20140705-Prima-opera-Turandot-Arena-Verona-riscio Opera lirica

Turandot


Arena di Verona

5-9-12-16-26-30 luglio, 2 agosto 2014 – ore 21:00 Sabato 5 luglio alle ore 21.00 torna in scena Turandot di Giacomo Puccini per l’apprezzata regia e le sfarzose scene di Franco Zeffirelli, con i costumi del premio Oscar Emi Wada, i movimenti coreografici di Maria Grazia Garofoli e le luci di Paolo Mazzon. Dirige le 7 recite la bacchetta di Daniel Oren.

Il direttore d'orchestra Daniel Oren fuori dall'Arena di Verona prima della prima di Turandot

Il direttore d’orchestra Daniel Oren fuori dall’Arena di Verona prima della prima di Turandot

Dramma lirico in 3 atti di Giacomo Puccini
Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni

Video gallery Turandot 2 agosto 2014

Direttore d’orchestra Daniel Oren
Regia e scene Franco Zeffirelli
Lighting designer Paolo Mazzon
Costumi Emi Wada
Maestro del coro Armando Tasso
Direttore corpo di ballo Renato Zanella
Direttore allestimenti scenici Giuseppe De Filippi Venezia
Movimenti coreografici Maria Grazia Garofoli
Direttore voci bianche Marco Tonini Coro voci bianche A. d’A.Mus.

Galleria fotografica Turandot 2 agosto 2014


INTERPRETI
Turandot Iréne Theorin
Altoum Antonello Ceron
Timur Marco Vinco
Calaf Walter Fraccaro
Liù Maria Agresta
Ping Mattia Olivieri
Pong Francesco Pittari
Pang Saverio Fiore
Un mandarino Gianfranco Montresor
ORCHESTRA, CORO, CORPO DI BALLO E TECNICI DELL’ARENA DI VERONA 20140705-Prima-opera-Turandot-Arena-Verona

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È una delle opere più viste nella centenaria storia areniana: dieci allestimenti, 17 stagioni e 128 recite. Atteso Zeffirelli

sabato 05 luglio 2014 SPETTACOLI, pagina 58

Dovrebbe esserci anche Franco Zeffirelli, questa sera, alla «prima» stagionale di Turandot in Arena, quarta opera del Festival lirico (inizio alle 21). La regia del dramma lirico in tre atti e cinque quadri di Giacomo Puccini porta proprio la firma del maestro, presente in questa stagione con le altre due produzioni di Carmen e Madama Butterfly. Su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni, Turandot vede sul podio delle sette serate complessive il maestro Daniel Oren. Completano la messa in scena i movimenti coreografici di Maria Grazia Garofoli e il lighting design di Paolo Mazzon. Proposta per la prima volta in Arena nel 1928 nella messa in scena progettata da Ettore Fagiuoli, l’opera di Puccini è il quarto titolo più rappresentato nell’anfiteatro per numero di recite, con 128 rappresentazioni in 17 stagioni e per dieci allestimenti (questo di Zeffirelli è del 2010). Il grandioso allestimento, quasi cinematografico, con le sue scene imponenti, le grandi azioni di massa, le sfilate di cortei e i curati dettagli scenici (senza contare i ricchi costumi disegnati dal premio Oscar giapponese Emi Wada) riporta nella Cina imperiale. Tutto concorre a sottolineare l’atmosfera del dramma degli enigmi per eccellenza, dov’è in gioco la vita stessa e la risposta sta nell’amore che scioglierà il cuore della gelida protagonista. La principessa Turandot, che non si lascia sedurre da nessun uomo, gioca con la vita dei suoi pretendenti, certa che nessuno riuscirà a vincere la sua sfida. Solo Calaf saprà conquistare veramente il suo cuore e superare così la distanza che tiene la principessa lontana da qualsiasi emozione. Sottolinea i sentimenti in gioco tra i protagonisti la partitura di Giacomo Puccini, composta nel 1920, rimasta incompiuta per la scomparsa del compositore e successivamente completata da Franco Alfano. Il celebre acuto di Nessun dorma ne è la massima espressione: risuona come il rumore del ghiaccio che al sole si spezza e si scioglie nell’abbraccio dell’amore. Nel ruolo di Turandot Iréne Theorin (al debutto nell’anfiteatro scaligero) che poi si alternerà con Tiziana Caruso e Martina Serafin; nei panni del misterioso principe Calaf torna sulla scena Carlo Ventre (alternandosi con Marco Berti). Timur sarà interpretato da Marco Vinco (e Giorgio Giuseppini e Rafal Siwek), Liù da Maria Agresta (e Rachele Stanisci e Carmen Giannattasio). I tre ministri saranno Mattia Olivieri, alla sua prima areniana, e Vincenzo Taormina come Ping, Francesco Pittari e Paolo Antognetti in Pong e Saverio Fiore in Pang. Completano il cast Antonello Ceron nel ruolo dell’Imperatore Altoum e Gianfranco Montresor nel Mandarino. Partecipa il Coro di Voci bianche Adamus diretto da Marco Tonini. Le repliche si terranno il 9, 12, 16, 26 e 30 luglio alle 21 e il 2 agosto alle 20.45. G.V.

FESTIVAL LIRICO. Il debutto di «Turandot», quarta opera della stagione

Autenticamente e disperatamente pucciniana: Liù

Cesare Galla

Eccellente Agresta nei panni della schiava. Ventre dà forfait, sostituito da Fraccaro. Buona la direzione di Oren. Arena lontana dal tutto esaurito

Che l’amore possa avere un lieto fine, sia pure dopo molte, complicate e talvolta dolorose traversie, Giacomo Puccini probabilmente non riusciva ad accettarlo. Non solo per le sue personali convinzioni di «grande cacciatore di donne e melodie» (così si definiva lui), ma perché da infallibile conoscitore dei gusti del pubblico, sapeva che non era questo che si cercava in un melodramma. Specialmente nel dorato e lungo tramonto attraversato da questo glorioso genere nel primo Novecento. ECCO PERCHÉ Turandot è un’opera irrisolta: perché va a finire bene, per quanto riguarda i due personaggi centrali. E se le opere, come i libri, hanno ciascuna il loro fato, il melodramma sulla favola cinese di Carlo Gozzi messa in pregiati versi da Giuseppe Adami e Renato Simoni aveva il destino di restare incompiuto perché il suo autore, come si dice oggi, «non ci credeva». Fino a che tutto non è stato drammaticamente risolto dalla morte e la parola è passata agli addetti al completamento postumo. Del resto, un finale tipicamente pucciniano Turandot lo possiede. E vedi caso coincide con l’ultima parte completata dall’autore. È la morte della schiava Liù per sacrificio d’amore non compreso, anzi ignorato dal suo destinatario, un principe in cerca di gloria passionale solo ad alto livello, meglio se imperiale. «Finale» ad altissima temperatura emotiva e drammaturgica: una pagina che da sola basterebbe a consegnare il suo autore al pantheon dei grandissimi, e che disegna un personaggio formidabile, questo sì autenticamente, febbrilmente, disperatamente pucciniano. Tanto che molti lo ritengono il vero protagonista dell’opera. E quando negli spettacoli si chiude la rappresentazione a quel punto (ogni tanto accade) si ha la rivelazione di una tragedia musicale all’altezza della Butterfly. INTORNO AL «FILO ROSSO» musicale saldamente impugnato dalla «piccola Liù» (già il suo apparire nel primo atto è memorabile), Turandot si configura poi fra istanze di plateale spettacolarità e linee di ambigua modernità, con colori e temi «esotici» lavorati magistralmente fuori dalla routine. E i caposaldi di questa complessità magistralmente confezionata sono anche quelli dello spettacolo di Franco Zeffirelli, proposto per la terza volta dopo il debutto nel 2010. Ci sono le scene di massa, brulicanti e oscure quando lo sfondo è la città di Pechino, grandiose e sfarzose quando si passa (con il cambio scena a vista che sempre strappa un lungo applauso) all’interno della Città Proibita e prende quota il «thriller» della scena degli enigmi; e ci sono le scene quasi «intime», notturne (primo atto) o drammatiche (terzo: la morte di Liù), in cui la tensione emerge nella «zoomata» quasi cinematografica del racconto scenico. Completano il tutto, senza folclore di maniera, i costumi di Emi Wada, fra i poli cromatici del grigio «popolare» e dell’oro «imperiale», con un tocco di astratta eleganza per Turandot. La serata del debutto – al cospetto di un pubblico assai lontano dal tutto esaurito – è stata caratterizzata dai cambi più o meno dell’ultimo momento nei ruoli principali della compagnia. Ha così esordito in Arena il soprano svedese Iréne Theorin, chiamata nei giorni scorsi a subentrare ad Evelyn Herlitzius ed è stato dello spettacolo anche il tenore Walter Fraccaro, che ha accettato di sostituire poche ore prima dell’andata in scena il suo collega Carlo Ventre, che ha dato forfait. THEORIN HA VOCE ampia e potente, tagliente quanto serve per il personaggio della sanguinaria principessa, con sfumature timbriche di colore scuro. Talvolta la necessità di spingere l’emissione in chiave drammatica compromette la fluidità della linea di canto, ma nell’insieme la sua prova è parsa interessante, oltre che scenicamente efficace. Fraccaro è cantante esperto del ruolo, che tende però a risolvere in chiave stilistica di stampo veristico, forzando sull’acuto con tenuta non sempre impeccabile e mettendo in evidenza una certa fragilità nelle note centrali della tessitura. Eccellente Liù è stata Maria Agresta, capace di fraseggiare con eleganza quando il lirismo sentimentale è preponderante, ma capace anche di una compiuta e sofferta tensione drammatica nella sua gran scena finale. Per lei gli applausi più convinti a scena aperta e alla fine. Molto positivo anche il basso Marco Vinco, un Timur sofferto e intenso di bel colore brunito, e puntuali e precisi i tre dignitari cinesi, Mattia Olivieri, Francesco Pittari e Saverio Fiore, bravi a giocare espressivamente sul confine fra il grottesco e il drammatico. A posto anche, fra i comprimari, Antonello Ceron (l’imperatore) e Gianfranco Montresor (il Mandarino). Coro impegnatissimo, passabilmente coeso nella vastità scenica areniana, adeguato nella tinta e flessibile nel fraseggio. DAL PODIO, l’espertissimo Daniel Oren ha dato evidenza a molte sfumature della partitura pucciniana (pochi conoscono come lui i segreti del suono nell’anfiteatro), con lettura nitida e precisa, non priva di eleganze coloristiche. Buon successo per tutti. Sei le repliche in calendario: 9, 12, 16, 26, 30 luglio e 2 agosto.

Iréne Theorin al debutto è una Turandot efficace

lunedì 07 luglio 2014 SPETTACOLI, pagina 51
Nel ruolo di Turandot si è assistito nel tempo a un progressivo allontanamento dalla corda di lirico-spinto, caratteristica comune alle prime interpreti, in favore di più robusti assetti vocali e stili interpretativi. La prima fu Rosa Raisa nel 1926, con voce dolce e sonora. Pochi mesi dopo a Vienna debuttò Lehmann, straussiana per eccellenza, e ancora Maria Jeritza al Metropolitan di New York nel 1926 con la direzione di Tullio Serafin. Fu poi il turno di Germaine Lubin all’Opera di Parigi e Giannina Arangi-Lombardi in Australia in coppia con Francesco Merli, straordinario e quantomeno longevo Calaf. Voci che univano accento e ampiezza da soprano drammatico a fraseggio morbido e sfumato. È con la britannica Eva Turner a Brescia nel dicembre 1926 che la Principessa acquisisce carattere da vera voce di soprano drammatico. La Turner diceva: «It must be sung!» (puro belcanto!) a indicare quale caratteristica essenziale di Turandot la necessità di cantare a voce piena e nel contempo mantenere controllata la linea di canto. Si ricorda inoltre Gina Cigna e la sua voce torrenziale. Toccò poi a Birgit Nilsson nel 1958 alla Scala: semplicemente titanica. Con lei la Principessa abbandonerà lo stilema verista per entrare in quello della più autentica declamazione wagneriana dove voce e spartito si integrano magistralmente. In questo ambito si inserisce Iréne Theorin già veterana dei principali ruoli wagneriani: Turandot efficace con voce robusta e tagliente nella «scena della reggia», seppur non sempre in controllo della propria vocalità, è meno convincente nel lirismo della scena finale del terzo atto. Walter Fraccaro nel ruolo di Calaf ha ripiegato in un forte inespressivo per l’intera recita: il personaggio esce piatto e senza squillo, è l’arte dei tenori spinti di oggi. Maria Agresta, la più convincente dei protagonisti vocali, è stata una Liù dal timbro brunito e generoso che ha piena consapevolezza dello strumento vocale, splendide le mezze voci.

Turandot

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Turandot
Poster Turandot.jpg
Locandina di Turandot del 1926
Lingua originale italiano
Musica Giacomo Puccini (finale completato da Franco Alfano)
Libretto Giuseppe Adami e Renato Simoni
Fonti letterarie Turandot di Carlo Gozzi
Atti tre
Epoca di composizione luglio 1920 – ottobre 1924
Prima rappr. 25 aprile 1926
Teatro Teatro alla Scala di Milano
Versioni successive
Un nuovo finale dell’opera è stato composto daLuciano Berio (2001)
Personaggi
  • Turandot, principessa (soprano)
  • Altoum, suo padre, imperatore della Cina (tenore)
  • Timur, re tartaro spodestato (basso)
  • Calaf, il Principe Ignoto, suo figlio (tenore)
  • Liú, giovane schiava, guida di Timur (soprano)
  • Ping, Gran Cancelliere (baritono)
  • Pang, Gran Provveditore (tenore)
  • Pong, Gran Cuciniere (tenore)
  • Un Mandarino (baritono)
  • Il Principe di Persia (tenore)
  • Il Boia (Pu-Tin-Pao) (comparsa)
  • Guardie imperiali – Servi del boia – Ragazzi – Sacerdoti – Mandarini – Dignitari – Gli otto sapienti – Ancelle di Turandot – Soldati – Portabandiera – Ombre dei morti – Folla
Autografo Archivio Storico RicordiMilano
« Chi quel gong percuoterà
apparire la vedrà
bianca al pari della giada
fredda come quella spada
è la bella Turandot! »
(Coro, atto I)

Turandot è un’opera in 3 atti e 5 quadri, su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni, lasciata incompiuta da Giacomo Puccini (morto il 29 novembre 1924) e successivamente completata da Franco Alfano.

La prima rappresentazione ebbe luogo nell’ambito della stagione lirica del Teatro alla Scaladi Milano il 25 aprile 1926, con Rosa RaisaFrancesco DominiciMiguel FletaMaria ZamboniGiacomo Rimini e Giuseppe Nessi sotto la direzione di Arturo Toscanini, il quale arrestò la rappresentazione a metà del terzo atto, due battute dopo il verso «Dormi, oblia, Liù, poesia!» (alla morte di Liù), ovvero dopo l’ultima pagina completata dall’autore, rivolgendosi al pubblico con queste parole: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto.» La sera seguente, l’opera fu rappresentata, sempre sotto la direzione di Toscanini, includendo anche il finale di Alfano.

L’incompiutezza dell’opera è oggetto di discussione tra gli studiosi. C’è chi sostiene cheTurandot rimase incompiuta non a causa dell’inesorabile progredire del male che affliggeva l’autore, bensì per l’incapacità, o piuttosto l’intima impossibilità da parte del Maestro di interpretare quel trionfo d’amore conclusivo, che pure l’aveva inizialmente acceso d’entusiasmo e spinto verso questo soggetto. Il nodo cruciale del dramma, che Puccini cercò invano di risolvere, è costituito dalla trasformazione della principessa Turandot, algida e sanguinaria, in una donna innamorata.

Alla Scala è il secondo titolo maggiormente rappresentato con ventisei stagioni e 185 recite.

Al Teatro Costanzi di Roma la prima rappresentazione è stata dopo solo quattro giorni (29 aprile) dal debutto scaligero.

Il 25 giugno dello stesso anno va in scena la prima nel Nuevo Teatro Colón di Buenos Airesdiretta da Gino Marinuzzi (1882-1945) con Claudia MuzioRosetta PampaniniGiacomo Lauri Volpi e Tancredi Pasero.

Al Teatro La Fenice di Venezia la prima è stata il 9 settembre 1926 messo in scena daGiovacchino Forzano con Salvatore Baccaloni.

Al Wiener Staatsoper la premiere è stata il 14 ottobre dello stesso anno con Lotte Lehmanndiretta da Franz Schalk e da allora è stata eseguita trecentoventicinque volte.

Negli Stati Uniti debutta al Metropolitan Opera House di New York il 16 novembre 1926 con Lauri-Volpi e Giuseppe De Luca diretti da Tullio Serafin e fino al 2013 è stata rappresentata duecentonovantasei volte.

Il 17 dicembre dello stesso anno avviene la prima nel Théâtre Royal de la La Monnaie/De Munt di Bruxelles nella traduzione francese di Paul Spaak.

Il 12 febbraio 1927 avviene la prima nel Teatro Regio di Parma.

Il 19 febbraio dello stesso anno avviene la prima nella Salle Garnier del Grand Théâtre de Monte Carlo.

Il 17 marzo 1927 avviene la prima nel Teatro Regio di Torino diretta da Marinuzzi.

Nel Regno Unito debutta al Royal Opera HouseCovent Garden di Londra il 7 giugno dello stesso anno e nell’ottobre 1929 il 4 al His Majesty’s Theatre di Aberdeen ed il 7 al Theatre Royal di Glasgow per il Covent Garden Opera nella traduzione inglese di Rosie Helen Elkin diretta da John Barbirolli.

Al San Francisco Opera va in scena il 19 settembre 1927 con Ezio Pinza diretto da Gaetano Merola.

Il 29 ottobre dello stesso anno avviene la prima nel Teatro Comunale di Bologna.

Il 2 aprile 1928 avviene la prima nell’Académie Nationale de Musique (Opéra Garnier) diParigi.

Al Festival lirico areniano debutta nel 1928 e con diciotto stagioni è la quarta opera maggiormente rappresentata.

Nel 1938 avviene la prima nelle Terme di Caracalla di Roma diretto da Vincenzo Bellezza con Magda Olivero.

Al Teatro Verdi (Trieste) va in scena nel 1939 con Franco Lo Giudice ed Italo Tajo diretti da Antonino Votto al Castello di San Giusto.

Nel 1958 avviene la prima nel Giardino di Boboli di Firenze diretta Gabriele Santini con Renato Capecchi.

All’Opera di Chicago va in scena nel 1958 con Anna MoffoGiuseppe Di Stefano e Birgit Nilsson diretti da Serafin.

Bilbao va in scena nel 1959 con Franco Corelli e Gabriella Tucci.

Nel 1964 avviene la prima nel Teatro Bol’šoj di Mosca diretta da Gianandrea Gavazzeni con la Tucci, Mirella FreniGianni RaimondiCarlo Bergonzi, Capecchi ed Ivo Vinco.

Nel 1970 avviene la prima nell’Erkelyi Színház di Budapest diretta da Nino Sanzogno.

Al Grand Théâtre di Ginevra va in scena nel 1972 diretta da Nello Santi.

Al Festival di Salisburgo va in scena nel 2002 con i Wiener Philharmoniker e Paata Burchuladze diretti da Valery Gergiev.

All’Opera di Santa Fe (Nuovo Messico) va in scena nel 2005.

Caratteri generali

Il soggetto dell’opera fu tratto dall’omonima fiaba teatrale di Carlo Gozzi, già oggetto di importanti adattamenti musicali: dalle musiche di scenacomposte da Carl Maria von Weber nel 1809, all’opera di Ferruccio Busoni, rappresentata nel 1917 e preceduta da suite orchestrale (op. 41) eseguita per la prima volta nel 1906.

Più esattamente, il libretto dell’opera di Puccini si basa, molto liberamente, sulla traduzione di Andrea Maffei dell’adattamento tedesco diFriedrich Schiller del lavoro di Gozzi. L’idea per l’opera venne al compositore in seguito a un incontro con i librettisti Giuseppe Adami e Renato Simoni, avvenuto a Milano nel marzo 1920. Nell’agosto dello stesso anno il compositore poté ascoltare, grazie al suo amico barone Fassini, uncarillon con temi musicali proveniente dalla Cina. Alcuni di questi temi sono presenti nella stesura definitiva della partitura.

Alla fine della sua parabola creativa Puccini si cimentò con un soggetto fiabesco, d’impronta fantastica. Non era mai accaduto, se si eccettua la scena finale della sua prima opera, Le Villi.

La genesi

Nel Natale del 1920 Puccini riceve la prima stesura in versi del libretto del primo atto. Nel gennaio del 1921 giunge a Puccini la versione definitiva del testo del primo atto, e nell’agosto dello stesso anno la partitura è completata. In settembre Puccini scrive: «Turandot dovrebbe essere in due atti, che ne dici? Non ti pare troppo, diluire dopo gli enigmi per giungere alla scena finale? Restringere avvenimenti, eliminarne altri, arrivare ad una scena finale dove l’amore esploda»[1]. Il vero ostacolo per il compositore fu, fin dall’inizio, la trasformazione del personaggio di Turandot, da principessa fredda e vendicativa a donna innamorata. Ancora l’autore scriveva: «Il duetto [tra Calaf e Turandot] per me dev’essere il clou – ma deve avere dentro a sé qualcosa di grande, di audace, di imprevisto e non lasciar le cose al punto del principio… Potrei scrivere un libro su questo argomento»[2]. E ancora: «Il duetto! Il duetto! tutto il decisivo, il bello, il vivamente teatrale è lì! […] Il travaso d’amore deve giungere come un bolide luminoso in mezzo al clangore del popolo che estatico lo assorbe attraverso i nervi tesi come corde di violoncelli frementi»[3].

Puccini si lamentò spesso della lentezza con cui i due librettisti rispondevano alle sue richieste di revisioni del libretto, ma si può dubitare che questo sia il vero motivo per cui l’opera è rimasta incompiuta. Nel giugno 1922 il compositore confermò a Casa Ricordi che «Simoni e Adami mi hanno consegnato con mia completa soddisfazione il libretto di Turandot finito»[4]; eppure i dubbi non erano scomparsi e sei mesi dopo confessava ad Adami: «Di Turandot niente di buono… Se io avessi avuto un soggettino come da tempo lo cercavo e lo cerco, a quest’ora sarei in scena. Ma quel mondo cinese! A Milano deciderò qualcosa, forse restituisco i soldi a Ricordi e mi libero».

I soldi non furono restituiti e nel dicembre del 1923 Puccini aveva completato tutta la partitura fino alla morte di Liù, cioè fino all’inizio del duetto cruciale. Di questo finale egli stese solo una versione in abbozzo discontinuo.

Trama

L’azione si svolge a Pechino, «al tempo delle favole».

Turandot, regia Roberto De SimoneElena Pankratova è Turandot. Gennaio 2012, Teatro Comunale di Bologna

Atto I

Un mandarino annuncia pubblicamente il solito editto: Turandot, figlia dell’Imperatore, sposerà quel pretendente di sangue reale che abbia svelato tre indovinelli da lei stessa proposti; colui però che non sappia risolverli, dovrà essere decapitato. Il principe diPersia, l’ultimo dei tanti pretendenti sfortunati, ha fallito la prova e sarà giustiziato al sorger della luna. All’annuncio, tra la folla desiderosa di assistere all’esecuzione, sono presenti il vecchio Timur che, nella confusione, cade a terra e la sua schiava fedele Liù chiede aiuto. Un giovane si affretta ad aiutare il vegliardo: è Calaf, che riconosce nell’anziano uomo suo padre, re tartaro spodestato. Si abbracciano commossi e il giovane Calaf prega il padre e la schiava Liù, molto devota, di non pronunciare il suo nome: ha paura, infatti, dei regnanti cinesi, i quali hanno usurpato il trono del padre. Nel frattempo il boia affila la lama preparandola per l’esecuzione, fissata per il momento in cui sorgerà la luna, la folla si agita ulteriormente.

Ai primi chiarori lunari, entra il corteo che accompagna la vittima. Alla vista del giovane principe, la folla, prima eccitata, si commuove per la giovane età della vittima, e ne invoca la grazia. Turandot allora entra e, glaciale, ordina il silenzio alla folla e con un gesto dà l’ordine al boia di giustiziare il Principe.

Calaf, che prima l’aveva maledetta per la sua crudeltà, è ora impressionato dalla regale bellezza di Turandot, e decide di tentare anche lui la risoluzione dei tre enigmi. Timur e Liù tentano di dissuaderlo, ma lui si lancia verso il gong dell’atrio del palazzo imperiale. Tre figure lo fermano: sono Ping, Pong e Pang, tre ministri del regno, che tentano di convincere Calaf a lasciar perdere, descrivendo l’insensatezza dell’azione che sta per compiere. Ma Calaf, quasi in una sorta di delirio, si libera di loro e suona tre volte il gong, invocando il nome di Turandot. Turandot appare quindi sulla loggia imperiale del palazzo e accetta la sfida.

Atto II

È notte. Ping, Pong e Pang si lamentano di come, in qualità di ministri del regno, siano costretti ad assistere alle esecuzioni delle troppe sfortunate vittime di Turandot, mentre preferirebbero vivere tranquillamente nei loro possedimenti in campagna.

Sul piazzale della reggia, tutto è pronto per il rito dei tre enigmi. L’imperatore Altoum invita il principe ignoto, Calaf, a desistere, ma quest’ultimo rifiuta. Il mandarino fa dunque iniziare la prova, ripetendo l’editto imperiale, mentre entra Turandot. La bella principessa spiega il motivo del suo comportamento: molti anni prima il suo regno era caduto nelle mani dei tartari e, in seguito a ciò, una sua antenata era finita nelle mani di uno straniero. In ricordo della sua morte, Turandot aveva giurato che non si sarebbe mai lasciata possedere da un uomo: per questo, aveva inventato questo rito degli enigmi, convinta che nessuno li avrebbe mai risolti.

Calaf riesce a risolvere uno dopo l’altro gli enigmi e la principessa, disperata e incredula, si getta ai piedi del padre, supplicandolo di non consegnarla allo straniero. Ma per l’imperatore la parola data è sacra. Turandot si rivolge allora al Principe e lo ammonisce che in questo modo egli avrà solo una donna riluttante e piena d’odio. Calaf la scioglie allora dal giuramento proponendole a sua volta una sfida: se la principessa, prima dell’alba, riuscirà a scoprire il suo nome, egli le regalerà la sua vita. Il nuovo patto è accettato, mentre risuona un’ultima volta, solenne, l’inno imperiale.

Atto III

È notte e in lontananza si sentono gli araldi che portano l’ordine della principessa: quella notte nessuno deve dormire in Pechino, il nome del principe ignoto deve essere scoperto a ogni costo, pena la morte. Calaf intanto è sveglio, convinto di vincere e sognando le labbra di Turandot, finalmente libera dall’odio e dall’indifferenza.

Giungono Ping, Pong e Pang, che offrono a Calaf qualsiasi cosa per il suo nome. Ma il principe rifiuta. Nel frattempo, Liù e Timur vengono portati davanti ai tre ministri. Appare anche Turandot, che ordina loro di parlare. Liù, per difendere Timur, afferma di essere la sola a conoscere il nome del principe ignoto, ma dice anche che non svelerà mai questo nome. Subisce molte torture, ma continua a tacere, riuscendo a stupire Turandot: le chiede cosa le dia tanta forza per sopportare le torture, e Liù risponde che è l’amore a darle questa forza.

Turandot è turbata da questa dichiarazione, ma torna ad essere la solita gelida principessa: ordina ai tre ministri di scoprire a tutti i costi il nome del principe ignoto. Liù, sapendo che non riuscirà a tenerlo nascosto ancora, strappa di sorpresa il fermacapelli (che è anche un pugnale) alla principessa e si trafigge a morte, cadendo esanime ai piedi di Calaf.

Il corpo senza vita di Liù viene portato via seguito dalla folla che prega. Turandot e Calaf restano soli e lui la bacia. La principessa dapprima lo respinge, ma poi ammette di aver avuto paura di lui la prima volta che l’aveva visto, e di essere ormai travolta dalla passione. Tuttavia ella è molto orgogliosa, e supplica il principe di non volerla umiliare. Calaf le fa il dono della vita e le rivela il nome: Calaf, figlio di Timur. Turandot, saputo il nome, potrà perderlo, se vuole.

Il giorno dopo, davanti al palazzo reale, davanti al trono imperiale è riunita una grande folla. Squillano le trombe. Turandot dichiara pubblicamente di conoscere il nome dello straniero: «il suo nome è Amore». Tra le grida di giubilo della folla la principessa si abbandona tra le braccia di Calaf.

Il finale “incompiuto”

Per la verità il lavoro alla Turandot da parte dello stesso autore non rimase effettivamente incompiuto. Certamente a questo episodio contribuì anche e non poco il fatto che Puccini stesso in quel periodo non godeva affatto di buone condizioni di salute, tanto che morirà prematuramente poco tempo dopo. Puccini dopo aver scritto l’ ultimo coro funebre (dedicato alla morte di Liù), in cui ha raggiunto “il massimo splendore” della sua musica non volle più continuare, in quanto riteneva che il lavoro era già perfettamente concluso, secondo una sua legittima personale considerazione. Il lavoro di stesura ad un vero e proprio finale alternativo iniziò praticamente poche settimane prima della morte, quando l’autore stava per essere ricoverato, ma non rimasero solamente che abbozzi più o meno compiuti. Gli abbozzi sono sparsi su 23 fogli che il Maestro portò con sé presso la clinica di Bruxelles in cui fu ricoverato nel tentativo di curare il male che lo affliggeva. Puccini non aveva per niente indicato in modo esplicito nessun altro compositore per il completamento dell’opera. L’editore Ricordi decise allora, su pressione diArturo Toscanini e di Antonio, il figlio di Giacomo, di affidare la composizione al napoletano Franco Alfano (allora Direttore del Conservatorio di Torino), che due anni prima si era distinto nella composizione di un’opera, La leggenda di Sakùntala, caratterizzata da una suggestiva ambientazione orientale.

La composizione del finale procedette lentamente a causa sia della malattia agli occhi di cui Alfano soffriva che della richiesta da parte dell’editore Ricordi, sollecitato da Toscanini, che non ritenne all’altezza una prima versione consegnata, di rifare il lavoro. Alfano in un primo momento compose integralmente una propria versione del finale, incorporando, ed unendo nel miglior modo possibile, i materiali rimasti negli abbozzi pucciniani. Questa in realtà è la vera e propria versione integrale del finale di Alfano, che oggi viene quasi erroneamente considerata come “prima versione” ed eseguita piuttosto raramente. Nella nuova versione (comunemente eseguita), Alfano fu costretto ad attenersi più fedelmente agli schizzi e tagliò centodieci battute degli appunti pucciniani e forse anche parte dei suoi. L’effetto di questi interventi, che l’autore eseguì con enorme controvoglia, è avvertibile nella condotta armonica e drammatica, piuttosto vuota e a tratti irregolare. Inoltre Alfano trascurò alcuni schizzi di Puccini e richiese la partitura d’orchestra del resto dell’opera solo pochi giorni prima di consegnare il lavoro.

A partire dalla scoperta della prima versione di Alfano, sono state studiate e proposte varie soluzioni alternative. Una studiosa statunitense, Janet Maguire, si è cimentata nello studio degli abbozzi per dodici anni (1976-1988) per comporre una nuova versione del finale. La sua versione non è stata tuttavia presa in considerazione e tantomeno esaminata. Si dovette attendere il 2001 per ascoltare un nuovo finale diTurandot, commissionato a Luciano Berio dal Festival de Musica de Gran Canaria, basato anch’esso sugli abbozzi lasciati da Puccini e ufficialmente riconosciuto dalla Ricordi.

Il punto più controverso del materiale lasciato da Puccini è costituito dall’episodio del bacio. È il momento clou dell’intera opera: la trasformazione di Turandot da principessa di gelo a donna innamorata. Se nell’abbozzo pucciniano le prime 56 battute del finale sono già ad uno stadio di elaborazione avanzato, questo episodio appare forse abbozzato in un solo foglio, secondo l’ipotesi di Harold Powers e William Ashbrook.[5]

Se Berio ha imbastito un esteso episodio sinfonico a partire da questa pagina, Alfano si limitò a comporre sedici nuove battute, ridotte nella versione definitiva a un solo accordo seguito da pochi colpi di timpano.

In un precedente schizzo di Puccini, al medesimo episodio è abbinato un diverso materiale tematico. Sul foglio 11 recto egli aveva infatti scritto le ultime due battute, seguite da una battuta con un accenno del tema per il bacio, per poi cancellarle e riscriverle sull’altro lato del foglio. Il tema in questione è lo stesso che poche battute prima Turandot canta sulle parole «No, mai nessun m’avrà! Dell’ava lo strazio non si rinnoverà!»: ciò sembrerebbe attestare come l’idea del compositore lucchese potesse essere radicalmente diversa da quella dei suoi più giovani colleghi. Un bacio su questo tema accentrerebbe infatti l’attenzione sul cedimento della principessa, piuttosto che sul suo orgoglio ferito, come nella versione di Alfano, o sulla trasformazione più interiorizzata della versione di Berio.

Organico orchestrale

L’orchestra prevede l’utilizzo di:

Legni:

  • 3 flauti (III anche ottavino)
  • 2 oboi
  • corno inglese
  • 2 clarinetti in Sib
  • clarinetto basso in Sib
  • 2 fagotti
  • controfagotto

Ottoni:

  • 4 corni
  • 3 trombe
  • 3 tromboni
  • trombone contrabbasso

Percussioni:

  • piatti
  • gong cinese
  • timpani
  • triangolo
  • rullante
  • grancassa
  • tam-tam

Archi

Altri strumenti:

  • glockenspiel
  • xilofono
  • xilofono basso
  • campane tubulari
  • celesta
  • 2 arpe
  • organo

Orchestra sul palcoscenico

  • sassofono contralto in Mib
  • 6 trombe in Sib
  • 3 tromboni
  • trombone basso
  • gong grave

Brani celebri

Atto I

  • Gira la cote!, (coro del popolo e dei servi del boia)
  • Invocazione alla luna (coro)
  • Là sui monti dell’est (coro di ragazzini che invocano Turandot; melodia tratta dalla canzone folk cinese Mo Li Hua).
  • Signore, ascolta!romanza di Liù
  • Non piangere, Liú!, romanza di Calaf
  • Concertato finale

Atto II

  • Olà Pang! Olà Pong!, terzetto delle maschere
  • In questa reggiaaria di Turandot
  • Straniero, ascolta!, scena degli enigmi

Atto III

Citazione dall’aria In questa reggia.

Bibliografia

  • William Ashbrook, Harold Powers, Turandot di Giacomo Puccini. La fine della grande tradizione, Ricordi, Milano 2006. ISBN 978-88-7592-823-0 (edizione originale in lingua inglese, Puccini’s Turandot. The End of the Great Tradition, Princeton, Princeton University Press, 1991.ISBN 0-691-09137-4).
  • Jürgen Maehder, Turandot (con Sylvano Bussotti), Pisa, Giardini, 1983.
  • Jürgen Maehder, Puccini’s Turandot – Tong hua, xi ju, ge ju, Taipei, Gao Tan Publishing, 1998, 287 pp. (in collaboratione con Kii-Ming Lo).
  • Jürgen Maehder, Puccini’s Turandot – A Fragment, in Turandot, a cura di : Nicholas John, London/New York, John Calder/Riverrun, 1984, pp. 35-53.
  • Jürgen Maehder, Studi sul carattere di frammento della »Turandot« di Giacomo Puccini, in: Quaderni Pucciniani 2/1985, Milano, Istituto di Studi Pucciniani, 1986, pp. 79-163.
  • Jürgen Maehder, La trasformazione interrotta della principessa. Studi sul contributo di Franco Alfano alla partitura di Turandot, in Esotismo e colore locale nell’opera di Puccini, a cura di Jürgen Maehder, Pisa, Giardini, 1985, pp. 143-170.
  • Jürgen Maehder, Turandot-StudienDeutsche Oper Berlin, Beiträge zum Musiktheater VI, Spielzeit 1986/87, pp. 157-187.

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Sinopsi

ATTO PRIMO

La folla è adunata davanti al loggiato del palazzo imperiale, presso le imponenti mura di Pechino. E’ il tramonto, ed un mandarino proclama il tragico decreto di Turandot: la principessa andrà in sposa solo a colui che saprà sciogliere i tre enigmi da lei proposti; ma se il pretendente fallirà la prova, subirà la morte. Il principe di Persia, che fu vinto nel cimento, sarà decapitato allo spuntar della luna. La folla gioisce all’annuncio dello spettacolo di morte e chiama a gran voce il boia tentando di penetrare nella reggia. E’ ricacciata dalle guardie. Nel tumulto sono coinvolti Timur, il vecchio re dei Tartari spodestato, esule dalla sua patria, e Liù, la dolce fedele schiava che ha voluto rimanergli fedele nella sventura. La fanciulla invoca soccorso per il vecchio ed ecco un giovane farsi largo e accorrere. E’ Calaf, figlio di Timur, e come lui esiliato e fuggiasco. L’incontro ed il riconoscimento sono commoventi. Il vecchio re narra – mentre s’avanza il carnefice coi suoi aiutanti – della fuga e del generoso sostegno trovato in Liù; e a lei Calaf si volge grato, chiedendo il perché del sacrificio. E Liù svela con timida voce il suo grande segreto: perché un giorno il principe le aveva sorriso! E da allora la sua vita fu votata a lui. Frattanto il boia arrota lo spadone per il supplizio e la folla canta sguaiata, impaziente di veder sorgere la luna che segnerà l’ora di morte. Finalmente il pallido raggio illumina il cielo e avanza il corteo che accompagna il principe di Persia al supplizio. Ma nel vederlo giovanissimo e bello la ferocia della folla si cambia in pietà e si invoca Turandot perché conceda la grazia. Calaf maledice la principessa, ma il grido gli muore sulle labbra quando ella appare. Turandot, bellissima, illuminata dalla luna, sembra una creatura del cielo e Calaf estasiato non sa tacere la sua meraviglia. Turandot con un cenno nega la grazia ed il corteo riprende lento e tragico, seguito dalla folla. Calaf è rimasto immobile, come trasognato, e quando si riscuote è per invocare Turandot. Timur e Liù che sono rimasti con lui, tentano di distoglierlo ed allontanarlo, ma invano. Alla invocazione di Calaf, intanto, un’altra risponde: quella del principe che muore, seguita dall’urlo della folla. Per un momento Calaf sembra esitare, ma poi corre verso il gong per annunciare di volersi sottoporre alla prova. Non fa in tempo a raggiungerlo che tre figure grottesche gli tagliano la strada. Sono Ping, Pang e Pong, i tre ministri imperiali che, con la descrizione del supplizio riservato a chi fallisce, vogliono dissuaderlo dal tentare la prova. Ma Calaf ancora non cede. Appaiono sul loggiato le ancelle di Turandot ad intimare silenzio perché la principessa dorme. Voci di ombre – gli innamorati che fallirono nel risolvere gli indovinelli – chiamano Turandot, ma queste voci non fanno altro che mettere nuovo fuoco nell’anima di Calaf. Né l’apparizione del boia sugli spalti che infila in un’asta la testa mozza del principe persiano, né il disperato appello di Timur né il pianto di Liù lo fanno rinunciare al suo proposito folle. Raccomandata alla fanciulla il vecchio padre, si svincola da loro e dai tre ministri che tentano ancora di trattenerlo, e si precipita al gong battendo i tre colpi fatali, invocando tre volte la principessa.

ATTO SECONDO

Scena prima

Un padiglione accanto alla reggia accoglie i tre ministri Ping, Pang e Pong che commentano la nuova tragica sfida del Principe Ignoto. Enumerano le morti già procacciate dal decreto di Turandot e sognano le loro case lontane e la vita pacifica di un tempo. Profetizzano comunque che verrà un giorno in cui un uomo riuscirà a superare la prova e ristabilire la pace in Cina. Intonano quindi un inno all’amore vittorioso. Ma il brusio della reggia che si sveglia, dopo i tre colpi di gong, li richiama velocemente alla dura realtà. Se ne vanno quindi per assistere alla nuova sfida e, forse, al nuovo supplizio.

Scena seconda

Nel grande cortile d’onore della reggia si erge una grandiosa scalinata, al sommo della quale si trova il trono dell’imperatore. E’ notte, e la scena è illuminata da innumerevoli lanterne e resa fastosa dalla folla di dignitari e dalle masse di policrome insegne che gremiscono la gradinata. L’imperatore invita il Principe Ignoto a desistere dalla sfida: ma Calaf insiste per affrontare le prove. Viene proclamato il decreto di Turandot e la principessa ne spiega il movente. Una sua ava fu sconfitta da un principe straniero, fu trascinata via da lui, e ne morì di dolore e di vergogna. Turandot ha allora giurato di vendicare questo oltraggio punendo ogni straniero che desideri sposarla. Invita inoltre il Principe Ignoto alla rinuncia. Calaf non cede e la principessa gli propone il primo enigma: “Cosa nasce ogni notte e muore all’alba?” Dopo un ansioso silenzio il principe lo spiega: “La speranza!” I sapienti, consultate le loro pergamene, confermano e la folla mormora stupita. Turandot scende a metà della gradinata per avvicinarsi a Calaf, che rimane come abbagliato e gli propone il secondo enigma: ” Qual è la cosa che guizza ed è rossa e calda, se non è il fuoco?” L’ignoto riflette e tace; il trepido silenzio è rotto dagli incitamenti di Liù, Timur e della folla. Infine anche la seconda spiegazione è trovata: “Il sangue” ed i sapienti approvano. La folla esulta e Turandot è smarrita. Scende tutta la scala e, faccia a faccia con l’Ignoto, formula il terzo enigma. Qual è quella cosa che è come il ghiaccio ma brucia? Gioisce dell’imbarazzo di Calaf, che sembra incapace di trovare la risposta; ma il principe, ch’era caduto in ginocchio, balza in piedi vittorioso: ecco la spiegazione: “Turandot!”. La folla acclama entusiasta. La principessa sale verso il trono e supplica il padre di non gettarla in braccio allo straniero. Ma l’imperatore non può mancare alla parola data. Calaf ascolta la sua supplica e la libera dal patto poiché ciò che egli vuole è il suo amore. Le propone poi magnanimamente un enigma: se prima dell’alba ella sarà riuscita a scoprire il suo nome egli morrà! Turandot accetta. L’imperatore, commosso da tanta generosità apre la sua reggia all’Ignoto, che vorrebbe poter chiamare figlio. Mentre Calaf sale la scala per raggiungere il sovrano la folla lo acclama erompendo in un inno imperiale a piena voce.

ATTO TERZO

Scena prima

Cscalaf sta sdraiato sui gradini di un padiglione che porta agli appartamenti di Turandot e contempla il giardino della reggia, illuminato dalla luna. Echeggiano le voci degli araldi che pubblicano il bando di Turandot: chi sa il nome dell’Ignoto deve rivelarlo alla principessa prima dell’alba, pena la morte. Calaf pensa allora al momento in cui egli stesso rivelerà il suo nome a Turandot, quando il suo amore avrà vinto. Si ode il lamento della folla che paventa la morte minacciata, se non verrà rivelato il nome dello straniero. Il giardino un po’alla volta si popola e la gente, capeggiata dai tre ministri, affronta l’Ignoto. Gli dicono che la loro vita è in mano sua: gli offrono qualsiasi cosa egli desideri (donne,beni, gloria) e sarà fatto fuggire dalla Cina con un salvacondotto. Calaf li respinge e la folla gli si volge contro minacciosa. Già i pugnali si alzano contro di lui, quando Timur e Liù sono condotti dentro. Essi sono stati visti con l’Ignoto al tramonto, devono sicuramente saperne il nome. Turandot chiamata dalla folla, appare ed ordina al vecchio di rivelarle il nome dello sconosciuto. Poiché non parla, sta per consegnarlo alla tortura, ma Liù si precipita davanti alla principessa gridando che lei sola sa il nome dell’Ignoto, ma non lo rivelerà. La folla impreca e le si stringe addosso minacciosa, Calaf si slancia a sua difesa, ma è trattenuto dalle guardie. Liù lo rassicura che non parlerà. Invano Ping la interroga minaccioso; invano gli sgherri le torcono le braccia; Liù si accascia ma tace. Turandot ammirata, le chiede da cosa le arrivi tanta forza e Liù canta dolcissima il suo amore per il quale getta la vita. La principessa ordina allora di strapparle il segreto e chiama il boia. Liù con un grido tenta di aprirsi un varco tra la folla, ma poi corre presso Turandot e le predice che ella cederà all’amore per l’Ignoto, alla cui vittoria ella sacrifica la vita. E con un gesto fulmineo strappa ad un soldato il pugnale e se lo immerge nel petto. Cade morta ai piedi di Calaf. Turandot contempla assorta il corpo senza vita, mentre Calaf la invoca e Timur le si inginocchia accanto. Passa sulla folla un’onda di pietà e di timore superstizioso per questa morte di un’innocente. Liù è sollevata a braccia e si forma un corteo che l’accompagna alla sepoltura. Timur piangente tiene tra le sue la mano della fanciulla e la folla fa eco al suo pianto. L’Ignoto e Turandot vedono tutti allontanarsi e rimangono faccia a faccia. Calaf le grida di sciogliersi finalmente dal suo gelo di morte e le strappa il velo che la ricopre. Il suo ardore non è spento dai rimproveri della principessa ed egli avanza per abbracciarla. Turandot arretra sconvolta, ma egli la insegue, l’afferra e la bacia. Quel primo bacio d’amore rende la principessa umile e supplichevole perché l’Ignoto s’allontani. Ma Calaf la stringe tra le braccia e Turandot piange di commozione e di sgomento per la sua resa. Poi svela all’Ignoto come l’abbia temuto ed insieme amato fin dal primo momento, e gli chiede di non voler vittoria più grande di quella già ottenuta e di partire. Ora Calaf tenta la suprema prova d’amore. Svela il suo nome a Turandot, mettendo così la sua vita nelle mani dell’amata. L’inattesa rivelazione accende l’orgoglio della principessa, che, pensando di poter essere ancora vittoriosa, invita Calaf davanti all’imperatore e al popolo.

Scena seconda

Il cortile d’onore della reggia con l’immensa scala accoglie ancora l’assemblea di funzionari per la suprema prova davanti al sovrano. Turandot annuncia al padre che sa il nome dello straniero, ma quando tutti attendono che lo sveli per mandare l’audace alla morte, la principessa, fissando Calaf, esclama, ardendo della nuova fiamma: il suo nome è …Amore! Calaf ripete quanto appena udito e sale d’impeto la scalinata per raggiungere Turandot. Un abbraccio li unisce, mentre la folla acclama, e prorompe in un canto di gioia.

L’ultima grande opera di Giacomo Puccini

L’idea di ispirarsi per il soggetto ad una delle fiabe teatrali più celebri di Carlo Gozzi, drammaturgo veneziano del Settecento contemporaneo e rivale di Carlo Goldoni, nacque da un incontro a Milano durante l’inverno del 1920 fra Puccini e i librettisti Adami e Simoni. Puccini mise subito al lavoro i suoi collaboratori e già nell’agosto del 1920 erano state apportate le principali modifiche rispetto allo schema originale. Adami e Simoni, il primo versificatore e il secondo ideatore della trama, scrissero il libretto e lo dovettero adattare molte volte rispettando le richieste del compositore. Le difficoltà principali furono quelle causate soprattutto dal carattere favoloso dei personaggi gozziani, privi di quel pathos che Puccini tanto ricercava. Le maschere nella versione originale della fiaba vennero trasformate dagli autori nel terzetto dei ministri Ping, Pang e Pong che rappresentano la gran parte del materiale musicale cinese nell’opera. La protagonista Turandot diventa invece un ostacolo nella costruzione dell’opera a causa della forte mutevolezza del personaggio. Infine lo spessore eroico del Principe Calaf e l’introduzione della figura di Liù, con il suo sacrificio d’amore, sono elementi innovativi e tipici dello stile pucciniano. All’inizio del 1921 Puccini aveva già iniziato la composizione musicale con l’aiuto di un carillon cinese appartenente alla collezione d’arte dell’amico Fassani e grazie all’ispirazione ad alcuni brani di musica folk forniti dalla Ricordi. Tuttavia la strumentazione dei primi due atti venne conclusa solo nel febbraio del 1924. Il terzo atto invece rimaneva incompiuto, poiché l’autore non riusciva a vederne il logico sbocco drammatico, specialmente per il gran duo finale fra Calaf e Turandot, già rivisto ben quattro volte. Da questo momento in poi Puccini continuò a lavorare freneticamente sull’opera, interrompendosi solo per soggiorni all’estero o per correggere altre partiture. All’inizio del 1924, mentre il lavoro sulla partitura procedeva tra alti e bassi, il compositore ebbe i primi sintomi della malattia che l’avrebbe portato alla morte in quello stesso anno. Cercò di sottoporsi ad alcune cure, ma senza risultati visibili. Cominciò allora a deperire, ma nonostante ciò prese accordi sulla data della prima di Turandot, sebbene l’opera non fosse ancora ultimata. Gli fu diagnosticato un papilloma, che in realtà era un cancro alla gola senza alcuna possibilità di guarigione. L’unico modo per prolungare un po’ la vita del malato era di sottoporlo ad un intervento chirurgico immediato e alla cura del radio presso “L’Institut de la Couronne” di Bruxelles. Il 24 novembre fu sottoposto con successo all’intervento. Quattro giorni dopo però il cuore del compositore cedette improvvisamente, portandolo alla morte, che avvenne il 29 novembre 1924. Alla sua partenza per Bruxelles, Puccini aveva portato con sé le trentasei pagine di abbozzo di partitura delle due ultime scene di Turandot ossia il duetto d’amore e il finale del terzo atto, nella speranza di terminarli, ma non vi riuscì. Turandot – 2003Chi conosceva meglio di tutti la partitura dell’opera era Arturo Toscanini e fu proprio lui ad incaricarsi di presentare l’opera rimasta incompiuta. Era un problema grave sia dal punto di vista pratico e sia della responsabilità artistica. Puccini aveva infatti lasciato una partitura completa solo fino al suicidio di Liù e al corteo funebre che segue. La scelta di chi avrebbe dovuto completare l’opera non fu semplice. Toscanini propose alla famiglia Puccini e alla casa Ricordi di affidare l’incarico a Franco Alfano il quale completò la partitura dell’ultimo episodio dove la principessa Turandot è scossa e trasformata dall’amore sulla base dei fogli lasciati da Puccini. La prima dell’opera fu quindi rappresentata alla Scala di Milano il 25 aprile 1926 sotto la direzione di Toscanini. Giunti al terzo atto, terminata l’aria di Liù “Tu che di gel sei cinta” il maestro depone la bacchetta e rivolgendosi al pubblico interruppe l’esecuzione commosso: “Qui il maestro è morto” e abbandona quindi l’esecuzione là nel punto in cui il suo compositore si era fermato.