Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi all'Arena di Verona: applausi per il direttore d'orchestra Andrea Batistoni Video applausi

Applausi per Un ballo in maschera



L’opera in 3 atti di Giuseppe Verdi “Un ballo in Maschera”, diretto da Andrea Battistoni, ha inaugurato ieri sera, ricevendo molti applausi, la 101 edizione del Festival lirico all’Arena di Verona.

Galleria applausi Un ballo in maschera

20 giugno 2014
Arena di Verona

Melodramma in 3 atti di Giuseppe Verdi
Libretto di Antonio Somma

Direttore d’orchestra Andrea Battistoni
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Coreografia Renato Zanella
Lighting designer Vincenzo Raponi
Maestro del coro Armando Tasso
Direttore corpo di ballo Renato Zanella
Direttore allestimenti scenici Giuseppe De Filippi Venezia

INTERPRETI UN BALLO IN MASCHERA

Riccardo: Francesco Meli
Renato: Luca Salsi
Amelia: Hui He
Ulrica: Elisabetta Fiorillo
Oscar: Serena Gamberoni
Silvano: William Corrò
Samuel: Seung Pil Choi
Tom Deyan: Vatchkov
Un giudice: Antonio Feltracco
Un servo: di Amelia Saverio Fiore

Primi ballerini: Alessia Gelmetti, Evghenij Kurtsev

ORCHESTRA, CORO, CORPO DI BALLO E TECNICI DELL’ARENA DI VERONA

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Un ballo in maschera inaugura il Festival lirico areniano 2014

L’OPERA INAUGURALE. Il pubblico premia con grandi applausi il melodramma che D’Annunzio definì «perfetto»

La «prima» s’illumina con i fuochi d’artificio

«Un ballo in maschera» nel segno delle passioni verdiane apre la stagione lirica. Innovativa la scenografia di Luigi Pizzi

Cesare Galla (L’Arena, sabato 21 giugno 2014)
Gabriele D’Annunzio lo definiva il melodramma perfetto. Amore impossibile, rinunce, amicizia tradita, altruismo fino al sacrificio di sé, congiure. E morte, naturalmente. Un cocktail che tuttavia prevede anche leggerezza, ironia, un clima festoso sinistramente in conflitto con un delitto tragicamente inutile. Perché nessuno, in questa storia, è colpevole nelle azioni, ma solo nei pensieri o nelle intenzioni.

Pur essendo per molti aspetti una summa dell’arte di Verdi, il superamento della grande stagione della trilogia di Trovatore, Traviata e Rigoletto nel segno di una nuova sottigliezza armonica e di colori diversi «Un ballo in maschera» non ne ha mai neanche lontanamente avvicinato la popolarità. E bastino a certificarlo gli annali dell’Arena, che mostrano la cautela nel proporre questo titolo nell’anfiteatro romano. Fino a oggi sei edizioni, ben distaccate nel tempo. La settima ha preso il largo ieri sera, a inaugurare il festival «del nuovo secolo» (areniano), 16 anni dopo l’ultima volta.
La scenografia quasi completamente bianca ideata da Pier Luigi Pizzi per lo spettacolo che è l’unica nuova produzione del festival, s’ispira a un neoclassicismo palladiano rivisitato in chiave coloniale british, fatto di colonnati, balaustre e caminetti elegantemente decorati (nel terz’atto vi brucia un fuoco autentico), con la possibilità di giocare fra interni ed esterni senza soluzione di continuità. Tre costruzioni circolari, agibili anche in alto, riempiono per intero il proscenio, a definire spazi privati e pubblici di una vicenda che si gioca tutta su questa bipolarità inconciliabile. Ruotando a vista, queste strutture permettono di passare con fluidità dal palazzo del governatore all’antro dell’indovina Ulrica o all’orrido campo, luogo del grande duetto d’amore dei protagonisti come pure del precipitare del dramma, peraltro visivamente stilizzato in chiave cimiteriale con due grandi cipressi. Completano il quadro visivo i sofilisticati costumi, colorati e pittorici, nel gusto infallibile di Pizzi.
Lo spettacolo risulta efficacemente narrativo, attento alle sfumature della drammaturgia, un po’ statico nel suo procedere per «tableau vivant». Cast dominato dal tenore Francesco Meli, un Riccardo appassionato e generoso, dalla linea di canto di squisito lirismo e dal colore sempre accattivante. Accanto a lui, Amalia è Hui He, piglio drammatico convincente e fraseggio duttile ed espressivo, per un secondo e terz’atto di notevole spessore. Renato, marito tradito e amico assassino, ha la voce di bella grana scura di Luca Salsi, stilisticamente assai interessante. Non all’altezza la Ulrica di Elisabetta Fiorillo, dall’emissione forzata e oscillante, mentre Serena Gamberoni è stata un Oscar di discreta brillantezza.
Dal podio, Andrea Battistoni ha trovato gli accenti migliori quando il dramma precipita, nello scatto dei tempi e nella vivacità dei colori, ma non ha evitato qualche banalità negli accompagnamenti delle pagine liriche. Pubblico prodigo di applausi, tripudio per i fuochi d’artificio che segnano l’inizio della festa fatale.

LA «PRIMA». La scenografia è architettonica, bellissimi i costumi

Il «Ballo» di Pizzi
aggiunge
il bianco a Verdi

Cesare Galla

Come aveva fatto con l’«Aida» blu, il regista griffa in senso cromatico anche il nuovo allestimento Lo spettacolo è costruito come una serie di quadri

domenica 22 giugno 2014
Quindici anni dopo, Pier Luigi Pizzi torna a frequentare Verdi in Arena. Correva l’anno 1999 quando il registra-scenografo-costumista realizzava quella che rimane la migliore Aida nuova (per dire che quella del 1913 rimane «fuori categoria») dell’ultimo quarto di secolo. Era la cosiddetta Aida blu, per la tinta dominante di una scenografia allo stesso tempo tradizionale e innovativa, intimistica e monumentale, perfino in certo modo futuribile; coraggiosa abbastanza per fare del Trionfo una «naumachia». Oggi è la volta di Un ballo in maschera, che si può ben definire «in bianco», visto che Pizzi non rinuncia a griffare in senso cromatico anche il nuovo allestimento.

L’architettonica scenografia – tre costruzioni circolari che ruotano e si possono anche aprire per modulare gli spazi dell’azione – è quasi integralmente bianca per un duplice ordine di motivi: perché insegue suggestioni coloniali e perché lo fa secondo una scelta stilistica che guarda al neo-palladianesimo anglosassone, a rimando fra il neo-classicismo britannico e la sua rivisitazione negli Stati Uniti (il luogo dell’opera è Boston).
ALL’INTERNO di questa seducente cornice, Pizzi costruisce lo spettacolo come una serie di quadri, di «tableau vivant» ai quali contribuiscono in maniera determinante i costumi, come sempre bellissimi. Si direbbe anzi che al loro gioco cromatico (si alternano bianco, nero, rosso, tinte pastello e oro-argento) il regista affidi la dinamicità che la rappresentazione per molti aspetti ignora, concentrata com’è nel mettere a fuoco il vero motivo dominante: la passione. Il risvolto politico presente nell’opera scorre sotterraneo, ma non è una vera concausa di quel che accade; non per Pizzi, che anche in questo si mostra molto fedele a Verdi. I congiurati del Ballo sono figurine di contorno, le loro trame solo un’occasione per la sofferta resa dei conti personale fra due uomini che sono per di più stretti da un profondo vincolo di amicizia e di fiducia.
Semmai, è il contrasto stridente fra lo spirito mondano, brillante e vagamente superficiale (scherzi, giochi, balli, appunto…), che serpeggia sottotraccia quasi ovunque e la forza tormentosa e cupa delle passioni a suggerire le soluzioni più convincenti a Pizzi. La festa fatale del terzo atto è una lugubre messinscena, nella quale le maschere ricordano tanti teschi e intorno a pochi danzatori e ai personaggi principali si affolla una piccola folla cupa e inquietante, testimone attonita della tragedia annunciata.
Spettacolo di solido quanto elegante impianto tradizionale, scorrevole nei suoi cambi di scena a vista, questo Ballo in maschera vede tornare sul podio il giovane direttore veronese Andrea Battistoni, che sta rapidamente ampliando il suo repertorio areniano dopo il Barbiere rossiniano del debutto (2011) e le prove di Traviata e Turandot.
RISPETTO ai precedenti titoli, qui la questione stilistica è molto più composita: archiviata la «trilogia popolare», infatti Verdi comincia con quest’opera (che è del 1859) una nuova ricerca che guarda a modelli francesi di brillantezza ed eleganza per tornirli però a modo suo, con il suo personalissimo taglio drammatico. Ci sono molti tesori anche strumentali (oltre che vocali) in questa partitura, ma Battistoni li illumina solo in parte: trova bene lo scatto tragico nella concitazione e nella stretta dei tempi, quando la vicenda ha i suoi «picchi» espressivi, ma non altrettanto la trama timbrica e sentimentale negli ampi squarci lirici, con accompagnamenti generici e scarsa inclinazione alla sensualità della frase melodica, alla rotonda ricchezza della sua morbida linea.
Nella compagnia di canto Francesco Meli presta il suo timbro chiaro e fascinoso e la sua linea di canto elegante, in perfetto stile verdiano «di mezzo», al personaggio del conte Riccardo, apprezzabilmente risolvendo in lirismo incisivamente connotato anche il versante più drammatico del ruolo. Al suo fianco, Hui He disegna un’Amelia di laceranti contraddizioni, divisa fra il dovere e il sogno sentimentale, scolpendo la propria sofferenza con un colore scuro di forte impatto emotivo, vocalmente esaltato da eguaglianza e tenuta in tutte le zone della tessitura e anche da una pronuncia di grande forza comunicativa nella messa a fuoco della «parola scenica». Molto positiva anche la prova del baritono Luca Salsi, che al terzo atto rende vivi e palpitanti la disperazione e il risentimento, fraseggiando con grande intensità e in sostanziale tenuta anche in zona alta. Assai meno bene Elisabetta Fiorillo, che nel ruolo della maga Ulrica forza l’emissione senza costrutto drammatico, esibendo una voce oscillante e piuttosto usurata. In crescendo alla prima la prova di Serena Gamberoni: piuttosto legata nel primo atto, spigliata e svettante nel terzo, con la lucente brillantezza richiesta al fatuo paggio Oscar e una presenza scenica frizzante, sottolineata dalla «ruota» esibita in uscita di scena dopo la sua dispettosa canzone Saper vorreste. Fra i comprimari, meglio William Corrò (Silvano) di Antonio Feltracco (un giudice); a posto i congiurati Seung Pil Choi (Samuel) e Deyan Vatchkov (Tom), non sempre preciso il coro.
Pubblico non da tutto esaurito, ma discretamente numeroso e prodigo di calorosi applausi e di molte chiamate alla fine. Si replica altre sei volte: il 27 giugno, l’11, 19, 24 e 31 luglio e l’8 agosto.

Il Riccardo del tenore Meli
convince senza riserva

domenica 22 giugno 2014 SPETTACOLI

Francesco Meli nel ruolo di Riccardo convince senza riserva. La voce da lirico spinto, generosa e marcatamente centrale, esprime al meglio le esigenze del ruolo. I registri vocali sono complessivamente omogenei, qualche esitazione tuttavia è ancora presente nell’approccio agli acuti che il cantante attacca quasi sempre dal basso.
Il tenore, complessivamente efficace lungo il corso dell’intera opera, riesce particolarmente nel duetto con Amelia Teco io sto con tanto di Do sovracuto e nell’interpretazione dell’aria Forse la soglia attinse.
A suo fianco Hui He si conferma grande interprete del ruolo di Amelia. La voce della cantante nel pieno della maturità vocale è ampia e copre l’intero anfiteatro. Mai in debito, sostiene senza forzature le ampie frasi centrali dell’aria del secondo atto Ecco l’orrido campo e raccoglie ampio consenso nell’entusiasmante duetto con Riccardo e nell’aria del terzo atto Morrò – ma prima in grazia, romanza di Amelia.
Altrettanto interessante è il Renato di Luca Salsi, il baritono dalla vocalità «vilain» già interprete di diversi ruoli verdiani. Il timbro è gradevole, il volume generoso e i registri vocali risuonano complessivamente omogenei se non chiede troppo ai propri mezzi.
Del restante cast di protagonisti delude Ulrica, la maga, interpretata dal mezzosoprano Elisabetta Fiorillo che regala autentici brividi, non di piacere. L’interpretazione risente di una vocalità profondamente usurata e dopo un avvio a dir poco stentoreo acquisisce una parvenza di duttilità che migliora, solo in parte, un’interpretazione inadeguata ad una prima.
Ultimo dei protagonisti è Oscar qui interpretato da Sara Gamberoni che convince pur con riserva. Il soprano che incespica inaspettatamente nelle agilità della ballata Volta la terrea…, acquisisce maggior sicurezza nel corso della serata e convince con una buona interpretazione dell’aria del terzo atto Saper vorreste dal canto più lineare.
Misurato il resto della compagnia.