20150125_p1230271 Festival e manifestazioni

Giorno della memoria



Oggi è il 70mo anniversario della liberazione da parte delle truppe sovietiche del campo di concentramento di Auschwitz, il 27 gennaio del 1945: il vagone dei deportati in Piazza Bra a ricordo e monito delle vittime della Shoah.

Giornata della memoria su dismappa

IL GIORNO DELLA MEMORIA. Alcuni ebrei che hanno vissuto l’orrore delle leggi razziali raccontano quello che successe nella nostra città negli anni delle deportazioni

Testimoniare. Perché non accada più

Alessandra Galetto

Lucia Roditi: «Dobbiamo fare capire ai giovani le vicende dell’Europa nel secolo scorso o la Shoah rischierà l’oblio»

martedì 27 gennaio 2015 CRONACA, pagina 19

Sono tante le voci che, in occasione del Giorno della memoria, in questo anniversario dei 70 anni della liberazione da parte delle truppe sovietiche del campo di concentramento di Auschwitz, il 27 gennaio del ’45, tentano di restituire una testimonianza dell’orrore che l’Europa conobbe durante il secondo conflitto mondiale. Anche la nostra città, in questi giorni, dà spazio a queste voci: coraggiose non soltanto perchè avvertono come un dovere di fronte alle nuove generazioni la sofferenza di ripercorrere pagine terribilmente dolorose della propria storia personale, ma anche perchè, più volte in questi 70 anni, hanno subito l’offesa delle tesi revisioniste, e ancora perchè oggi, di fronte agli accadimenti della storia presente, si ritrovano a leggere segnali di intolleranza razziale nei Paesi di cui sono cittadini.
Se già questa mattina, nell’ambito delle manifestazioni ufficiali indette dal Comune alla Gran Guardia, alcune delle persone che subirono il dramma della deportazione saranno ricordate con il conferimento delle onoreficenze del Governo o della medaglia della città (alla memoria, a Narciso Veronesi, Gracco Spaziani e Alberico Poli), domani alle 18 sempre alla Gran Guardia, è in programma un incontro organizzato dall’associazione Figli della Shoah sul tema «Il ricordo della Shoah dopo l’ultimo testimone», che consentirà di ascoltare testimoni veronesi sul rischio dell’oblio della Shoah. L’incontro sarà condotto da Roberto Israel, consigliere della Comunità ebraica e responsabile per Verona dell’associazione Figli della Shoah, e da Paola Sofia Baghini.
«Quando non ci sarà più nessuno di noi, la memoria della Shoah sarà affidata, come tutti gli eventi della storia, ai documenti che la raccontano. Mi preoccupa però riuscire a far capire, almeno finchè noi abbiamo voce, cosa accadde nel cuore dell’Europa nel secolo scorso», spiega la professoressa Lucia Roditi Forneron, ragazza negli anni delle persecuzioni, sfuggita alla deportazione. «Vado spesso nelle scuole e mi rendo conto che i ragazzi di oggi sanno molto poco della Shoah. Cerco di farne comprendere l’essenza che la rende così terribile: noi ebrei eravamo cercati, perseguitati, uccisi non in quanto avversari, politici o di altra natura, ma proprio in quanto ebrei, per la nostra razza. Dovevamo essere annientati perchè ebrei: una condizione cui non si poteva sfuggire. Una persecuzione che accadeva nel cuore della civilissima Europa, al centro del mondo. È l’enormità di questo fatto che rende più difficile il racconto».
Lo aveva detto Primo Levi, nelle pagine di «Se questo è un uomo»: «Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata… Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli. Se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero».
È vero, capire l’orrore è difficile. Ma se è vero che è alle giovani generazioni che è affidato il compito della memoria, forse uno studente, ascoltando la storia di un altro ebreo della nostra città, Umberto Basevi, espulso dell’Istituto per ragionieri Lorgna solo perchè ebreo e precettato a fare lo spazzino (poi rifugiato a Valdiporro e salvato dalle deportazioni grazie all’aiuto del prete e di alcuni abitanti), potrà almeno intuire, nel confronto con quello studente privato del diritto all’istruzione, il valore della libertà, il debito nei confronti di chi ha lottato per garantirla a tutti noi.

LA STORIA. Anche Paolo Jenna domani alle 18 alla Gran Guardia

«Salvato da mio padre
Finsi di non conoscerlo»

«Avevo 11 anni, ci fermarono a Bosco. Lui disse che ero un ragazzo del posto. Non lo vidi mai più»

martedì 27 gennaio 2015 CRONACA, pagina 19

Ha raccontato già altre volte la sua storia, e lo farà, probabilmente, anche domani, durante l’incontro alla Gran Guardia. Paolo Jenna, undicenne nel 1944, venne fermato a Boscochiesanuova assieme al padre ebreo, l’avvocato Ruggero Jenna, ad un posto di blocco delle Brigate Nere e della Guardia Repubblicana. Lì dovette dirgli addio per non rivederlo mai più, fingendo d’essere un ragazzo estraneo, cui il padre aveva chiesto d’accompagnarlo perché non conosceva la strada. Lui così si salvò. Suo padre venne ucciso ad Auschwitz.
Oggi questo «salvato» vissuto con il sentimento della colpa per il padre «sommerso» preferisce raccontare con poche, asciutte parole la sua vicenda. Crediamo però che, se la memoria ha un senso, questa vicenda possa stare tra quelle memorie che non devono andare perdute. Così ci piace ricordare le parole che lo stesso Paolo Jenna, in qualità di vicepresidente nazionale dell’associazione Figli della Shoah (oggi ne è consigliere), aveva detto alcuni anni fa, quando, sempre in occasione del Giorno della Memoria, il nostro giornale aveva indetto un incontro per presentare la pubblicazione del «Diario» di Anna Frank nell’edizione integrale del 1998.
«Quella che io rappresento», aveva detto Jenna, «è un’organizzazione mondiale che raccoglie i supestiti e i discendenti dei deportati. In realtà anche tra di noi spesso ci interroghiamo sul senso di istituzionalizzare la Shoah, consapevoli che della memoria si dovrebbe dire ciò che è stato detto della cultura, e cioé che la memoria è ciò che resta quando si è dimenticato tutto: invece talvolta abbiamo l’impressione che della nostra storia, al di là della ritualità, nella memoria di oggi resti poco».
«Che fare allora, tacere? Per me il silenzio è durato trent’anni: da quando ventenne tornai in Italia, a Verona, dopo essere emigrato in America, fino a quando, diventato padre, ritrovai l’esigenza di dire oltre quella rimozione che mi aveva consentito però di vivere. Il silenzio è stato infatti in parte esigenza, per non sentirmi escluso, e in parte anche bisogno di rimuovere la colpa più atroce, quella di essere sopravvissuto». A.G.

«Sono viva solo perché disobbedii»

Ilaria Noro

«L’ordine era di andare nel rifugio dello stabilimento quando suonava l’allarme ma io scappai per i campi»

martedì 27 gennaio 2015 CRONACA, pagina 19

All’epoca dei fatti, non aveva nemmeno 18 anni. Eppure, i terribili momenti del bombardamento di Santa Lucia il 28 gennaio del ’44, Jole Beruffi, 88 anni ben portati e una memoria di ferro, li rivive in ogni istante semplicemente chiudendo gli occhi.
Era impiegata da pochi mesi allo stabilimento Ico, vicino allo scalo ferroviario. «Quando suonava l’allarme aereo, il direttore voleva tutti i dipendenti nel rifugio: anche lui riparava lì», spiega Jole. Quel giorno di 71 anni fa, però, non c’era. «E, con altre due impiegate, istintivamente ci siamo messe a correre per i campi, allontanandoci da via Mantovana e dalla ferrovia, disobbedendo alle direttive».
Una decisione istantanea che salvò loro la vita. Mancava poco a mezzogiorno, la neve ricopriva i campi. Nel panico e sprofondando ad ogni passo nel terreno innevato, le tre donne scappano mentre il rombo delle Fortezze volanti – 120 Boeing B17 americani carichi di esplosivi – lanciate al deposito ferroviario di Santa Lucia, è sempre più forte. «Disperate, raggiungiamo una vecchia casa disabitata. Ci fiondiamo dentro che già la contraerea stava esplodendo i primi colpi», ricorda Jole. Terrore, disperazione, paura, sollievo all’ennesimo scoppio vicino ma non devastante, e poi ancora angoscia nell’attesa di nuove deflagrazioni.
«Appiattite ciascuna ad un angolo della cantina pregavamo tra le lacrime, immobili, mentre i muri ci scricchiolavano addosso». Poi l’incubo finisce e la sirena urla il cessato pericolo. Le tre giovani non sanno che tutti gli altri colleghi di lavoro quella sirena non la sentiranno mai. Una delle bombe sganciate dagli alleati ha centrato in pieno il rifugio della Ico. E i quaranta lavoratori circa che lì avevano cercato riparo sono morti sul colpo.
Le tre impiegate, distanti qualche centinaio di metri dalla fabbrica distrutta, prendono la via di casa cercando di rimanere il più lontano possibile dalla ferrovia. Jole, che al tempo abitava con i genitori e la sorellina Bice a Veronetta, attraversa i campi, traghetta l’Adige con una zattera e approda al Pestrino. Qui la sorprende un altro allarme aereo: nuovo terrore e ancora sollievo.
Quando riesce a tornare a casa è sera. La accolgono la mamma e la sorella. Il papà non c’è. Appena cessato il bombardamento, Albino Beruffi aveva inforcato la bicicletta per andare a cercare la figlia dove si era scatenato l’inferno. Arrivato allo stabilimento trova solo distruzione, macerie e disperazione. «Se sua figlia era lì dentro non c’è più nulla da fare: quel rifugio è diventato una macelleria, gli dissero i vigili del fuoco», riporta Jole senza più riuscire a trattenere le lacrime. E i tanti parenti delle persone che, davvero, lì hanno perso la vita. «Mio papà ha poi vagato per la città ferita. Non riusciva a trovare il coraggio per tornare da mia mamma che sua figlia era morta lacerata dalle bombe insieme a quasi tutti i lavoratori della Ico». Ma quando Albino torna a casa, Camilla ha già riabbracciato la figlia.
Dopo quel giorno, i genitori decidono di sfollare le figlie a Castellaro Lagusello, nel mantovano. Con la fine della guerra, una nuova serenità per Jole: l’amore, il matrimonio con Giorgio Gioco al suo fianco da 65 anni, i figli, una vita trascorsa tra il calore e i profumi della cucina del 12 Apostoli, dove è stata cuoca per oltre quarant’anni. «Ma ancora mi domando come ho fatto ad uscirne viva, quel giorno terribile. È stato un inferno: ero l’impiegata più giovane e penso di essere l’ultima della Ico a poterlo raccontare».

Da Alessandria d’Egitto
a Verona sfuggiti
a nuove persecuzioni

martedì 27 gennaio 2015 CRONACA, pagina 19

La storia di Roberto Israel, vicepresidente della comunità ebraica di Verona, racconta di una famiglia ebraica che ha vissuto il dramma delle deportazioni lontana dall’Italia.
«I miei genitori sono di Alessandria d’Egitto, erano italiani di buona posizione sociale che lavoravano in Africa. Mio padre, Clemente Israel, lavorava al porto di Alessandria per gli inglesi. Quando scoppiò la guerra, in quanto italiano, venne ritenuto dagli inglesi un nemico: la maggior parte degli italiani in realtà erano ebrei che avevano contribuito allo sviluppo economico del Paese. Gli ebrei che vollero rivendicare la loro nazionalità italiana vennero messi nei campi di reclusione, mio padre si dichiarò apolide e potè continuare a lavorare».
Il dramma avvenne quando, nel ’52, la monarchia di re Faruq fu abbattuta dal colpo di Stato. Quando nel ’56 Nasser prese il potere tutti gli ebrei europei che vivevano in Egitto vennero perseguitati e cacciati. Mio padre era l’ultimo di otto fratelli, cinque dei quali negli anni precedenti avevano deciso di trasferirsi nello stato di Israele: le notizie che davano però non erano incoraggianti, si trattava di un Paese in cui c’era grande povertà e duro lavoro. Mio padre e mia madre, Clementina Yokanan, perciò erano rimasti in Egitto ma la situazione divenne insostenibile. Furono costretti a scappare: mia madre, incinta di otto mesi, venne minacciata con un coltello da un musulmano, alla fine riuscirono a partire».
«Forse questa storia, affiancata a quella delle persecuzioni naziste, ci dà la misura di cosa intendiamo quando si parla degli ebrei come del popolo errante», riflette Israel. «È un pensiero che mi torna quando oggi sento che nel cuore dell’Europa, a Parigi, ancora nel 2015, gli ebrei non sono liberi di girare con la Kippah in testa, perchè sono minacciati ed è meglio che non si rivelino in quanto ebrei. Noi ebrei in realtà abbiamo le radici nel paese in cui viviamo». Troppe volte però costretti ad andarsene. A.G.

IL PROGRAMMA. Il Giorno della Memoria si apre questa mattina alle 9 in Bra con la deposizione di una corona d’alloro al monumento ai Deportati. In Bra resta ancora il Carro della Memoria, un vagone utilizzato per le deportazioni. Alle 9.30, in Gran Guardia, il prefetto Perla Stancari e il sindaco Tosi consegneranno le onorificenze del governo e le medaglie della città. Seguirà l’intervento dell’oratore ufficiale, Anna Foa, docente di storia alla Sapienza.
Alle 14.30, commemorazione delle vittime nel cimitero ebraico di via Badile e, alle 15.45, al cimitero monumentale.
Ancora in Gran Guardia, alle 17.30 sarà proiettato il film «Kapò» (Gillo Pontecorvo, 1960) presentato da Giancarlo Beltrame.
Alle 20.45, l’istituto Pasoli ospiterà il concerto «Non basta Ricordare», a cura dei Musici di Santa Cecilia e dell’Associazione nazionale ex deportati.
Alle 20,30 la Società Letteraria e il Rotary Verona con la Comunità ebraica e l’Associazione Italia Israele organizzano il concerto «In commemorazione del Giorno della Memoria».
Una serata all’insegna della musica Klezmer si terrà all’Università. Alle 21, nell’aula T2 del Polo Zanotto, il Kinder Klezmer Quartet intratterrà infatti il pubblico con canzoni e musiche della tradizione ebraica.

 

GIORNO DELLA MEMORIA. Un’ebrea in clandestinità dal 1942 al 1945

IO, BIMBA DELLA SHOAH

Lorenza Costantino

Donatella Levi si salvò fuggendo e cambiando identità Psicanalista, dirige l’Associazione bambino maltrattato

martedì 27 gennaio 2015 CULTURA, pagina 48

Dietro la villa, al confine del giardino, il grande cedro vive ancora. È un albero di centovent’anni, passato indenne a innumerevoli traversie. Donatella Levi osserva la grande pianta: da bambina giocava sotto la sua ombra, e Popi, il cuginetto di un anno più grande, faceva prove di tiro contro il tronco con la cerbottana. C’è un favore da restituire, oggi, al cedro: difenderlo da chi lo vorrebbe tagliare (questione di rami che invadono la proprietà altrui), come l’albero protesse i giochi di quei bambini che, oltre settant’anni fa, rischiarono la vita solo perché ebrei. Donatella Levi, nata a Verona nel 1939, poco dopo la promulgazione delle leggi razziali fasciste, ormai da molti anni è tornata nella sua vecchia casa, Villa Bassani, nella Borgo Trento allora «città giardino». Allora, anno 1942 «ventesimo dell’Era Fascista», quando, se lo ricorda ancora perfettamente, dovette abbandonare in fretta e furia il mondo a lei conosciuto — la casa, il giardino, il grande cedro — per iniziare una cosa di cui parlavano i grandi e che lei non riusciva a capire: «la fuga». In un attimo il mondo ordinato e bello di cui quel cedro era il simbolo si trasformò in una realtà minacciosa. La bambina è sopravvissuta — grazie a quella cosa incomprensibile, «la fuga» — ma per restare comunque e sempre segnata dall’esperienza. Una bambina della Shoah, anche se le è stato risparmiato il peggio, ma a costo di traumi e senso di alienazione che ha continuato a indagare nella sua attivitò di psicoanalista. Il titolo della sua autobiografia lo spiega. «Vuole sapere il nome vero o il nome falso?» Era così che rispondeva a scuola, finita la guerra, quando dovette rieducarsi alla vita normale. vedersi gente attorno era un trauma.
«Avevamo cominciato con lo spostarci da una casa all’altra di notte. Non sapevo se quello fosse l’inizio di un viaggio. I miei parenti chiamavano questo viaggiare: fuga». Così racconta Donatella Levi nel suo libro autobiografico Vuole sapere il nome vero o il nome falso? (Cierre). «Lasciammo la casa, tutte le nostre cose, i miei vestiti, quelli della mamma e del papà, i miei giocattoli e anche il mio piatto preferito, quello con i disegni degli animali sul bordo. Fu allora che vidi per la prima volta piangere, a turno, tutti i grandi. Ma a me dicevano che non dovevo farlo, perché “se una bambina piccola piange, fa soffrire molto i grandi”, e si sarebbero complicate le cose».
Non servì che la famiglia contasse molti esponenti autorevoli: già il nonno materno di Donatella, Virginio Bassani, era un avvocato importante, fondatore di una delle prime riviste di diritto del lavoro in Italia. Per la progettazione della sua villa in Borgo Trento, aveva voluto l’illustre architetto Ettore Fagiuoli, il famoso scenografo della prima Aida all’Arena di Verona, il quale disegnò il palazzo già completo di giardino alberato: due palme davanti, un glicine rampicante (tuttora esistente) e alberi da frutto sul retro. E il cedro? C’era già, in posizione defilata in realtà, ma fu lasciato perché sano e bello. Era avvocato anche il padre di Donatella, Enzo, classe 1903, originario di Mantova, che venne a stare a Verona dopo il matrimonio con Renata Bassani, nove anni più giovane, lavorando nello studio del suocero. Ma dopo le leggi razziali gli ebrei non potevano più esercitare professioni.
Nel 1942 il clima si era fatto irrespirabile, peggiorato dai bombardamenti cui Verona era pesantemente sottoposta, e dalla presenza sempre più minacciosa di truppe tedesche nel Nord Italia. La famiglia decise quindi di riparare dapprima in Toscana, dove abitavano altri Levi, parenti di Enzo. «I partigiani, però, ci avvertirono che davamo nell’occhio: eravamo in troppi. Così ci separammo. Io con mia madre, i nonni e una zia cercammo rifugio a Roma, e mio padre si nascose in un convento», racconta oggi Donatella Levi.
Vivido è il ricordo del distacco dal padre: «Il fatto che il mio papà, da quel giorno, non lo fosse più, mi era incomprensibile. “Capisci bene,” disse mia madre, additandolo, “lui è una persona sconosciuta che tu non hai mai visto, guai se lo chiami papà! Ci metteresti in grosso pericolo!” Guardai mio padre con uno sguardo che per me era un addio. Chiesi, molto intimorita, se almeno la mia mamma sarebbe rimasta la mia mamma. “Sì”, rispose, “ma da oggi non mi chiamo più Renata ma Claudia, devi ricordartelo bene! Tu da oggi non ti chiami più Donatella, non vieni più da Verona, e per nessun motivo devi dire di chiamarti Levi, mai a nessuno; dimentica quei nomi, per sempre. Adesso ti chiami Maria Bianchi”. Così, col mondo stravolto, rimasi ammutolita».
Lo stratagemma però servì per la salvezza; altri componenti della famiglia non ebbero uguale fortuna: «Gli zii, con le mie cugine, tentarono di raggiungere la Svizzera. Non ci riuscirono. Un conoscente, al quale ingenuamente avevano confidato le loro intenzioni, fece la spia. Morirono ad Auschwitz».
«Per me era diventato normale vivere in modo clandestino», continua la bimba scamopata alla Shoah. «Non mi aveva segnato tanto il fatto di dovermi lavare al freddo, o mangiare piselli secchi per giorni e giorni di fila. Fu, piuttosto, il silenzio prolungato. E il primo attacco di panico lo ebbi al mio ingresso alla scuola elementare. Troppi bambini intorno: dove nascondersi?»
Solo alla fine delle ostilità Donatella Levi tornò a Verona con la famiglia: nella villa, saccheggiata, non c’era più nulla. Ma il vecchio cedro era lì, come un custode dei giorni perduti. E c’è tuttora, mentre si celebra la memoria della Shoah in un’Europa dove i movimenti neonazisti e neofascisti si rinfocolano ovunque e dove un po’ tutti, giovani compresi, conclude Donatella Levi, «coltivano ancora tanti, troppi pregiudizi».

ALL’UNIVERSITÀ (aula magna del Polo Zanotto) oggi alle17,30, al Polo Zanotto dell’Università

martedì 27 gennaio 2015 CULTURA, pagina 48

L’autrice bimba in copertina

ALL’UNIVERSITÀ (aula magna del Polo Zanotto) oggi alle17,30, al Polo Zanotto dell’Università, Donatella Levi interverrà alla conferenza «Un pezzetto di cioccolata. L’infanzia ebraica ai tempi della Shoah tra storia, memoria e resilienza». L’incontro si ispira al suo libro autobiografico, Vuole sapere il nome vero o il nome falso?, uscito la prima volta nel 1995 per Il Lichene e ristampato nel 2010 da Cierre (180 pagine, 10 euro). A dialogare con lei, Paolo Tagini, dottore di ricerca, vincitore del premio Ettore Gallo per la sua tesi di dottorato I bambini ebrei nascosti in Italia durante la persecuzione nazifascista 1943-1945. Donatella Levi, psicoanalista, ha lavorato per molti anni come arteterapeuta infantile. Ha fondato e presiede l’Associazione bambino maltrattato. L.CO.