe la puta quando lo saveràla?

Lumardo:Co la se sposerà.

Margarita:E no i s’ha da véder avanti?

Lumardo:Siora no.

Margarita:Seu seguroche el gh’abia da piàser?

Lumardo:Son paron mi.

Margarita:Ben ben; la xè vostra fia. Mi no me n’impazzo ; fèpur quel che volè vu.

Lumardo:Mia fia no vòi che nissun possa dir d’averla vistae quel che la vedel’ha da sposar.

Margarita:E se col la vede nol la volesse?

Lumardo:So pare m’ha dà parola.

Margarita:Oh che bel matrimonio!

Lumardo:Cossa voressi? che i fasse prima l’amor?

Margarita:I batei bate; vago a véder chi è.

Lumardo:No ghe xè la serva?

Margarita:La xè a far i letianderò a véder mi.

Lumardo:Siora no. No vòiche andè sul balcon.

Margarita:Vardè che casi!

Lumardo:No vòiche gh’andègh’anderò mi.Comando mivegnimo a dir el meritocomando mi. (parte)

SCENAQUARTA

MARGARITApoi LUNARDO

Margarita:Mo che omoche m’ha toccà! no gh’è elcompagno sotto la capa del cielo. E po el me stuffa con quel so”vegnimo a dir el merito”; debotofigurarseno lo possopiù soportar.

Lumardo:Saveu chi xè?

Margarita:Chi?

Lumardo:Sior Maurizio.

Margarita:El pare del novizzo?

Lumardo:Tasè. Giusto élo.

Margarita:Viènlo per stabilir?

Lumardo:Andè de là.

Margarita:Me mandè via?

Lumardo:Siora sì; andè via de qua.

Margarita:No volèche senta?

Lumardo:Siora no.

Margarita:Vardè vedè! cossa songio mi?

Lumardo:Son paron mi.

Margarita:No son vostra muggier?

Lumardo:Andè via de quave digo.

Margarita:Mo che orso che sè!

Lumardo:Destrighève

Margarita:Mo che satiro! (incaminandosi a piano)

Lumardo:La fenìmio? (con isdegno)

Margarita:Mo che bestia de omo! (parte)

SCENAQUINTA

LUNARDOpoi MARGARITA

Lumardo:La xè andada. Co le bone no se fa gnente. Bisognacriar. Ghe voggio ben assaeghe ne voggio assae; ma in casa mia nogh’è altri paroniche mi.

Maurizio:Sior Lunardopatron.

Lumardo:Bondì siorìasior Maurizio.

Maurizio:Ho parlà con mio fio.

Lumardo:Gh’aveu ditoche el volè maridar?

Maurizio:Ghe l’ho dito.

Lumardo:Cossa dìselo?

Maurizio:El diseche el xè contentoma el gh’averave gustode véderla.

Lumardo:Sior noquesti no xè i nostri pati. (conisdegno)

Maurizio:Viaviano andè in colerache el puto faràtuto quelo che voggio mi.

Lumardo:Co volèvegnimo a dir el meritola dota xèparecchiada. V’ho promesso sie mile ducatie sie mile ducati vedago. Li voleu in tanti zecchiniin tanti ducati d’arzentoo voleuche ve li scriva in banco? comandè.

Maurizio:I bezzi mi no li voggio. O zirème un capital dezeccao investimoli meggio che se pol.

Lumardo:Sì ben; faremo tutto quel che volè.

Maurizio:No stè a spender in abitiche no voggio.

Lumardo:Mi ve la dagocome che la xè.

Maurizio:Gh’àla roba de séa?

Lumardo:La gh’ha qualche strazzeto.

Maurizio:In casa mia no voggio séa. Fin che son vivo mil’hada andar co la vesta de lanae no vòi né tabarininéscuffiené cerchiné toppènécartoline sul fronte.

Lumardo:Bravosieu benedeto. Cusì me piase anca mi. Zoggieghe ne feu?

Maurizio:Ghe farò i so boni manini d’oroe la festa ghe daròun zoggieloche giera de mia muggiere un per de recchineti deperle.

Lumardo:Sì bensì bene no stessi a far laminchioneriade far ligar sta roba a la moda.

Maurizio:Credeuche sia mato? Coss’è sta moda? Le zoggie lexè sempre a la moda. Cossa se stima? i diamantio laligadura?

Lumardo:E pur al dì d’ancuovegnimo a dir el meritosebuta via tanti bezzi in ste ligadure.

Maurizio:Sior sì; fè ligar ogni dies’anni le zoggieincao de cent’anni l’avè comprae do volte.

Lumardo:Ghe xè pochiche pensa come che pensemo nu.

Maurizio:E ghe xè pochiche gh’abbia dei bezzicome chegh’avemo nu.

Lumardo:I dise moche nu no savemo gòder.

Maurizio:Poverazzi! ghe vèdeli drento del nostro cuor?Crédeliche no ghe sia altro mondoche queloche i godelori? Oh compareel xè un bel gusto el poder dir: gh’ho elmio bisognono me manca gnentee in t’una ocorenza posso meter leman su cento zecchini!

Lumardo:Sior sìe magnar bendei boni caponidelle bonepolastree dei boni straculi de vedèlo.

Maurizio:E tutto bone a bon marcàperché se paga devolta in volta.

Lumardo:E a casa soa; senza strepitisenza sussuri.

Maurizio:E senza nissunche v’intriga i bisi.

Lumardo:E nissun sa i fati nostri.

Maurizio:E semo paroni nu.

Lumardo:E la muggier no comanda.

Maurizio:E i fioi sta da fioi.

Lumardo:E mia fia xè arlevada cusì.

Maurizio:Anca mio fio xè una perla. No gh’è pericoloche el buta via un bagatin.

Lumardo:La mia puta sa far de tuto. In casa ho volestoche lafaza de tuto. Fina lavar i piati.

Maurizio:E a mio fioperché no voggioche co le serve el sene impazzagh’ho insegnà a tirar suso i busi delle calzeemetter i fondèli alle braghesse.

Lumardo:Bravo. (ridendo)

Maurizio:Sì dasseno. (ridendo)

Lumardo:Via fémolo sto sposalizio; destrighemose.(fregandosi le manie ridendo)

Maurizio:Co volècompare.

Lumardo:Ancuo v’aspetto a disnar con mi. Za savèche vel’ho dito. Gh’ho quatro latesinivegnimo a dir el meritoma tantofati.

Maurizio:I magneremo.

Lumardo:Se goderemo.

Maurizio:Staremo aliegri.

Lumardo:E po i diràche semo salvadeghi!

Maurizio:Puffe!

Lumardo:Martuffi! (partono)

SCENASESTA

Camerain casa del signor Simon

MARINAe FILIPPETTO

Marina:Coss’ènevodo ? Che miracoloche me vegnì atrovar?

Filippetto:Son vegnù via de mezàe avanti de andar acasa son vegnù un pochetin a saludarla.

Marina:BravoFilipeto; avè fato ben. Sentèvevoleumarendar?

Filippetto:Graziesior’àmia. Bisogna che vaga a casachése sior padre no me trovapovereto mi.

Marina:Disègheche sè stà da vostra àmiaMarinacossa diràlo?

Filippetto:Se la savesse! nol tase mainol me lassa mai un momento delibertà.

Marina:El fa benda una banda. Ma da vostr’àmia el vedoverave lassar vegnir.

Filippetto:Ghe l’ho dito; nol vol che ghe vegna.

Marina:Mo el xè ben un satiro compagno de mio mario.

Filippetto:Sior barba Simonghe xèlo in casa?

Marina:Nol ghe xèma no pol far che el vegna.

Filippetto:Anca éloco el me vedeco vegno quael me cria.

Marina:Lassèche el diga. La sarave bela. Sè mionevodo. Sè fio de una mia sorela; quela poverazza xèmortae posso dirche no gh’ho altri a sto mondoche vu.

Filippetto:No voravecheper causa miael ghe criasse anca a éla.

Marina:Oh per mifio miono vo tolè sto travaggio. Se elme dise tantinmi ghe respondo tanton. Povereta mise no fassecusì! Su tuto el cateria da criar. No credoche ghe sia a stomondo un omo più rustego de mio mario.

Filippetto:Più de sior padre?

Marina:No sovedèla bate là.

Filippetto:Maimaidopo che son a sto mondonol m’ha mai dàun minimo spasso. El dì da laorar a mezàe a casa. Lafesta a far quel che va fattoe po subito a casa. El me fa compagnardal servitore ghe n’ha volesto a persuader el servitor a menarmequa stamatina. Mai una volta alla Zuecamai a Castelomi no credode esser passà in vita mia tre o quattro volte per Piazzaquelche el fa éloel vol che fazza anca mi. La sera fina doore se sta in mezàse cenase va in letoe bondìsiorìa.

Marina:Povero puto; dasseno me fè peccà. Xèvero; la zoventùbisogna tegnirla in frenma el tropo xètropo.

Filippetto:Basta; no sose da qua avanti l’anderà cusì.

Marina:Sè in ti ani de la discrezionel ve doverave dar unpocheto de libertà.

Filippetto:Sàla gnentesior’àmia?

Marina:De cossa?

Filippetto:Nol gh’ha dito gnente sior padre?

Marina:Oh xè un pezzoche no lo vedo.

Filippetto:No la sa gnente donca.

Marina:No so gnente. Cossa ghe xè de niovo?

Filippetto:Se ghe lo digoghe lo diràla a sior padre?

Marina:Nonon v’indubitè.

Filippetto:La varda benla veda.

Marina:Ve digo de nove digo.

Filippetto:La sentael me vuol maridar.

Marina:Dasseno?

Filippetto:El me l’ha dito élo.

Marina:Àlo trovà la novizza?

Filippetto:Siora sì.

Marina:Chi xèla?

Filippetto:Ghe lo diròmacara élala tasa.

Marina:Mo viadeboto me fè rabia. Cossa credeuche sia?

Filippetto:La xè fia de sior Lunardo Cròzzola.

Marina:Sìsìla cognosso. Cioèno lacognosso élama cognosso so maregnasiora MargaritaSalicolache ha sposà sior Lunardoe el xè amigo demio marioun salvadego co fa élo. Mo i s’ha ben catàvedèel padre del novizzo col padre de la novizza. L’aveuvista la puta?

Filippetto:Siora no.

Marina:Avanti de serar el contrato i ve la farà véder.

Filippetto:Mi ho paura de no.

Marina:Oh bela! e se no la ve piase?

Filippetto:Se no la me piasemi no la togo per diana.

Marina:Sarave meggioche la vedessi avanti.

Filippetto:Come vorlache fazza?

Marina:Disèghelo a vostro sior padre.

Filippetto:Ghe l’ho ditoe el m’ha dà su la ose.

Marina:Se savesse come farvorave farvelo mi sto servizio.

Filippetto:Oh magari!

Marina:Ma anca quel orso de sior Lunardo nol la lassa véderda nissun so fia.

Filippetto:Se se podesseuna festa…

Marina:Zitozito che xè qua mio mario.

Filippetto:Vorlache vaga via?

Marina:Fermève.

SCENASETTIMA

SIMONe detti

Simon:(Cossa falo qua sto frascon?)

Filippetto:Patronsior barba.

Simon:Sioria. (bruscamente)

Marina:Un bel acètoche ghe fè a mio nevodo!

Simon:Mi v’ho tolto co sto patoche in casa mia parenti no ghe nevoggio.

Marina:Varè! ve viènli a bater a la portae adomandarve qualcossa i mi parenti? No i gh’ha bisogno de vusior; incao de tantovien mio nevodo a trovarmee ancora me brontolè?Gnanca se fussimo taggialegnignanca se fussimo dalle valade. Vu sèun omo civil? Sè un tangarocompatìme.

Simon:Aveu gnancora fenìo? Stamatin no gh’ho voggia decriar.

Marina:No lo podè véder mio nevodo? Cossa v’àlofato?

Simon:Nol m’ha fato gnente; ghe voggio ben; ma savè che incasa mia no gh’ho gustoche ghe vegna nissun.

Filippetto:Che nol se indubitache no ghe vegnirò più.

Simon:Me farè servizio.

Marina:E mi vòi che el ghe vegna.

Simon:E mi no vòiche el ghe vegna.

Marina:Sta sorte de cosse no me le avè da impedir.

Simon:Tuto queloche no me piaseve lo possoe ve lo voggioimpedir.

Filippetto:Patron. (in atto di partire)

Marina:Aspetè. (a Filippetto) Cossa gh’aveu co stoputo?

Simon:No lo voggio.

Marina:Mo per cossa?

Simon:Per cossao per gambano vòi nissun.

Filippetto:Sior’àmiala me lassa andar via.

Marina:Andèandènevodo. Vegnirò mi davostro sior padre.

Filippetto:Patrona; patronsior barba.

Simon:Sioria.

Filippetto:(Ohel ghe pol a mio padreel xè più rustegodiese volte). (parte)

SCENAOTTAVA

MARINAe SIMON

Marina:Vardè che sesti! cossa voleuche el diga quel putto!

Simon:Lo savè pur el mio temperamento. In casa mia voggiola mia libertà.

Marina:Che intrigo ve dàvelo mio nevodo?

Simon:Gnente. Ma no voggio nissun.

Marina:Perché no andeu in te la vostra camera?

Simon:Perché voggio star qua.

Marina:In veritàche sè caro. Aveu mandà laspesa?

Simon:Siora no.

Marina:No se disna ancuo?

Simon:Siora no. (più forte)

Marina:No se disna?

Simon:Siora no.

Marina:Ghe mancarave anca questache andessi in collera anca coldisnar.

Simon:Zachi ve sente vumi son un stramboun alocco.

Marina:Ma ancuo perché no se disna?

Simon:Perché avemo da andar a disnar fora de casa.

Marina:E mel disè co sta bona grazia?

Simon:Me fè vegnir suso el mio mal.

Marina:Caro mariocompatìmegh’avè un naturalchede le volte fè rabia.

Simon:No lo cognosseu el mio natural? Co lo cognossècossafeu ste scene?

Marina:(Ghe vol una gran pazienzia). Dove andémio a disnar?

Simon:Vegnirè con mi.

Marina:Ma dove?

Simon:Doveche ve menerò mi.

Marina:Per cossa no voleuche lo sappia?

Simon:Cossa importache lo sappiè? Co sè co vostromariono stè a cercar altro.

Marina:In veritàme parè matto. Bisogna ben chesappia dove che s’ha da andarcome che m’ho da vestirche zente ghexè. Se ghe xè suggizionno voggio miga andar a farmesmatar.

Simon:Doveche vago mi sè segurache no ghe xèsuggizion.

Marina:Ma con chi andémio?

Simon:Vegnirè con mi.

Marina:Mo la xè mo curiosa lu!

Simon:Mo la xè curiosa seguro.

Marina:Ho da vegnir senza saver dove?

Simon:Patrona sì.

Marina:Muème el nome se ghe vegno.

Simon:E vu resterè a casa senza disnar.

Marina:Anderò da mio cugnà Maurizio.

Simon:Sior Maurizio vostro cugnà anderà a disnardove che anderemo nu.

Marina:Ma dove?

Simon:Vegnì con miche lo saverè. (parte)

 

SCENANONA

MARINApoi FELICECANCIANO ed il conte RICCARDO

Marina:Mo caro! mo siestu benedetto! mo che bona graziache elgh’ha! I batte. Oevardè che i batte. (alla scena) Laxè una cossa da far rider i capponi. Ho d’andar a disnar forade casa senza saver dove? Gh’averave anca voggia de andarme adevertir un pochetoma senza saver doveno vago. Se savesse comefar a saverlo. Oh chi xè qua? Siora Felice! Chi xè conéla? Uno xè quel scempio de so mario. E quell’altro chimai xèlo? Eh éla la gh’ha sempre qualchedunche laserve. So mario xè de la taggia del mio ; ma Felice no se tolsuggizion; la la vol a so modoe quel poverazzo ghe va driocome uncan barbin. Me despiase de mio mario. Cossa diralose el vede tutasta zente? Oe! che el diga quel che el vol; mi no li ho fari vegnir.Malegrazie no ghe ne vòi far.

Felice:Patronasiora Marina.

Marina:Patronasiora Felice. Patroni riveriti.

Canciano:Patrona. (malinconico)

Riccardo:Servitore umilissimo della signora. (a Marina)

Marina:Serva sua. Chi xèlo sto signor? (a Felice)

Felice:Un conteun cavalier forestierun amigo de mio mario; n’èverosior Cancian?

Canciano:Mi no so gnente.

Riccardo:Buon amicoe buon servitore di tutti.

Marina:Col xè amigo de sior Canciannol pol esser che unapersona de merito.

Canciano:Mi ve digoche no so gnente.

Marina:Come no saveu gnentese el vien con vu in casa mia?

Canciano:Con mi?

Felice:Mo con chi donca? Caro sior Contela compatissa. Semo decarnevalsàla; mio mario se deverte un pocheto. El vol fartaroccar siora Marina; n’è verosior Cancian?

Canciano:(Bisogna che ingiotta).

Marina:(Oh co furbache xè custìa!) Vorle sentarse?Le se comoda.

Felice:Sìsentémose un pochetin. (siede) Lase comoda quasior Conte.

Riccardo:La fortuna meglio non mi potea collocare.

Canciano:E mi dove m’òi da sentar?

Felice:Andè làarente siora Marina. (a Canciano)

Marina:Nocara fiache se vien mio mariopovereta mi. (pianoa Felice)

Felice:Vardè là; no ghe xè de le careghe? (aCanciano)

Canciano:Eh siora sìla ringrazio. (siede in disparte)

Riccardo:Amicose volete seder quisiete padrone; non facciamocerimonie. Io andrò dall’altra parte presso della signoraMarina. (a Canciano)

Marina:Sior nosior nono la s’incomoda. (a Riccardo)

Felice:Per cossa dìsela ste fredure? Crédela fursiche mio mario sia zeloso? Oesior Canciandefendève. Sentìi ve crede zeloso. Me maraveggio de élasior Conte. Mio marioxè un galantomoel sa che muggier che el gh’hanol patissesti malie se el li patisseghe li farave passar. La saria belache una donna civil no podesse tratar onestamente un signorunapersona pulitache vien a Veneziaper sti quatro zorni de carnevalche me xè stada raccomandada da un mio fradelo che xè aMilan! Cossa diseuMarinano saràvela una inciviltà?no saràvela un’asenaria? Mio mario no xè de sto cuorel gh’ha ambizion de farse meritode farse onorel gh’ha gusto cheso muggier se devertache la fazza bona figurache la staga in bonaconversazion. N’è verosior Cancian?

Canciano:Siora sì. (masticando)

Riccardo:Per dire la veritàio ne avea qualche dubbio; mapoiché voi mi disingannateed il signor Canciano il confermavivrò quietissimoe mi approfitterò dell’onor diservirvi.

Canciano:(Son stà mi una bestiaa receverlo in casa la primavolta).

Marina:Stàla un pezzosior Contea Venezia?

Riccardo:Aveva intenzione di starci poco; ma sono tanto contento diquesta bella cittàche prolungherò il mio soggiorno.

Canciano:(Pussibileche el diavolo no lo porta via?)

Felice:E cusìsiora Marinaancuo disneremo insieme.

Marina:Dove?

Felice:Dove? no lo savè dove?

Marina:Mio mario m’ha dito qualcossa de sto disnarma el logo nolme l’ha dito.

Felice:Da siora Margarita.

Marina:Da sior Lunardo?

Felice:Sì ben.

Marina:Adesso ho capìo. Fài nozze?

Felice:Che nozze?

Marina:No savè gnente?

Felice:Mi no. Contème.

Marina:Ohnovità grande.

Felice:De chi? De Lucietta?

Marina:Sì ben; mazito.

Felice:Cara vucontème. (si tira appresso a Marina)

Marina:Sénteli? (accennando Riccardo e Canciano)

Felice:Sior Riccardola ghe diga qualcossa a mio mariola ghevaga a rente; la fazza un poco de conversazion anca con éloel gh’ha gusto che i parla con so muggierma nol vol mo gnanca éloesser lassà in t’un canton. N’è vero sior Cancian?

Canciano:Eh nol s’incomodache no me n’importa. (a Riccardo)

Riccardo:Anzi avrò piacere di discorrere col signor Canciano.Lo pregherò informarmi di alcune cose. (si accosta aCanciano)

Canciano:(El sta fresco).

Felice:E cusì? (a Marina)

Marina:Andè làche sè una gran diavola. (aFelice)

Felice:Se no fosse cusìmorirave etica con quel mio mario.

Marina:E mi?…

Felice:Disèmedisème. Cossa gh’è de Lucieta?

Marina:Ve dirò tuto; ma appianche nissun ne senta.

Riccardo:Signoreparmi che voi mi badiate poco. (a Canciano)

Canciano:La compatissagh’ho tanti intrighi per miche no possotòrmene per i altri.

Riccardo:Bene dunquenon v’incomoderò più. Ma quellesignore parlano segretamente fra di lorodiciamo qualche cosa;facciamo conversazion fra di noi.

Canciano:Cossa vorlache diga? Mi son omo de poche parole; no stagosu le novitàe no amo troppo la conversazion.

Riccardo:(È un bel satiro costui).

Felice:Nol l’ha vista? (a Marina)

Marina:Noe no i volche el la veda.

Felice:Mo questo el xè un gran codogno.

Marina:Se savessi? pagheria qualcossa de belo che el la vedesseavanti de serar el contrato.

Felice:In casa nol ghe pol andar?

Marina:Oh gnanca per insonio.

Felice:No se poderia co l’occasion de le maschere?…

Marina:Disè appianche i ne sente.

Felice:Viache i tenda ai fati soi. Che no i staga a spionar; chei parlache parlemo anca nu. (a Riccardo) Sentì cossache me vien in testa. (a Marinae si parlano piano)

Riccardo:Dove si va questa sera?

Canciano:A casa.

Riccardo:E la signora?

Canciano:A casa.

Riccardo:Fate conversazione?

Canciano:Sior sì. In letto.

Riccardo:In letto? A che ora?

Canciano:A do ore.

Riccardo:Ehmi burlate.

Canciano:Sì anca da so servitor.

Riccardo:(Sono male impicciatoper quelch’io vedo).

Felice:Cossa diseu? ve piàsela? (a Marina)

Marina:Sì ben; cusì andarave pulito. Ma no so comefar a parlar con mio nevodo. Se el mando a chiamarmio mario va inbestia.

Felice:Mandèghe a dirche el vegna da mi.

Marina:E so pare?

Felice:No valo anca élo a disnar da sior Lunardo? Col xèfora de casache el vegna; lassème el travaggio a mi.

Marina:E po? …

Felice:E poe po! dopo el Po vien l’Adese . Lassème far amive digo.

Marina:Adessadesso lo mando a avisar.

Felice:Coss’èseu mutti? (a Riccardo e Canciano)

Riccardo:Il signor Canciano non ha volontà di parlare.

Felice:Gramazzo! el gh’averà qualcossa per la testa. El xèpien d’interessi: el xè un omo de garbosàlamiomario.

Riccardo:Dubito stia poco bene.

Felice:Dasseno? Oh povereta mi; me despiaserave assae. Cossagh’aveusior Cancian?

Canciano:Niente.

Felice:Per cossa dìseloche el gh’ha mal? (a Riccardo)

Riccardo:Perché ha dettoche vuol andar a dormire a due oredi notte.

Felice:Dasseno? Fè ben a governarvefio mio. (aCanciano)

Canciano:Ma ghe vegnirè anca vu.

Felice:Ohapontono v’arecordèche avemo da andar al’opera?

Canciano:A l’opera mi no ghe vago.

Felice:Come? Questa è la chiave del palco; me l’avèpur comprada vu. (a Canciano)

Canciano:L’ho comprada… l’ho compradaperché m’avèincinganà; ma a l’opera mi no ghe vagoe no gh’avèd’andar gnanca vu.

Felice:Oh caro! el burla sàla? El burlasavèMarina? El mio caro mario me vol tanto benel m’ha comprà elpalcoe el vegnirà a l’opera con mi: n’è vero fio?(Senti sano me far el matoche povereto ti). (piano a Canciano)

Marina:(O che gaìna !)

Felice:Vorla restar servida con mi? Ghe xè logo in telpalco: n’è verosior Cancian? (a Riccardo)

Canciano:(Siestu maledeta! La me fa far tuto quel che la vol).

SCENADECIMA

SIMONe detti

Simon:Marina. (bruscamente)

Marina:Sior.

Simon:(Cossa xè sto baccan? Cossa vorli qua? Chi xèlocolù?) (accenna a Riccardo)

Felice:Ohsior Simonla reverisso.

Simon:Patrona. (a Felice) Ah? (a Marina)

Felice:Semo vegnui a farve una visita.

Simon:A chi?

Felice:A vu. N’è verosior Cancian?

Canciano:Siora sì. (a mezza bocca)

Simon:Andè via de quavu. (a Marina)

Marina:Volèche usa una mala creanza?

Simon:Lassème el pensier a mi; andè via de qua.

Felice:ViaMarinaobedìlo vostro mario: anca mivedèco sior Cancian me dise una cossala fazzo subito.

Marina:Bravabravaho capìo. Patroni.

Riccardo:Umilissima riverenza. (a Marina)

Simon:Patron. (ironico al Conte)

Marina:Serva sua. (fa la riverenza al Conte)

Simon:Patrona. (contrafà la riverenza)

Marina:(Tasoperchéperché: ma sta vita no lavoggio far). (parte)

Simon:Chi èlo sto sior? (a Felice)

Felice:Domandèghelo a mio mario.

Riccardo:Se volete saper chi sonove lo dirò iosenzachefatichiateper domandarlo. Io sono il conte Riccardo degli Arcolaicavaliere d’Abruzzo; son amico del signor Cancianoe buon servidoredella signora Felice.

Simon:E vu lassè praticar vostra muggier co sta sorte decai? (a Canciano)

Canciano:Cossa voleuche fazza?

Simon:Puffeta! (parte)

Felice:Vedeuche bella creanzache el gh’ha? El n’ha impiantàqua senza dir sioria bestia. Védelasior Conte la differenza?Mio mario xè un omo civil; nol xè capace de un’azion desta sorte. Me despiaseche a disnar con nu ancuo no la podemo menar.Ma ghe dirò po mi un no so che per dopo disnare sta seraanderemo a l’opera insieme. N’è verosior Cancian?

Canciano:Ma mi ve digo…

Felice:Eh via vegnì quasior pampalugo . (prende per unbraccio Cancianoper l’altro Riccardoe partono)

 

ATTOSECONDO

SCENAPRIMA

Camerain casa di Lunardo

MARGARITAvestita con proprietàe LUCIETTA

Lucietta:Bravasiora madre. Mo co pulitoche la s’ha vestìo.

Margarita:Cossa voleucara fia? Se vien sta zente ancuovoleuchestagafigurarseco fa una massèra?

Lucietta:E miche figura vorla che fazza?

Margarita:Vu da puta stè ben.

Lucietta:Eh sì sìstago ben! Co no son amaladastagoben.

Margarita:Mi no so cossa dircara fia. Se podesseme piaserave ancaa mi che gh’avessi el vostro bisogno; ma savè chi xèvostro pare. Con élo no se pol parlar. Se ghe digo de farvequalcossael me salta a i occhi. El diseche le pute le ha da andardesmesse ; el me sa dirche ve meto su ; e miper no sentir acriarno me n’impazzo; lassoche el fazza élo. Finalmente nosè mia fiano me posso tòr certe boniman.

Lucietta:Eh lo solo soche no son so fia. (mortificata)

Margarita:Cossa voressi dir? No ve voggio ben fursi?

Lucietta:Siora sìla me ne vol; ma no la se scalda gnente permi. Se fusse so fiaco vien zente de suggizionno la lasserave migache stasse co la traversa davanti.

Margarita:Viacavèvela la traversa.

Lucietta:E poco me l’averò cavada?

Margarita:Co ve l’averà cavadafigurarseno la gh’averèpiù.

Lucietta:Eh za! crédelache no sappiache la me burla?

Margarita:Me fè da rider. Cossa voressi?

Lucietta:Vorave anca mi comparir cofà le altre.

Margarita:Disèghelo a vostro padre. Voleuche manda a chiamarun sartor in scondone che ve fazza un abito? E po? xèloorbo sior Lunardo? Credeufigurarseche nol ve l’abia da véder?

Lucietta:Mi no digo un abito; ma qualcossa almanco. La varda; nogh’ho gnanca un fià de cascate . Gh’ho sto strazzo de golièda coloche me vergogno. E xè antigo cofà mia nona.Per casa co sto abito no stago mal; ma ghe voriacusìqualcossache paresse bon. Son zovenee no son mo gnanca unapitoccame par che qualche bagatela no la me desdiga.

Margarita:Aspetè. Se volè un pèr de cascatevele darò mi de le mie. Voleu una colana de perle?

Lucietta:Magari.

Margarita:Adesso ve la vago a tòr. (Poverazza! la compatisso.Nu altre donnefigurarsesemo tute cusì). (parte)

SCENASECONDA

LUCIETTAe detta.

Lucietta:Vardè! la diseche mio sior padre no vol. Credochela sia éla miche no voggia. Xè veroche sior padrexè un omo rustegoe che in casa nol vol certe bele cossemaéla però la s’ha savesto vestire co la vol un abitola se lo fae la lassa che el diga. Ma per mipoverazzano se ghepensa. Maregnabasta cussì. E po la cognossola gh’harabbia con miperché son più zovenee più belade éla. In casa ghe fazzo fastidio. La me dise fia co la bocastreta; co ghe digo siora madrela gh’ha paura che ghe fazza cresceri ani.

Margarita:Viacavève quela traversa.

Lucietta:Siora sìsubito. (si cava il grembiale)

Margarita:Vegnì quache ve meterò le cascate.

Lucietta:Cara élala lassa véder.

Margarita:Vardè; le xè squasi nòve.

Lucietta:Cossa vorlache fazza de sti scovoli da lavar i piati?

Margarita:Scovoli ghe disè? Un pèr de cascate decambradache no le ho doperae quatro volte?

Lucietta:No la vede co fiappe che le xè?

Margarita:Vardèche desgrazia! certoche i ve vegniràa vardar le cascatese le xè de lissìa.

Lucietta:Le soe però le xè nete.

Margarita:Che cara siora! vo voressi meter co mi? Queste xè lecascate: se le volèmetèvele; se ghe ne volè demeggiocatèvene.

Lucietta:Viano la vaga in colerache me le meterò.

Margarita:Vegnì qua. Zaco ste spuzzetepiù che sefase fa pezo. (mettendole le cascate)

Lucietta:Certo! la fa assae per mi. (accomodandosi le cascate)

Margarita:Fazzo più de quel che me tocca. (come sopra)

Lucietta:Cara élache no la se struppia. (come sopra)

Margarita:Sè ben insolente sta matina. (come sopratirandola)

Lucietta:Mo viano la me staga a strascinarche no son miga unabestia.

Margarita:Nonono v’indubitèche no ve vegnirò piùintorno. Sè tropo delicatasiora. Fève servir da laservache con vu no me ne voggio impazzar.

Lucietta:Gh’àla le perle?

Margarita:No so gnente: no voggio più mustazzae.

Lucietta:Via mo; cara éla.

Margarita:Mata inspiritadache sona deventar mata co sta frascona.

Lucietta:(piangee si asciuga col fazzoletto)

Margarita:Coss’è stà? cossa gh’aveu?

Lucietta:(piange)

Margarita:Pianzè? cossa v’òggio fato?

Lucietta:La m’ha dito… de darme… una colana de perle… e no lame la vol… più dar. (piangendo)

Margarita:Mo se me fè andar in colera.

Lucietta:Me la dàla?

Margarita:Viavegnì qua. (le vuol mettere la collana)

Lucietta:La lassa véder.

Margarita:Trovereu da dir anca in questo? Lassèlassèche ve la zola.

Lucietta:La sarà qualche antigaggia. (pianobrontolando)

Margarita:Cossa diseu? (allacciando la collana)

Lucietta:Gnente.

Margarita:Sempre brontolè. (come sopra)

Lucietta:La varda; una perla rota. (si trova una perla rotta inseno)

Margarita:E cusì? cossa importa? Slarghèle un pochetin.

Lucietta:Xèle tute rote?

Margarita:Deboto me faressi dir…

Lucietta:Quanti ani gh’àla sta colana?

Margarita:Voleu zogarche ve la cavoe la porto via?

Lucietta:De diana! sempre la cria.

Margarita:Mo se no ve contentè mai.

Lucietta:Staghio ben?

Margarita:Stè benissimo.

Lucietta:Me fàla ben al viso?

Margarita:Pulitove digopulito. (La gh’ha un’ambizionmaledetonazza ).

Lucietta:(No ghe credo gnenteme vòi vardar ). (tira fuoridi tasca uno specchietto)

Margarita:El specchio gh’avè in scarsela ?

Lucietta:Oh el xè un strazzetto .

Margarita:Se vostro sior padre ve lo vede!

Lucietta:Viano la ghe lo staga a dir.

Margarita:Vèlo quavedèche el vien.

Lucietta:Sia malignazo! No m’ho gnanca podesto véder ben.(mette via lo specchio)

SCENATERZA

LUNARDOe dette

Lumardo:Coss’èsiora? andeu al festin? (a Margarita)

Margarita:Tolè. Vèlo qua. Me vesto una volta a l’annoe el brontola. Aveu paurafigurarseche ve manda in mal’ora?

Lumardo:Mi no m’importache fruessivegnimo a dir el meritoanca un abito a la setimana. Grazie al Cielono son de quei omeniche patissa la spienza . Cento ducati li posso spender. Ma no in stebuffonarie; cossa voleu che diga quei galantomeniche vien da mi?Che sè la piavola de Franza . No me vòi far smatar.

Lucietta:(Gh’ho gusto in veritàche el ghe diga roba ).

Margarita:Come credeuche vegnirà vestìe quelle altre?Co una scarpae un zoccolo?

Lumardo:Lassèche le vegna come che le vol. In casa mia nos’ha mai praticà de ste cargaduree no vòi scomenzare no me vòi far meter sui ventoli. M’aveu capìo?

Lucietta:Dassenosior padreghe l’ho dito anca mi.

Lumardo:Senti sano tòr esempio da éla… Coss’èquela roba? Cossa xè quei diavolezziche ti gh’ha al colo? (aLucietta)

Lucietta:Eh gnentesior padre. Una strazzariaun’antigaggia.

Lumardo:Càvete quele perle.

Margarita:Dassenosior Lunardoche ghe l’ho dito anca mi.

Lucietta:Viacaro élosemo de carneval.

Lumardo:Cossa s’intende? che siè in maschera? No voggio stiputelezzi. Ancuo vien zente; se i ve vedeno voggioche i digachela fia xè matae che el pare no gh’ha giudizio. Dà quaquele perle. (va per levarleella si difende) Cossa xèquei sbrindoli . Cascatepatrona? cascate? Chi v’ha dà queisporchezzi?

Lucietta:Me l’ha dae siora madre.

Lumardo:Dona mata! cusì pulito arlevè mia fia? (aMargarita)

Margarita:Se no la contentola dise che la odioche no ghe vòiben.

Lumardo:Da quando in qua ve xè vegnù in testa stigrili?

Lucietta:L’ho vista éla vestìame xè vegnùvoggia anca a mi. (a Margarita)

Lumardo:Sentìu? Questa xè la rason del cativoesempio.

Margarita:Ela xè purae mi son maridada.

Lumardo:Le maridae ha da dar bon esempio a le pute.

Margarita:Mi no m’ho maridàfigurarseper vegnir a deventarmata co i vostri fioi.

Lumardo:Né mi v’ho toltovegnimo a dir el meritoacciòche vegnì a discreditar la mia casa.

Margarita:Ve fazzo onor più de queloche meritè.

Lumardo:Anemoandève subito a despoggiar. (aMargherita)

Margarita:No ve dago sto gusto gnanca se me copè.

Lumardo:E vu no vegnirè a tola.

Margarita:No ghe penso né bezzoné bagatin.

Lucietta:E misior padrevegniroggio a tola?

Lumardo:Càvete quelle strazzarie.

Lucietta:Sior sìco nol vol altro che el toga. Mi sonubidiente. La varda che roba: gnanca vergogna che me le meta. (sicava le perle e cascate)

Lumardo:Vedeu? Se cognosse che la xè ben arlevada. Eh lamia prima muggier povereta! quela giera una donna de sesto . No la semeteva un galan senza dirmelo; e co mi no volevagiera fenìono ghe giera altre risposte. Siestu benedeta dove che ti xè .Mato inspiritàche son stà mi a tornarme a maridar.

Margarita:Mi mi ho fato un bon negozio a tòr un satiro permario.

Lumardo:Povera grama! ve manca el vostro bisogno? no gh’avèda magnar?

Margarita:Certo! una dona co la gh’ha da magnarno ghe manca altro!

Lumardo:Cossa ve manca?

Margarita:Caro vuno me fè parlar.

Lucietta:Sior padre.

Lumardo:Cossa gh’è?

Lucietta:No me meterò più gnentesenza dirghelo sàlo?

Lumardo:Ti farà ben.

Lucietta:Gnanca se me lo dirà siora madre.

Margarita:Eh mozzina! se cognossemo. Sul so visofigurarsetegnìda éloe po da drio le spale tirè zoso a campanedoppie.

Lucietta:Misiora?

Lumardo:Tasè là. (a Lucietta)

Lucietta:La dise delle busie . (a Lunardo)

Margarita:Sentìu come che la parla? (a Lunardo)

Lumardo:Tasè là ve digo. Co la maregna no se parlacusì. Gh’avè da portar respeto; l’avè da tegnirin conto de mare.

Lucietta:De mi no la se pol lamentar. (a Lunardo)

Margarita:E mi… (a Lunardo)

Lumardo:E vuvegnimo a dir el meritodespoggièvechefarè meggio.

Margarita:Diseu dasseno?

Lumardo:Digo dasseno.

Lucietta:(Oh magari!)

Margarita:Son capace de strazzarlo sto abito in cento tocchi.

Lumardo:Animo scomenzèche ve aggiuterò.

Lucietta:Sior padrevien zente.

Lumardo:Aseni! i averze senza dir gnente? Andè via de qua.

Lucietta:Mo per cossa?

Lumardo:Andève a despoggiar. (a Margarita)

Margarita:Cossa voleuche i diga?

Lumardo:Cospetoe tacca via!

SCENAQUARTA

SIMONMARINA e detti.

Marina:Patronasiora Margarita.

Margarita:Patronasiora Marina.

Lucietta:Patrona.

Marina:Patronafiapatrona.

Margarita:Sior Simonpatron.

Simon:Patrona. (ruvido)

Marina:Sior Lunardognanca? Pazenzia.

Lumardo:La reverisso. (Cavève ). (a Lucietta)

Lucietta:(Gnanca se i me coppa no vago via).

Simon:Semo quasior Lunardoa ricever le vostre grazie.

Lumardo:(Quela mata de mia muggierancuo la me vol far magnartanto velen).

Simon:Mio cugnà Maurizio nol xè gnancora vegnù.(a Lunardo)

Lumardo:(Figurève cossa che el dirà sior Simon intel so cuora véder sta cargadura de mia muggier).

Marina:(Vardè che bel sesto! nol ve bada gnanca). (aSimon)

Simon:Tasè làva; cossa gh’intreu? (a Marina)

Marina:Cara quela grazieta! (a Simon)

Margarita:Viasiora Marinala se cava zoso.

Marina:Volentiera. (vuole spuntarsi il zendale)

Lumardo:Andè de làsioraa cavarghe la vestae elzendà. (con rabbia a Margarita)

Margarita:Viaviafigurarseno me magnè. AndemosioraMarina.

Lumardo:E despoggiève anca vu. (a Margarita)

Margarita:Anca mi m’ho da despoggiar? Cosa dìselasioraMarina? El volche me despoggia. Xèlo belo mio mario?(ridendo)

Marina:De mi no la gh’ha d’aver suggizion. (a Margarita)

Lumardo:Sentìu? che bisogno ghe gieravegnimo a dir elmeritoche ve vestissi in andriè? (a Margarita)

Margarita:Che caro sior Lunardo! e élafigurarsecome xèlavestìa?

Lumardo:Éla xè fora de casae vu sè in casa.

Simon:Anca mi ho combatù do ore co sta mata. La s’havolesto vestir a so modo. (a Lunardo) Mandè a casa atòr el vostro cotuss. (a Marina)

Marina:Figurève se mando!

Margarita:Andémoandémosiora Marina.

Marina:Vardè! gnanca se fussimo vestìe de ganzo !

Margarita:I xè cusì. Se gh’ha la robae no i vol chela se dopera.

Marina:I vederà siora Felicecome che la xè vestìa.

Margarita:L’aveu vista?

Marina:La xè stada da mi.

Margarita:Come gièrelacara va?

Marina:Oein tabarin. (con esclamazione)

Margarita:In tabarin?

Marina:E co pulito!

Margarita:Sentìusior Lunardo? Siora Felicefigurarsela xèin tabarin.

Lumardo:Mi no intro in ti fati dei altri. Ve digo a vuvegnimo adir el meritoche la xè una vergogna.

Margarita:Che abito gh’avévela? (a Marina)

Marina:Arzento a sguazzo.

Margarita:Sentìu? Siora Felice gh’ha l’abito co l’arzentoevu criè perché gh’ho sto strazzeto de séa ? (aLunardo)

Lumardo:Cavèvelove digo.

Margarita:Sè ben minchionse el credè. Andémoandémo siora Marina. Se ghe tendessimo a lorii ne meteravei moccoli drio . Se poderessimo ficcar in canèo . Della robaghe n’hoe fin che son zovene me la voggio gòder. (aMarina) Ma no gh’è altro; cusì la xè. (aLunardoe parte)

Lumardo:Custìa la me vol tirar a cimento

Marina:Caro sior Lunardobisogna compatirla. La xèambiziosa; certo che no ghe giera bisognoche per casa la mostrassesta affetazionma la xè zovene: no la gh’ha gnancora el sobon intendacchio.

Simon:Tasè là. Vardève vusiora petegola.

Marina:Se no portasse respeto dove che son…

Simon:Cossa diressi?

Marina:Ve diria di chi v’ha nanìo . (Orso del diavolo).(parte)

SCENAQUINTA

LUNARDOe SIMON

Simon:Maridèveche gh’averè de sti gusti.

Lumardo:Ve recordeu de la prima muggier? Quella giera una bonacreatura; ma questa la xè un muschieto! (a Simon)

Simon:Ma mimato bestiache le donne no le ho mai podestesoffrire po son andà a ingambararme co sto diavolo descaenà.

Lumardo:Al dì d’ancuo no se se pol più maridar.

Simon:Se se vol tegnir la muggier in doverse xèsalvadeghi; se la se lassa farse xè alocchi.

Lumardo:Se no giera per quella puta che gh’hove protesto dagalantomovegnimo a dir el meritoche no m’intrigava con altredonne.

Simon:Me xè stà ditoche la maridè; xe vero?

Lumardo:Chi ve l’ha dito? (con isdegno)

Simon:Mia muggier.

Lumardo:Come l’ala savesto? (con isdegno)

Simon:Credoche ghe l’abia dito so nevodo.

Lumardo:Felipeto?

Simon:SìFelipeto.

Lumardo:Frasconpetegolo; babuin! So pare ghe l’ha confidàe lu subito el lo xè andà a squaquarar? Conossochenol xè quel putoche credevache el fusse. Son squasi pentìod’averla promessae ghe mancherave pocovegnimo a dir el meritoche no strazzasse el contrato.

Simon:Ve n’aveu per malperché el ghe l’ha dito a so àmia?

Lumardo:Sior sì; chi no sa tàserno gh’ha prudenzae chi no gh’ha prudenzano xè omo da maridar.

Simon:Gh’avè rasoncaro vecchio; ma al dì d’ancuono ghe ne xè più de quei zoveni del nostro tempo.V’arecordeu? No se fava né piùné manco de quelche voleva nostro sior pare.

Lumardo:Mi gh’aveva do sorele maridae: no credo averle viste diesevolte in tempo de vita mia.

Simon:Mi no parlava squasi mai gnanca co mia siora mare.

Lumardo:Mi al dì d’ancuo no so cossa che sia un’operaunacomedia.

Simon:Mi i m’ha menà una sera per forza all’operae hosempre dormìo.

Lumardo:Mio pareco giera zoveneel me diseva: Vustu véderel Mondo niovo ? o vustoche te daga do soldi? Mi me taccava ai dosoldi.

Simon:E mi? sunava le bonemane qualche soldetoche ghebruscavae ho fato cento ducatie i ho investii al quatro percentoe gh’ho quattro ducati de più d’intrada; e co i scuodogh’ho un gusto cusì grandoche no ve posso fenir de dir. Nomiga per l’avarizia dei quatro ducatima gh’ho gusto de poder dir:tolè; questi me li ho vadagnai da putelo.

Lumardo:Trovèghene uno ancuoche fazza cusì. I libuta viavegnimo a dir el meritoa palae

Simon:E pazenzia i bezziche i buta via. Xè che i seprecipita in cento maniere.

Lumardo:E tuto xè causa la libertà.

Simon:Sior sìco i se sa meter le braghesse da so postasubito i scomenza a praticar.

Lumardo:E saveu chi ghe insegna? So mare.

Simon:No me disè altro: ho sentìo cosseche me fadrezzar i cavei.

Lumardo:Sior sì; cusì le dise: Povero putelo! che else devertapovereto! voleuche el mora da malinconia? Co vienzentele lo chiama: Vien quafio mio; la vardasiora Lugreziastecare raìseno fàlo vogia? Se la savesse co spiritosoche el xè! Cànteghe quella canzoneta: dighe quela belascena de Trufaldin. No digo per dirma el sa far de tuto; el balael zoga a le carteel fa dei soneti; el gh’ha la morosasàla?El diseche el se vol maridar. El xè un poco insolentemapazenziael xè ancora puteloel farà giudizio. Carocolù; vien qua vita mia; dàghe un baso a sioraLugrezia… Via; sporchezzi; vergogna; donne senza giudizio.

Simon:Cossa che pagheraveche ghe fusse qua a sentirve sete o otode quele donneche cognosso mi.

Lumardo:Cospeto de diana! le me sgrafarave i occhi.

Simon:Ho paura de sì; e cussìdisème: aveuserà el contrato co sior Maurizio?

Lumardo:Vegnì in mezà da miche ve conteròtuto.

Simon:Mia muggier sarà de là co la vostra.

Lumardo:No voleu?

Simon:No ghe sarà nissun m’imagino.

Lumardo:In casa mia? no vien nissun senza che mi lo sappia.

Simon:Se savessi! da mi stamatina… bastano digo altro.

Lumardo:Contème… cossa xè stà?

Simon:Andémoandémo; ve conterò. Donnedonnee po donne.

Lumardo:Chi dise donnavegnimo a dir el meritodise danno.

Simon:Bravo da galantomo. (ridendo ed abbracciando Lunardo)

Lumardo:E purse ho da dir la veritàno le m’hadespiasso.

Simon:Gnanca a mi veramente.

Lumardo:Ma in casa.

Simon:E soli.

Lumardo:E co le porte serae.

Simon:E co i balboni inchiodai.

Lumardo:E tegnirle basse.

Simon:E farle far a nostro modo.

Lumardo:E chi xè omeniha da far cusì. (parte)

Simon:E chi no fa cusì no xè omeni. (parte)

SCENASESTA

Altracamera

MARGARITAe MARINA

Marina:Fème a mi sto servizio. Chiamè Lucietaedisémoghe qualcossa de sto so novizzo. Consolémolaesentimo cossache la sa dir.

Margarita:Credèmesiora Marinache no la lo merita.

Marina:Mo perché?

Margarita:Perché la xè una frascona. Procuro per tuti iversi de contentarlae la xè con mifigurarseingrataaltierae sofistica al mazor segno.

Marina:Cara fiabisogna compatir la zoventù.

Margarita:Cossa credeu? che la sia una putela?

Marina:Quanti anni gh’averàla?

Margarita:Mo la gh’averà i so disdot’ani fenii lu.

Marina:Eh via!

Margarita:Sì! da quella che son.

Marina:E mio nevodo ghe n’ha vinti deboto.

Margarita:Per età i va pulito.

Marina:Disè mo ancache el xè un bon puto.

Margarita:Se ho da dir la veritàgnanca Lucieta no xècativa; ma cusì; la va a lune. De le volte la me strucola decarezzee de le volte la me fa inrabiar.

Marina:I xè i so annifia mia. Credèmeloche merecordo giusto come se fusse adesso: anca mi fava cusì con miasiora madre.

Margarita:Ma gh’è diferenzavedeu? Una mare pol soportarmaa mi no la me xè gnente.

Marina:La xè de vostro mario.

Margarita:Giusto élo me fa passar la vogia de torme qualchepensier; perché se la contentoel cria; se no la contentoelbrontola. In verità no so più quala far.

Marina:Fè de tutoche la se destriga.

Margarita:Magari doman.

Marina:No xèli in contrato?

Margarita:No gh’è miga fondamento in sti omeni: i se pente daun momento a l’altro.

Marina:E pur mi ghe scometeria qualcossache ancuo se stabilisseste nozze.

Margarita:Ancuo? per cossa?

Marina:So che sior Lunardo ha invidà a disnar anca mio cugnàMaurizio. No i xè soliti a far sti invidi; vederè quelche digo mi.

Margarita:Pol esser; ma me par impussibileche no i diga gnente a laputa.

Marina:No saveuche zenteche i xè? I è capaci dedirghe dal dito al fato. Tocchève la mane bondìsioria.

Margarita:E se la puta disesse de no?

Marina:Per questo xè megio che l’avisemo.

Margarita:Voleuche la vaga a chiamar?

Marina:Se ve par che sia benchiamémola.

Margarita:Cara fiame reporto a vu.

Marina:Eh cara siora Margarita; in materia de prudenza no ghe xèuna par vostro.

Margarita:Vagoe vegno. (parte)

Marina:Povera puta! lassarghe vegnir l’acqua adosso cusì!sta so maregna no la gh’ha un fià de giudizio.

SCENASETTIMA

MARGARITALUCIETTA e MARINA

Margarita:Vegnì quafiache siora Marina ve vol parlar.

Lucietta:La compatissasàlase no son vegnua avantiperchése la savesseho sempre paura de falar. In sta casa i cata da dirsun tuto.

Marina:Xè vero; vostro sior padre xè un poco troposutilo; ma consolèveche gh’avè una maregnache vevol ben.

Lucietta:Siora sì. (le fa cenno col gomitoche non èvero)

Marina:(Figurarse. Se gh’avesse una fiastraanca mi faravel’istesso).

Margarita:(Ghe voggio benma no vedo l’orache la me vaga fora daiocchi).

Lucietta:E cusìsiora Marinacossa gh’àla da dirme?

Marina:Siora Margarita.

Margarita:Fia mia.

Marina:Disèghe vu qualcossa.

Margarita:Mi ve lasso parlar a vu.

Lucietta:Povereta mi! de beno de mal?

Marina:Oh de bende ben.

Lucietta:Mo via doncache no la me fazza più sgangolir

Marina:Me consolo con vuLucieta.

Lucietta:De cossa?

Marina:Che ghe lo diga? (a Margarita)

Margarita:Viatanto fadisèghelo. (a Marina)

Marina:Me consoloche sè novizza. (a Lucietta)

Lucietta:Oh giusto! (mortificandosi)

Marina:Vardè! no lo credè?

Lucietta:Mi nola veda. (come sopra)

Marina:Domandèghelo. (accennando Margarita)

Lucietta:Xèla la veritàsiora madre?

Margarita:Per quel che i dise.

Lucietta:Oh! no ghe xè gnente de seguro?

Marina:Mi credoche sia sicurissimo.

Lucietta:Ohla burlasiora Marina.

Marina:Burlo? so anca chi xè el vostro novizzo.

Lucietta:Dasseno? Chi xèlo?

Marina:No savè gnente vu?

Lucietta:Mi no la veda. El me par un insonio.

Marina:Lo spiegheressi volentiera sto insonio?

Lucietta:No vorla?

Margarita:Pol esserche ve tocca la grazia.

Lucietta:Magari. Xèlo zovene? (a Marina)

Marina:Figurèvein circa della vostra età.

Lucietta:Xèlo belo?

Marina:Più tosto.

Lucietta:(Siestu benedetto!)

Margarita:La s’ha mo messofigurarsein t’un boccon de gringola.

Lucietta:Mo via no la me mortifica. Parche ghe despiasa. (aMargarita)

Margarita:Oh v’inganè. Per mi piutosto stasserache doman.

Lucietta:Eh lo so el perché.

Margarita:Disè mo.

Lucietta:Lo solo soche no la me pol più véder.

Margarita:Sentìuche bella maniera de parlar? (a Marina)

Marina:Viaviacare creaturebutè a monte.

Lucietta:La diga: cossa gh’àlo nome? (a Marina)

Marina:Filipetto.

Lucietta:Oh che bel nome! xèlo civil?

Marina:El xè mio nevodo.

Lucietta:Oh sior’àmia! gh’ho tanto a carosior’àmiasia benedetosior’àmia. (con allegria bacia Marina)

Margarita:Vardèche stomeghezzi.

Lucietta:Cara siorala tasache l’averà fato pezo de mi.

Margarita:Certoper quela bela zoggiache m’ha toccà.

Marina:Dixèfia mia. L’aveu mai visto? (a Lucietta)

Lucietta:Oh povereta mi! quando? dove? Se qua no ghe vien mai un canse no vago mai in nissun liogo.

Marina:Se lo vederè el ve piaserà.

Lucietta:Dasseno? Quando lo vederoggio?

Marina:Mi no so; siora Margarita saverà qualcossa.

Lucietta:Siora madrequando lo vederoggio?

Margarita:Sìsì: “siora madrequando lovederoggio”! Co ghe premela se raccomanda. E po gnente gnentela ranzigna la schizza

Lucietta:La sache ghe vòi tanto ben.

Margarita:Va’ làva’ là mozzina.

Marina:(Caspita! la gh’ha de la malizia tantache fa paura).

Lucietta:La digasiora Marina. Xèlo fio de sior Maurizio?

Marina:Sìfia miae el xè fio solo.

Lucietta:Gh’ho tanto da caro. La diga: saràlo rustego co fa sosior padre?

Marina:Oh che el xè tanto bon!

Lucietta:Mo quando lo vederoggio?

Marina:Per dir la veritàgh’averave gustoche ve vedessiperché se pol anca darche élo no ve piasa a vuo chevu no ghe piasè a élo?

Lucietta:Pussibileche no ghe piasa?

Margarita:Cossa credeu de esserfigurarsela dea Venere?

Lucietta:No credo de esser la dea Venerema no credo mo gnanca deesser l’orco.

Margarita:(Ehla gh’ha i so catari).

Marina:Sentìsiora Margaritabisognache ve confida unacossa.

Lucietta:Mi possio sentir?

Marina:Sìsentì anca vo. Parlando de sto negozio cosiora Felicela s’ha fato de maraveggiache avanti de serar elcontrato sti puti no s’abbia da véder. La s’ha tolto élal’impegno de farlo. Ancuocome savèla vien qua a disnaresentiremo cossache la dirà.

Lucietta:Pulitopulito dasseno.

Margarita:Se fa presto a dir “pulito pulito”! e se miomario se n’incorze? Chi tol de mezzofigurarsealtri che mi?

Lucietta:Ohper cossa vorlache el se n’incorza?

Margarita:Àlo da vegnir in casa per el luminal ?

Lucietta:Mi no so gnente. Cossa dìselasiora Marina?

Marina:Sentìve parlo schieto. Mi no ghe posso dar tortognanca a siora Margarita. Sentiremo quelche dixe siora Felice. Segh’è pericolognanca mi no me ne voggio intrigar.

Lucietta:Vardè; le me mette in saore potolè suso.

Margarita:Zitome par de sentir…

Marina:Vien zente.

Lucietta:Uhse xè sior padrevago via.

Marina:Cossa gh’aveu paura? Omeni no ghe ne xè.

Margarita:Ohsaveu chi xè?

Marina:Chi?

Margarita:Siora Felice in maschera. In t’un’aria malignazonazza.

Lucietta:Xèla sola?

Margarita:Sola. Chi voressiche ghe fussepatrona? (a Lucietta)

Lucietta:Viasiora madreche la sia bonache ghe vòi tantoben. (allegra)

Marina:Sentiremo qualcossa.

Lucietta:Sentiremo qualcossa. (allegra)

SCENAOTTAVA

FELICEin maschera in bavutae dette.

Felice:Patrone. (tutte rispondono patronasecondo ilsolito)

Margarita:Molto tardisiora Felice; v’avè fato desiderar.

Lucietta:De diana se l’avemo desiderada.

Felice:Se savessi! Ve conterò.

Marina:Sola sè? No gh’è gnanca vostro mario?

Felice:Ohel ghe xè quel torso de verza.

Margarita:Dove xèlo?

Felice:L’ho mandà in mezà da vostro mario. No hovolestoche el vegna de quaperché v’ho da parlar.

Lucietta:(Oh se la gh’avesse qualche bona niova da darme!)

Felice:Saveu chi ghe xè in mezzà con lori?

Marina:Mio mario?

Felice:Eh sì benma ghe xè un altro.

Marina:Chi?

Felice:Sior Maurizio.

Lucietta:(El padre del puto!) (con allegria)

Marina:Come l’aveu savesto?

Felice:Mio marioche anca élo xè un tangaroavantide andar in mezàl’ha volesto saver chi ghe gierae la servagh’ha ditoche ghe giera sior Simone sior Maurizio.

Marina:Cossa mai fàli?

Felice:Mi credovedèmi credoche i stabilissa quelcerto negozio…

Marina:Eh sìsìho capìo.

Margarita:Gh’arivo anca mi.

Lucietta:(Anca mi gh’arivo).

Marina:E de quel altro interesse gh’avémio gnente da novo?

Felice:De quel amigo?

Marina:Sìde quel amigo.

Lucietta:(Le parla in zergo ; le credeche no capissa).

Felice:Podémio parlar liberamente?

Margarita:Sìcossa serve? Za Lucieta sa tutto.

Lucietta:Oh cara siora Felicese la savesse quanto che ghe sonobbligada.

Felice:Mo andè làfia miache sè fortunada.(a Lucietta)

Lucietta:Per cossa?

Felice:Mi no l’aveva mai visto quel puto. V’assicuro che el xèuna zoggia.

Lucietta:(si pavoneggia da sé)

Margarita:Tegnìve in bonpatrona. (a Lucietta)

Marina:No fazzo per dirche el sia mio nevodo; ma el xè unputo de sesto.

Margarita:Ma ghe vol giudiziofigurarsee bisogna farse voler ben.

Lucietta:Co saremo a quelafarè el mio debito.

Marina:E cusì? se vederàli sti puti? (a Felice)

Felice:Mi ho speranza de sì.

Lucietta:Come? quandosiora Felice? quandocome?

Felice:Puta benedetagh’avè più pressa de mi.

Lucietta:No vorla?

Felice:Sentì. Adessadesso el vegnirà qua. (pianoa tutti tre)

Margarita:Qua! (con maraviglia)

Felice:Siora sìqua.

Lucietta:Perché no porlo vegnir qua? (a Margarita)

Margarita:Tasè làvusiorache no savè quelche ve disè. Cara siora Felicelo cognossè mio mariovardè benche no femo pezo.

Felice:No v’indubitè gnente. El vegnirà in mascheravestìo da donna; vostro mario nol cognosserà.

Marina:Sì bensì ben: l’avè pensada pulito.

Margarita:Eh cara sioramio mario xè sutilo ; se el se neincorzefigurarsepovereta mi.

Lucietta:No séntela? el vegnirà in maschera. (allegraa Margarita)

Margarita:Eh viafrasconazza. (a Lucietta)

Lucietta:El vegnirà vestìo da donna. (mortificataa Margarita)

Felice:Credèmesiora Margaritache me fè torto.Stè sora de mino abbiè paura. No pol far che el vegna. Se el vienche semo qua solecome che semo adessopodemo unpochetin chiaccolar; se el vienche siémo a tolao che ghesia vostro mariolassème far a mi. So mi quel che gh’ho dadir. I se vederà come che i poderà. Un’occhiadina insbrisson no ve basta?

Lucietta:In sbrisson ? (a Felicepateticamente)

Margarita:Vegniràlo solo?

Felice:Nocara fia; solo nol pol vegnir. Vedè beninmascheravestìo da donna…

Margarita:Con chi vegniràlo donca ? (a Felice)

Felice:Con un forestier. (a Margarita) Oe con quelo destamatina. (a Marina)

Marina:Ho capìo.

Margarita:Figurarsese mio mario vuol zente in casache nolcognosse!

Felice:El vegnirà in maschera anca élo.

Margarita:Pezo: nono assolutamente.

Lucietta:Mo viacara siora madrela trova dificoltà in tuto.(La xè proprio una caga dubi).

Margarita:So quel che digo; e mio mariofigurarsenissun locognosse meggio de mi.

Felice:Sentìfia miadal vostro al miosemo là. Ixè tuti do taggiai in t’una luna. Mi movedeu? no me lassofar tanta paura.

Margarita:Bravasarè più spiritosa de mi.

Lucietta:I bate.

Margarita:Eh che no i bateno.

Marina:Poverazzala gh’ha el bataor in tel cuor.

Felice:Vedècara siora Margaritache mi in sto negozio nogh’ho né intrarné insir . L’ho fato per siora Marinae anca per sta putache ghe voggio ben. Ma se vu po ve n’avèper mal…

Lucietta:Eh giusto! cossa dìsela?

Marina:Eh via zache ghe semo. (a Margarita)

Margarita:Ben ben; se nasserà qualcossa sarà pezo pervu. (a Lucietta)

Lucietta:No la sente? I bate ghe digo. (a Margarita)

Margarita:Adesso sìch’i ha batù.

Lucietta:Bisogna che la dorma culìa. Anderò mi.

Margarita:Siora nosiora noanderò mi. (parte)

SCENANONA

FELICEMARINA e LUCIETTA

Lucietta:Cara élame racomando. (a Felice)

Felice:No vorave desgustar siora Margarita.

Marina:No ghe badè. Se stasse a élasta puta no semariderave mai.

Lucietta:Se la savesse!

Felice:Cossa vol dir? cossa gh’àla co sta creatura? (aMarina)

Marina:No saveu? invidia. Gh’ha toccà un mario vecchiolagh’averà rabbiache a so fiastra ghe tocca un zovene.

Lucietta:Ho paura de sì miche la diga la verità.

Felice:Ora la dise una cossaora la ghe ne dise un’altra.

Marina:Se ve digo; no gh’è né sestonémodelo.

Lucietta:No la sa dir altroche “figurarsefigurarse”.

SCENADECIMA

MARGARITAe dette

Margarita:A vusiora Felice.

Felice:A mi? cossa?

Margarita:Maschereche ve domanda.

Lucietta:Mascareche la domanda! (allegra a Felice)

Marina:Saràlo l’amigo? (a Felice)

Felice:Pol darse. (a Marina) Fèlo vegnir avanti. (aMargarita)

Margarita:E se vien mio mario?

Felice:Se vien vostro mariono ghe saverò dar da intenderqualche panchiana? No ghe posso dirche la xè mia sorelamaridada a Milan? Giusto l’aspetava in sti zornie la pol capitar demomento in momento.

Margarita:E la maschera omo?

Felice:Oh bela! no ghe posso dirche el xè mio cugnà?

Margarita:E vostro mario cossa diralo?

Felice:Mio marioco voggioche el diga de sìbastachelo varda; con un’occhiada el me intende.

Lucietta:Siora madreghe n’àla più?

Margarita:Cossa?

Lucietta:Delle dificoltà?

Margarita:Me faressi dirdeboto… orsù tanto fache lestaga de là quele maschere comeche le vegna de qua. Al’ultima de le ultimegh’averè da pensar vu più de mi.(a Lucietta) Siore mascherele favorissale vegna avanti.(alla scena)

Lucietta:(Oh comeche me bate el cuor!)

SCENAUNDICESIMA

FILIPPETTOin maschera da donnail conte RICCARDO e dette.

Riccardo:Servitor umilissimo di lor signore.

Felice:Patronesiore maschere.

Margarita:Serva. (sostenuta)

Marina:Siora maschera donnala reverisso. (a Filippetto)

Filippetto:(fa la riverenza da donna)

Lucietta:(Vardè che bon sesto!).

Felice:Maschereandeu a spasseti?

Riccardo:Il carnovale desta l’animo ai divertimenti. (a Marina)

Marina:Siora Lucietacossa diseu de ste maschere?

Lucietta:Cossa vorlache diga? (mostrando di vergognarsi)

Filippetto:(Oh cara! oh che pometo da riosa!)

Margarita:Siore mascherele perdona la mala creanza; àledisnà ele?

Riccardo:Io no.

Margarita:In veritàvoressimo andar a disnar.

Riccardo:Vi leveremo l’incomodo.

Filippetto:(De diana! no l’ho malistente vardada!)

Riccardo:Andiamosignora maschera. (a Filippetto)

Filippetto:(Sia malignazo!)

Marina:Eh aspetè un pochetin. (a Riccardo e Filippetto)

Margarita:(Me lo sento in te le recchie quel satiro de mio mario).

Felice:Mascherasentì una parola. (a Filippetto)

Filippetto:(si accosta a Felice)

Felice:Ve piàsela? (piano a Filippetto)

Filippetto:Siora sì. (piano a Felice)

Felice:Xèla bela? (come sopra)

Filippetto:De diana! (come sopra)

Lucietta:(Siora madre).

Margarita:(Cossa gh’è?)

Lucietta:(Almancoche lo podesse véder un pochetin).

Margarita:(Adessadessove chiapo per un brazzoe ve meno via).

Lucietta:(Pazzenzia).

Marina:Maschera. (a Filippetto)

Filippetto:(s’accosta a Marina)

Marina:Ve piàsela?

Filippetto:Assae.

Marina:Toleu tabaccomaschera?

Filippetto:Siora sì.

Marina:Se comandèservìve.

Filippetto:(prende il tabacco colle ditae vuol pigliarlo collamaschera al volto)

Felice:Co se tol tabaccose se cava el volto. (gli leva lamaschera)

Lucietta:(Oh co belo!) (guardandolo furtivamente)

Marina:Mo che bela puta! (verso Filippetto)

Felice:La xè mia sorela.

Lucietta:(I me fa da rider).(ridendo)

Filippetto:(Oh co la ride pulito!)

Felice:Vegnì quatirève la bauta soto la gola. (glicala la bauta)

Lucietta:(El consola el cuor).

Marina:Chi xè più bela de ste do pute? (giFilippetto e Lucietta)

Filippetto:(si vergognae guarda furtivamente Lucietta)

Lucietta:(fa lo stesso)

Riccardo:(Sono obbligato alla signora Feliceche oggi mi ha fattogodere la più bella commedia di questo mondo).

Margarita:Oh viafenìmolafigurarseche xè ora. Noparlemo più in equivoco. Ringraziè ste signoreche hafato sto contrabandoe racomandève al Cieloche se sarèdestinaive torè. (a Lucietta e Filippetto)

Felice:Via andèmaschere; contentève cusìper adesso.

Filippetto:(Mi no me so destaccar).

Lucietta:(El me porta via el cuor).

Margarita:Manco malche la xè andada ben.

Marina:Tirève su la bauta. (a Filippetto)

Filippetto:Come se fa? No gh’ho pratica.

Felice:Vegnì qua da mi. (gl accomoda la bauta)

Lucietta:(Poverazzo! nol se sa giustar la bauta). (ridendo forte)

Filippetto:Me bùrlela? (a Lucietta)

Lucietta:Mi no. (ridendo)

Filippetto:Furba!

Lucietta:(Caro colù).

Margarita:Oh povereta mi! oh povereta mi!

Felice:Coss’è stà.

Margarita:Ve’ qua mio mario.

Marina:Sì per diana: anca el mio.

Felice:No xèla mia sorela?

Margarita:Eh cara elase el me trova in busiapovereta mi. Prestoprestoscondèveandè in quela camera. (aFilippettospingendolo) Caro sior la vaga là drento. (aRiccardo)

Riccardo:Che imbroglio è questo?

Felice:La vagala vagasior Ricardo. La ne fazza sta grazia.

Riccardo:Farò anche questo per compiacervi. (entra in unacamera)

Filippetto:(Spionerò intanto). (entra in una camera)

Lucietta:(Me trema le gambeche no posso più).

Margarita:Ve l’òggio dito? (a Felice e Marina)

Marina:Via viano xè gnente. (a Margarita)

Felice:Co anderemo a disnar i se la baterà.

Margarita:Son stada tropo minchiona.

 

SCENADODICESIMA

LUNARDOSIMONCANCIANO e dette.

Lumardo:Oh patronexèle stuffe d’aspetar? Adessadessoanderemo a disnar. Aspetemo sior Maurizioe subito che el vienandemo a disnar.

Margarita:No ghe gièrelo sior Maurizio?

Lumardo:El ghe giera. El xè andà in t’un servizioeel tornerà adessadesso. Cossa gh’àstu tiche ti me parsbattueta ? (a Lucietta)

Lucietta:Gnente. Vorlo che vaga via?

Lumardo:No nosta quafia miache anca per ti xè vegnùla to zornada: n’è verosior Simon?

Simon:Poverazza! gh’ho a caro.

Lumardo:Ah! cossa diseu? (a Cancian)

Canciano:Sìin veritàla lo merita.

Lucietta:(No me vol andar via sto tremazzo ).

Felice:Gh’è qualche novitàsior Lunardo?

Lumardo:Siora sì.

Marina:Viache sapiemo anca nu.

Margarita:Za mi sarò l’ultima a saverlo. (a Lunardo)

Lumardo:Sentìfiaancuo disè quel che volèche no gh’ho voggia de criar. Son contentoe voggio che se godemo.Lucieta vien qua.

Lucietta:(si accosta tremando)

Lumardo:Cossa gh’àstu?

Lucietta:No so gnanca mi. (tremando)

Lumardo:Gh’àstu la freve ? Ascoltache la te passerà.In presenza de mia muggierche te fa da mare; in presenza de sti dogalantomenie delle so paronete dago la niovache ti xènovizza.

Lucietta:(tremapiange e quasi casca)

Lumardo:Olàolàcossa fastu? Te despiasechet’abbia fato novizza?

Lucietta:Sior no.

Lumardo:Sastu chi xè el to novizzo?

Lucietta:Sior sì.

Lumardo:Ti lo sa? come lo sastu? chi te l’ha dito? (sdegnato)

Lucietta:Sior nono so gnente. La compatissache no so gnanca cossache diga.

Lumardo:Ah! povera inocente! così la xè arlevadavedeu? (a Simon e Cancian)

Felice:(Se el savesse tuto). (piano a Margarita)

Margarita:(M’inspirito che el lo sapia). (a Felice)

Marina:(No gh’è pericolo). (a Margarita)

Lumardo:Orsù sapiè che el so novizzo xè elfio de sior Maurizionevodo de siora Marina.

Marina:Dasseno? mio nevodo?

Felice:Oh cossa che ne contè!

Marina:Mo gh’ho ben a carodasseno.

Felice:De meggio no podevi trovar.

Marina:Quando se faràle ste nozze?

Lumardo:Ancuo.

Margarita:Ancuo?

Lumardo:Sior sìancuoadessadesso. Sior Maurizio xèandà a casa; el xè andà a levar so fioel lomena quadisnemo insiemee po subito i se dà la man.

Margarita:(Oh povereta mi!)

Felice:Cusì a la presta?

Lumardo:Mi no voggio brui longhi.

Lucietta:(Adesso me trema anca le buele ).

Lumardo:Cossa gh’àstu? (a Lucietta)

Lucietta:Gnente.

 

SCENATREDICESIMA

MAURIZIOe detti

Lumardo:Oh via; seu qua? (a Maurizio)

Maurizio:Son qua. (turbato)

Lumardo:Cossa gh’aveu?

Maurizio:Son fora de mi.

Lumardo:Coss’è stà?

Maurizio:Son andà a casaho cercà el puto. No l’hotrovà in nissun liogo. Ho domandàme son informàme xè stà ditoche l’è stà visto incompagnia de un certo sior Riccardoche pratica siora Felice. Chièlo sto sior Riccardo? Chi èlo sto forestier? cossagh’ìntrelo con mio fio? (a Felice)

Felice:Mi de vostro fio no so gnente. Ma circa al forestier el xèun cavalier onorato. N’è verosior Cancian?

Canciano:Mi no so gnente chi el siae no so chi diavolo l’abiamandà. Ho tasesto fin adessoho mandà zo dei boconiamariper contentarveper no criar; ma adesso mo ve digoche percasa mia no lo voggio più. Siora sìel sarà unfa pele.

 

SCENAQUATTORDICESIMA

RICCARDOe detti; poi FILIPPETTO

Riccardo:Parlate meglio dei cavalieri d’onore.(a Canciano)

Lumardo:In casa mia? (a Riccardo)

Maurizio:Dove xè mio fio? (a Riccardo)

Riccardo:Vostro figlio è là dentro. (a Maurizio)

Lumardo:Sconto in camera?

Maurizio:Dov’èstudesgrazià?

Filippetto:Ah sior padreper carità. (s’inginocchia)

Lucietta:Ah sior padreper misericordia. (s’inginocchia)

Margarita:Mariono so gnentemario. (raccomandandosi)

Lumardo:Titi me la pagheràdesgraziada. (vuol dare aMargarita)

Margarita:Agiuto.

Marina:Tegnìlo.

Filippetto:Fermèlo.

Simon:Stè saldo.

Canciano:No fè. (Simon e Canciano strascinano dentroLunardo e partono in tre)

Maurizio:Vien quavien quafurbazzo. (piglia per un braccioFilippetto)

Margarita:Vegnì quafrasconazza. (piglia per un braccioLucietta)

Maurizio:Andemo. (lo tira)

Margarita:Vegnì via con mi. (la tira)

Maurizio:A casa la giustaremo. (a Filippetto)

Margarita:Per causa vostra. (a Lucietta)

Filippetto:(andando viasaluta Lucietta)

Lucietta:(andando viasi dà de’ pugni)

Filippetto:Povereta!

Lucietta:Son desperada.

Maurizio:Va’ via de qua. (lo caccia viae partono)

Margarita:Sia maledeto co son vegnua in sta casa. (parte spingendoLucietta)

Marina:Oh che sussuroo che diavolezzo! Povera putapovero mionevodo! (parte)

Riccardo:In che impiccio mi avete messosignora?

Felice:Xèlo cavalier?

Riccardo:Perché mi fate questa dimanda?

Felice:Xèlo cavalier?

Riccardo:Tale esser mi vanto.

Felice:Doncache el vegna con mi.

Riccardo:A qual fine?

Felice:Son una donna onorata. Ho falàe ghe vòiremediar.

Riccardo:Ma come?

Felice:Comecome! se ghe digo el comexè fenìa lacommedia. Andemo. (partono)

 

 

ATTOTERZO

SCENAPRIMA

Cameradi Lunardo

LUNARDOCANCIANO e SIMON

Lumardo:Se trata de onorse tratavegnimo a dir el meritodereputazion de casa mia. Un omo della mia sorte. Cossa dirài demi? cossa dirài de Lunardo Cròzzola?

Simon:Quietèvecaro compare. Vu no ghe n’avè colpa.Xè causa le donne; castighèlee tuto el mondo veloderà.

Canciano:Sì benbisogna dar un esempio. Bisogna umiliar lasuperbia de ste muggier cusì altieree insegnar ai omei acastigarle.

Simon:E che i diga purche semo rusteghi.

Canciano:E che i diga purche semo salvadeghi.

Lumardo:Mia muggier xè causa de tuto.

Simon:Castighèla.

Lumardo:E quela frasconazzala ghe tien drio.

Canciano:Mortifichèla.

Lumardo:E vostra muggier ghe tien terzo. (a Cancian)

Canciano:La castigherò.

Lumardo:E la vostra sarà d’accordo. (a Simon)

Simon:Anca la mia me la pagherà.

Lumardo:Cari amiciparlemoconsegiemose. Con custìevegnimo a dir el meritocossa avémio da far? Per la puta xèfacilee gh’ho pensàe ho stabilio. Prima de tutoa monteel matrimonio . Mai piùche no la parla de maridarse. Lamanderò a serar in t’un liogolontana dal mondotra quatromurie la xè fenìa. Ma le muggier come le avémioda castigar? Disè la vostra opinion.

Canciano:Veramenteconfesso el vero; son un pochetin intrigà.

Simon:Se poderave ficcarle anca ele in t’un retiro tra quatromurie destrigarse cussì.

Lumardo:Questovegnimo a dir el meritosarave un castigo piùper nuche per ele. Bisogna spender; pagar le spesemandarle vestìecon un pocheto de puliziae per retirae che le stagale gh’averàsempre là drento più spassoe più libertàche no le gh’ha in casa nostra. Pàrlio ben ? (a Simon)

Simon:Disè benissimo. Specialmente da vue da miche noghe lassemo la brena sul colo come mio compare Cancian.

Canciano:Cossa voleuche diga? gh’avè rason. Poderessimotegnirle in casaserae in t’una camera; menarle un pochetin a lafesta con nue po tornarle a serare che no le vedesse nissuneche no le parlasse a nissun.

Simon:Le donne serae? senza parlar con nissun? Questo xè uncastigoche le fa crepar in tre dì.

Canciano:Tanto meggio.

Lumardo:Ma chi è quel omoche voggia far l’aguzin? e po sei parenti lo sai fa el diavoloi mete soto mezzo mondoi ve la fatirar forae po ancora i ve diseche sè un orsoche sèun tangaroche sè un can.

Simon:E co avè molào per amoro per impegnoleve tol la mane no sé più paron de criarghe.

Canciano:Giusto cusì ha fato con mi mia muggier.

Lumardo:La vera sariavegnimo a dir el meritodoperar un pezzode legno.

Simon:Sìda galantomoe lassarche la zente diga.

Canciano:E se le se revolta contra de nu?

Simon:Se poderave dar savè

Canciano:Mi so quel che digo.

Lumardo:In sto casose troveressimo in t’un bruto cimento.

Simon:E po? no saveu? Ghe ne xè dei omeniche bastona leso muggierma credeuche gnanca per questo i le possa domar? Oibò; le fa pezoche mai; le lo fa per despeto; se no i le copanogh’è remedio.

Lumardo:Coparle po no.

Canciano:Mo nocerto; perché povòltelaménelasenza donne no se pol star.

Simon:Mo no saràvela una contentezzaaver una muggierbonaquietaubidiente? No saràvela una consolazion?

Lumardo:Mi l’ho provada una volta. La mia primapoveretalagiera un agnelo. Questa? la xè un basilisco.

Canciano:E la mia? Tuto a so modo la vol.

Simon:E mi criostrepitoe no fazzo gnente.

Lumardo:Tuto xè malma un malche se pol soportar; ma intel casoche son mi adessovegnimo a dir el meritose trata deassae. Voria ressolvere no so quala far.

Simon:Mandèla dai so parenti.

Lumardo:Certo! acciòche la me fazza smatar.

Canciano:Mandèla fora . Fèla star in campagna.

Lumardo:Pezo! la me consuma le intrae in quatro zorni.

Simon:Fèghe parlar; trovè qualchedun che la meta indover.

Lumardo:Eh! no l’ascolta nissun.

Canciano:Provè a serarghe i abitia serarghe le zoggietegnìla bassa; mortifichèla.

Lumardo:Ho provà; se fa pezoche mai.

Simon:Ho capìo; fè cusìcompare.

Lumardo:Come?

Simon:Godèvelacome che la xè.

Canciano:Ho pensier anca miche no ghe sia altro remediochequesto.

Lumardo:Sìl’ho capìa che xè un pezzo. Vedoanca micheco l’è fata no ghe xè più remedio.M’aveva comodà el mio stomego de soportarla; ma questache lam’ha fatola xè tropo granda. Ruvinarme una puta de quelasorte? farghe vegnir el moroso in casa? Xè veroche mi ghel’aveva destinà per marioma cossa savévelavegnimo adir el meritola mia intenzion? Gh’ho dà qualche motivo demaridarla. Ma no me podévio pentir? No se podeva darche nose giustessimo? No podeva portar avanti dei mesie dei anni? E la melo introduse in casa? in maschera? da scondon ? La fa che i se veda?la fa che i se parla? Una mia puta? una colomba inocente? No metegno; la vòi castigarla vòi mortificarse credessevegnimo a dir el meritode precipitar.

Simon:Causa siora Felice.

Lumardo:Sìcausa quella mata de vostra muggier. (aCancian)

Canciano:Gh’avè rason. Mia muggier me la pagherà.

 

SCENASECONDA

FELICEe detti

Felice:Patroni reveritigrazie del so bon amor.

Canciano:Cossa feu qua?

Lumardo:Cossa vorla in casa mia?

Simon:Xèla quaper far che nassa qualche altra bela scena?

Felice:I se stupisse perché son qua? Voléveli chefusse andada via? Credévelo sior Cancianche fusse andada colforestier?

Canciano:Se anderè più con colùve faròvéder chi son.

Felice:Disèmecaro vecchioghe songio mai andada senza devu?

Canciano:La sarave bela!

Felice:Senza de vul’òggio mai recevesto in casa?

Canciano:Ghe mancarave anca questa!

Felice:E perché donca credeviche fusse andada con élo?

Canciano:Perché sè una mata.

Felice:(El fa el bravoperché el xè in compagnia).

Simon:(Oe la gh’ha filo ). (piano a Lunardo)

Lumardo:(El fa ben a mostrarghe el muso). (piano a Simon)

Canciano:Andémosioravegnì a casa con mi.

Felice:Abiè un pocheto de flema.

Canciano:Me maraveggioche gh’abiè tanto muso de vegnir qua.

Felice:Per cossa? cossa òggio fato?

Canciano:No me fè parlar.

Felice:Parlè.

Canciano:Andémo via.

Felice:Sior no.

Canciano:Andémoche cospeto de diana… (minacciandola)

Felice:Cospetocospeto… so cospetizar anca mi. Coss’èsior? M’aveu trovà in t’un gatolo ? Songio la vostra massèra?Cusì se parla con una donna civil? Son vostra muggier; me podècomandarma no me vòi lassar strapazzar. Mi no ve perdo elrespetto a vue vu no me l’avè da perder a mi. E dopo che sèmio mariono m’avè mai più parlà in stamaniera. Coss’è sto manazzar? coss’è sto cospeto? cossaxè sto alzar le man? A mi manazzar? a una donna della miasorte? Disèsior Cancianv’àli messo su sti patroni?v’àli conseggiàche me tratè in sta maniera?Ste asenarie l’aveu imparade da lori? Se sè un galantomotratè da queloche sèse ho falàcorezème; ma no se strapazzae no se manazzae no se dise cospettoe no setratta cusì. M’aveu capìosior Cancian? Abiègiudizio vuse volèche ghe n’abbia anca mi.

Canciano:(resta ammutolito)

Simon:(Aveu sentìo che ràcola ?) (a Lunardo)

Lumardo:(Adessadesso me vien voggiade chiaparla mi per el colo.E quel martuffo sta zito). (a Simon)

Simon:(Cossa voleuche el fazza? Voleu che el precipita?)

Felice:Viasior Cancianno la dise gnente?

Canciano:Chi ha più giudizio el dopera.

Felice:Sentenza de Ciceron! Cossa dìsele elepatroni?

Lumardo:Cara siorano me fè parlar.

Felice:Perché? son vegnua a postaacciòche parlè;so che ve lamentè de mie gh’ho gusto de sentir le vostrelamentazion. Sfoghève con misior Lunardoma no stè ameter su mio mario. Perché se me dirè le vostre rasonson donna giustae se gh’ho torto sarò pronta a darvesodisfazion; ma arecordève benche el meter disunion tramario e muggier el xè un de quei mali che no se giusta cusìfacilmentee quel che no voressi che i altri fasse con vugnanca vucoi altri no l’avè da fare parlo anca co sior Simonche contuta la so prudenza el sa far la parte da diavolo co bisogna. Parlocon tutti doe ve parlo schietoperché me capì. Sonuna donna d’onore se gh’avè qualcossaparlè.

Lumardo:Disèmecara siorachi è stàche hafato vegnir quel puto in casa mia?

Felice:Son stada mi. Mi son stadache l’ha fato vegnir.

Lumardo:Bravasiora!

Simon:Pulito!

Canciano:Lodèveche avè fato una bel’azion!

Felice:Mi no me lodo; so che giera meggio che no l’avesse fato; mano la xè una cativa azion.

Lumardo:Chi v’ha dà licenzache lo fè vegnir?

Felice:Vostra muggier.

Lumardo:Mia muggier? v’àla parlà? v’àlapregà? xèla vegnua éla a dirveloche lo menè?

Felice:Sior no; me l’ha dito siora Marina.

Simon:Mia muggier?

Felice:Vostra muggier.

Simon:Ala pregà éla el forestierche tegnisse terzoa quela pura?

Felice:Sior noel forestier l’ho pregà mi.

Canciano:Vu l’avè pregà? (con isdegno)

Felice:Sior sìmi. (a Cancianocon isdegno)

Canciano:(Oh che bestia! no se pol parlar!)

Lumardo:Mo perché far sta cossa? mo perché menarlo?mo perché siora Marina se n’àla intrigà? moperché mia muggier s’àla contentà?

Felice:Mo perché questomo perché st’altro!Ascoltème; sentì l’istoria come che la xè.Lassème dir; no me interrompè. Se gh’ho tortome darètorto; e se gh’ho rasonme darè rason. Prima de tutolassèpatroniche ve diga una cossa. No andè in colerae no ven’abiè per mal. Sè tropo rusteghi; sè troposalvadeghi. La maniera che tegnì co le donneco le muggierco la fiala xè cusì stravagante fora de l’ordinarioche mai in eterno le ve poderà voler ben; le ve obedisse perforzale se mortifica con rasone le ve considerano mariinopadrima tartariorsi e aguzini. Vegnimo al fato. (No “vegnimoa dir el merito”vegnimo al fato). Sior Lunardo vol maridar laso puranol ghe lo disenol vol che la lo sapia; no la lo ha favéder; piasao no piasala lo ha da tòr. Accordo ancamiche le pute no sta benche le fazza l’amorche el mario ghel’ha da trovar so sior padree che le ha da obedirma no xèmo gnanca giusto de meter alle fie un lazzo al coloe dirghe: til’ha da tiòr. Gh’avè una fia solae gh’avè cuorde sacrificarla? (a Lunardo) Mo el puto xè un puto desestoel xè bonel xè zovenenol xè brutoelghe piaserà. Seu seguro”vegnimo a dir el merito”che el gh’abia da piàser? E se nol ghe piasesse? Una putaarlevada a la casalina con un mario fio d’un pare selvadegosulvostro andarche vita doveràvela far? Sior sìavemofato ben a far che i se veda. Vostra muggier lo desideravama no lagh’aveva coraggio. Siora Marina a mi s’ha racomandà. Mi hotrovà l’invenzion de la mascherami ho pregà elforestier. I s’ha vistoi s’ha piassoi xè contenti. Vudoveressi esser più quietopiù consolà. Xècompatibile vostra muggiermerita lode siora Marina. Mi ho operàper bon cuor. Se sè omenipersuadèvese sètangherisodisfève. La puta xè onestael puto no hafalà; nualtre semo donne d’onor. Ho fenito la renga; laudèel matrimonioe compatì l’avocato.

(LunardoSimon e Cancian si guardano l’un l’altrosenza parlare)

Felice:(I ho messi in saccoma con rason).

Lumardo:Cossa diseusior Simon?

Simon:Mise stasse a milauderave.

Canciano:Gnanca mi no ghe vago in tel verde.

Lumardo:E pur ho paurache bisognerà che taggiemo.

Felice:Per cossa?

Lumardo:Perché el padre del putovegnimo a dir elmerito…

Felice:“Vegnimo a dir el merito”al padre del puto xèandà a parlarghe sior Conteel xè in impegnoche sefazza sto matrimonioperché el diseche inocentemente el xèstà causa élo de sti sussurie el se chiama affrontàe el vol sta sodisfazion; el xè un omo de garbo; el xèun omo che parla bene son segurache sior Maurizio no saveràdir de no.

Lumardo:Cossa avémio da far?

Simon:Caro amigode tanteche ghe ne avemo pensàno ghexè la meggio de questa. Tòr le cosse come che le vien.

Lumardo:E l’affronto?

Felice:Che affronto? co el xè mario xè fenìol’affronto.

Canciano:Sentìsior Lunardo; siora Felice gh’ha anca élale so debolezzema per dir la veritàqualche volta la xèuna donna de garbo.

Felice:N’è vero sior Cancian?

Lumardo:Mo viacossa avémio da far?

Simon:Prima de tutomi dirave de andar a disnar.

Canciano:Per dirlaparevache el disnar s’avesse desmentegà.

Felice:Eh chi l’ha ordenà no xè alocco. El l’hasospesoma nol xè andà in fumo. Fè cusìsior Lunardose volèche magnemo in pase: mandè achiamar vostra muggiervostra fiadisèghe qualche cossabrontolè al solito un pochetinma po fenìmola;aspetemo che vegna sior Riccardoe se vien el putofenìmola.

Lumardo:Se vien qua mia muggiere mia fiaho paura de no podermetegnir.

Felice:Viasfoghèvegh’avè rason. Seu contentocussì?

Canciano:Chiamémole.

Simon:Anca mia muggier.

Felice:Mimi: aspettè mi. (parte correndo)

SCENATERZA

LUNARDOCANCIANO e SIMON

Lumardo:Una gran chiaccola gh’ha quela vostra muggier. (aCancian)

Canciano:Vedeu! no me disè doncache son un martuffosequalche volta me lasso menar per el naso. Se digo qualcossala me fauna rengae mi laudo.

Simon:Gran donne! o per un versoo per l’altro le la vol a somodo seguro.

Lumardo:Co le lassè parlarno le gh’ha mai torto.

 

SCENAQUARTA

FELICEMARINAMARGARITALUCIETTA e detti.

Felice:Vèle quavelè qua. Pentiecontritee le vedomanda perdon. (a Lunardo)

Lumardo:Se me fa anca de queste? (a Margarita)

Felice:No la ghe n’ha colpason causa mi. (a Lunardo)

Lumardo:Cossa meriteressistufrasconcela! (a Lucietta)

Felice:Parlè con mive responderò mi. (aLunardo)

Lumardo:I omeni in casa? i morosi sconti? (a Margarita eLucietta)

Felice:Criè co miche son causa mi. (a Lunardo)

Lumardo:Andève a far squartar anca vu. (a Felice)

Felice:“Vegnimo a dir el merito…” (a Lunardoderidendolo)

Canciano:Come parleu co mia muggier? (a Lunardo)

Lumardo:Caro vucompatìme. Son fora de mi.(a Cancian)

Margarita:(mortificata)

Lucietta:(piange)

Margarita:Siora Felice. Cossa n’aveu dito? Cusì pulito la xègiustada?

Simon:Anca vu siora meriteressi la vostra parte. (a Marina)

Marina:Mi chiapo sue vago via.

Felice:Nonofermève. Al povero sior Lunardo ghe gierarestà in corpo un poco de còlera: l’ha volesto butarlafora . Da resto el ve scusael ve perdona; e se vien el putoel secontenteràche i se sposa; n’è verosior Lunardo?

Lumardo:Siora sìsiora sì. (ruvido)

Margarita:Caro mariose savessi quanta passionche ho provà!Credèmelo no saveva gnente. Co xè vegnù quelemaschereno voleva lassarle vegnir. Xè stà… xèstà…

Felice:Via son stada micossa ocore?

Marina:(Disèghe anca vu qualcossa). (piano a Lucietta)

Lucietta:Caro sior padreghe domando perdonanza. Mi no ghe n’hocolpa…

Felice:Son stada mive digoson stada mi.

Marina:Per dir la veritàgh’ho anca mi la mia parte demerito.

Simon:Eh savemoche sè una signora de spirito. (aMarinacon ironia)

Marina:Più de vucerto.

Felice:Chi xè? (osservando fra le scene)

Margarita:Oei xè lori. (a Felice)

Lucietta:(El mio novizzo). (allegra)

Lumardo:Coss’è? chi xè? chi vien? Omeni? Andèvia de qua. (alle donne)

Felice:Vardè! cossa femio? Aveu paurache i omeni nemagna? No semio in quarto? no ghe seu vu? Lassèche i vegna.

Lumardo:Comandeu vupatrona?

Felice:Comando mi.

Lumardo:Quel forestier no lo voggio. Se el vegnirà éloanderò via mi.

Felice:Mo perché nol voleu? El xè un signor onorato.

Lumardo:Che el sia quelche el volno lo voggio. Mia muggieremia fia no le xè use a véder nissun.

Felice:Eh per sta volta le gh’averà pazenzian’èvero fie?

Margarita:Oh mi sì.

Lucietta:Oh anca mi.

Lumardo:Mi sìanca mi. (burlandole) Ve digoche nolo voggio. (a Felice)

Felice:(Mo che orsomo che satiro!) Aspettè aspettèche lo farò star in drio. (si accosta alla scena)

Lucietta:(Eh no m’importa. Me basta uno che vegna).

SCENAULTIMA

MAURIZIOFILIPPETTO e detti

Maurizio:Patroni. (sostenuto)

Lumardo:Sioria. (brusco)

Filippetto:(saluta furtivamente Lucietta. Maurizio lo guarda.Filippetto finge che non sia niente)

Felice:Sior Maurizioaveu savesto come che la xè stada?

Maurizio:Mi adesso no penso a quel che xè stàpenso aquelche ha da esser per l’avegnir. Cossa dise sior Lunardo?

Lumardo:Mi digo cusìvegnimo a dir el meritoche i fioico i xè ben arlevai no i va in mascherae no i va in casavegnimo a dir el meritodelle pute civil.

Maurizio:Gh’avè rason: andémo via de qua. (aFilippetto)

Lucietta:(piange forte)

Lumardo:Desgraziada! cosa xè sto fifar ?

Felice:Mo ve digo ben la veritàsior Lunardo”vegnimoa dir el merito”che la xè una vergogna. Seu omoo seuputelo? Disèdesdisève muè co fa lezirandole.

Marina:Vardè che sesti! No ghe l’aveu promessa? no aveu seràel contrato? Cossa xè stà? cossa xè successo? Vel’àlo menada via? v’àlo fato disonor a la casa? Coss’èsti purelezzi? cossa xè ste smorfie? cossa xè stimusoni? (a Lunardo)

Margarita:Ghe voggio mo intrar anca mi in sto negozio. Sior sìm’ha despiassoche el vegna: l’ha fato mal a vegnir; ma col gh’ha dàla man no xè fenìo tuto? Fina a un certo segno me l’holassada passarma adesso mo ve digosior sìel l’ha da tòrel l’ha da sposar. (a Lunardo)

Lumardo:Che el la togache el la sposache el se destriga: sonstuffo; no posso più.

Lucietta:Filippetto: (saltano per allegrezza)

Maurizio:Co sta rabbia i s’ha da sposar? (a Lunardo)

Felice:Se el xè inrabiàso danno. Nol l’ha miga dasposar élo.

Margarita:Viasior Lunardovoleuche i se daga la man?

Lumardo:Aspetè un pochetin. Lassèche me daga zosola còlera.

Margarita:Viacaro mariove compatisso. Conosso el vostrotemperamento; sè un galantomosè amorososè debon cuor; mafigurarsesè un pocheto sutilo. Sta voltagh’avè anca rason; ma finalmente tanto vostra fiaquanto miv’avemo domandà perdonanza. Credèmeche a redur unadonna a sto passo ghe vol assae. Ma lo fazzoperché ve voggiobenperché voggio ben a sta putabenché no la ‘lconossao no la lo voggia conosser. Per éla per vumecaverave tuto quelo che gh’ho; sparzerave el sangue per la pase desta fameggia; contentè sta putaquietève vusalvèla reputazion della casae se mi no merito el vostro amorpazenziasarà de mi quel che destinerà mio mariola mia sorteo la mia cativa desgrazia.

Lucietta:Cara siora madresìela benedetaghe domando perdonanca a éla de quelche gh’ho ditoe de quel che gh’ho fato.

Filippetto:(La me fa da pianzer anca mi).

Lumardo:(si asciuga gli occhi)

Canciano:Vedeusior Lunardo? Co le fa cusì no se se poltegnir. (a Lunardo)

Simon:In sumaco le boneo co le cativele fa tuto quel che levol.

Felice:E cusìsior Lunardo?…

Lumardo:Aspetè. (con isdegno)

Felice:(Mo che zoggia!)

Lumardo:Lucieta. (amorosamente)

Lucietta:Sior.

Lumardo:Vien qua.

Lucietta:Vegno. (si accosta bel bello)

Lumardo:Te vustu maridar?

Lucietta:(si vergognae non risponde)

Lumardo:Viarespondite vustu maridar? (con isdegno)

Lucietta:Sior sìsior sì.(fortetremando)

Lumardo:Ti l’ha visto ahel novizzo?

Lucietta:Sior sì.

Lumardo:Sior Maurizio.

Maurizio:Cossa gh’è? (ruvido)

Lumardo:Viacaro vecchiono me respondèvegnimo a dir elmeritocusì rustego.

Maurizio:Disè pur su quel che volevi dir.

Lumardo:Se no gh’avè gnente in contrariomia fia xèper vostro fio. (i due sposi si rallegrano)

Maurizio:Sto baron no lo merita.

Filippetto:Sior padre… (in aria di raccomandarsi)

Maurizio:Farme un’azion de sta sorte? (senza guardar Filippetto)

Filippetto:Sior padre… (come sopra)

Maurizio:No lo vòi maridar.

Filippetto:Oh povereto mi.(traballando mezzo svenuto)

Lucietta:Tegnìlotegnìlo.

Felice:Mo viache cuor gh’aveu ? (a Maurizio)

Lumardo:El fa ben a mortificarlo.

Maurizio:Vien qua. (a Filippetto)

Filippetto:Son qua.

Maurizio:Xèstu pentìo de quel che ti ha fato?

Filippetto:Sior sìdassenosior padre.

Maurizio:Varda benche anca se ti te maridivoggio che ti me usil’istessa ubbidienzae che ti dipendi da mi.

Filippetto:Sior sìghe lo prometo.

Maurizio:Varda quasiora Lucietave acceto per fia; e tiel Cielote benedissa; dàghe la man.

Filippetto:Come sa fa? (a Simon)

Felice:Viadèghe la man; cusì.

Margarita:(Poverazzo!)

Lumardo:(si asciuga gli occhi)

Margarita:Sior Simonsior Canciansarè vu i compari.

Canciano:Siora sì semo quasemo testimoni.

Simon:E co la gh’averà un putelo?

Filippetto:(ride e salta)

Lucietta:(si vergogna)

Lumardo:O viaputistè aliegri. Xè orache andémoa disnar.

Felice:Disè; caro sior Lunardoquel forestier che per amormio xè de là che aspetave par convenienza de mandarlovia? El xè stà a parlar co sior Maurizioel l’ha fatovegnir qua élo. La civiltà non insegna a tratar cusì.

Lumardo:Adesso andémo a disnar.

Felice:Invidèlo anca élo.

Lumardo:Siora no.

Felice:Vedeu? sta rusteghezzasto salvadegume che gh’avèintorno xè stà causa de tuti i desordeniche xènati ancuoe ve farà esser… Tuti tresaveu? parlo contuti tre; ve farà esser rabbiosiodiosimalcontentieuniversalmente burlai. Siè un poco più civilitratabiliumani. Esaminè le azion de le vostre muggiere cole xè onestedonè qualcossasoportè qualcossa.Quel Conte forestier xè una persona propriaonestacivil; atratarlo no fazzo gnente de mal; lo sa mio marioel vien con élo;la xè una purae mera conversazion. Circa al vestirco no seva drio a tute le modeco no se ruvina la casala pulizia sta benla par bon. In somase volè viver quietise volè starin bona co le muggierfè da omenima no da salvadeghicomandèno tiraneggièe amèse volèesser amai.

Canciano:Bisogna po dirla; gran mia muggier!

Simon:Seu persuasosior Lunardo?

Lumardo:E vu?

Simon:Mi sì.

Lumardo:Disèghe a quel sior forestierche el resta adisnar con nu. (a Margarita)

Margarita:Manco mal. Vogia el Cieloche sta lizion abia profità.

Marina:E vunevodocome la tratereu la vostra novizza? (aFilippetto)

Filippetto:Cusì; su l’ordeneche ha dito siora Felice.

Lucietta:Ohmi me contento de tuto.

Margarita:Ghe despiase solamente co le cascate xè fiape.

Lucietta:Mo via no la m’ha gnancora perdonà?

Felice:A monte tuto. Andemo a disnarche xè ora. E se elcuogo de sior Lunardo non ha provisto salvadeghia tola no ghe n’hada essere no ghe ne sarà. Semo tuti desmesteghituti boniamicicon tanto de cuor. Stemo aliegrimagnemobevemoe femo unprindese alla salute de tuti queliche con tanta bontàecortesia n’ha ascoltàn’ha soffertoe n’ha compatìo.

E’ prevista la gratuità per spettatore disabile e accompagnatore. Visto il numero limitato dei posti (4 per le sedie a rotelle) è vivamente consigliata la prenotazione alla Biglietteria di Palazzo Barbieri o Boxoffice


Estate teatrale veronese su dismappa