Ieri sera alla Sala Consigliare di Sant'Ambrogio di Valpolicella si è svolto il reading intervista con lo scrittore Fabio Genovesi, organizzato dal Club della Accanite Lettrici (Associazione Botta&Risposta), con l'accompagnamento del duo Luca Motta (chitarra) e Luca Pighi (batteria). Letteratura, poesia, reading

Fabio Genovesi a Venerdì d’autore (di mercoledì)


Ieri sera alla Sala Consigliare di Sant’Ambrogio di Valpolicella (accessibile) si è svolto il reading / intervista con lo scrittore Fabio Genovesi, organizzato dal Club delle Accanite Lettrici (Associazione Botta&Risposta), con l’accompagnamento del duo Luca Motta (chitarra) e Luca Pighi (batteria).

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“Versilia Rock City” di Fabio Genovesi

Un romanzo che narra di “personaggi e situazioni impensabili, storie formidabili
e fiammeggianti”. Una scrittura vivace e ironica capace
di “stupirvi, commuovervi, divertirvi fino alle lacrime”.

COCKTAIL VS BEVANDA ARLECCHINA

18 APRILE 2013
Qualche anno fa ho scritto per Il Tirreno questo pezzo sullo scottante argomento dei bar, com’erano e come sono.

Lo metto sul sito proprio oggi per un motivo preciso: perché l’ho ritrovato per sbaglio cercando un’altra cosa, e siccome non si butta via nulla eccolo qui.

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Quando ero piccolo avevo tanti sogni, ma soprattutto due: andare con le donne e andare al bar. Non sapevo perchè, e non avevo idea di cosa avrei fatto il giorno che finalmente mi fosse riuscito di metterli in pratica, però vedevo che i grandi non pensavano ad altro e allora mi fidavo di loro. Anzi, nella mia ignoranza credevo che il massimo sarebbe stato unire quelle due passioni, andando al bar in compagnia delle donne. Gravissimo errore, e infatti mio zio che la sapeva lunga mi spiegò che certe attività non vanno mai mischiate: a me mi garba la caccia e mi garba il cinema, ma secondo te quando vado a vedere un film mi porto dietro un cinghiale? Io ho fatto di sì con la testa, poi di no, confuso da quella similitudine sbilenca in cui la donna forse era il cinghiale, e ho deciso che era molto meglio cominciare con quell’altra passione, quella del bar, che mi pareva più a portata di mano. Anche perchè –diversamente dalle donne- il bar certe volte riuscivo a sfiorarlo, a rubare qualche attimo della sua vita misteriosa mentre andavo nella saletta sul retro dove c’erano i videogiochi.

Passandoci per un secondo, vedevo le file degli alcolici dietro al bancone, colle bottiglie strane e i nomi clamorosi: amaro Algar, Punt e Mes, Don Bairo l’Uvamaro… così preziosi che andavano versati in bicchieri piccolissimi, per bagnare le labbra dei ruvidi maestri di vita che intanto giocavano al biliardo, sacramentavano e riempivano il locale di fumo e sentenze definitive su qualsiasi argomento, aiutati da vecchi ruvidi e catarrosi che si strizzavano intorno ai tavolini per sfondarsi di partite alle carte e parlare male dei giovani, dell’Italia, di tutto quello che aveva il coraggio di passargli davanti. Al bar insomma non si andava per socializzare, ma per dissociarsi. Per tenere chiuso fuori il resto del mondo, e fregarsene dei suoi ritmi, dei codici e delle regole, delle sue pallose formalità.

Là fuori succeda quel che deve succedere, noi qua dentro si beve, si gioca e si fa quel che ci pare. E io, quando passavo di lì per andare nella saletta dei videogiochi, cercavo di camminare lentissimo e assorbire più vita che potevo, e non vedevo l’ora di crescere fino al giorno in cui quel paradiso sarebbe stato finalmente mio. Ma poi, quando ho avuto l’età per realizzare il mio sogno di andare al bar, i bar sono morti. O meglio, hanno cambiato faccia, hanno cambiato anima, e anche se oggi locali e cocktail bar sono più fitti dei lampioni, i bar dove una volta andavano i grandi non esistono più. Quel nido sicuro, staccato dalla realtà quotidiana, quell’incrocio tra parco giochi e riserva naturale per babbi e zii, è stato rimpiazzato da locali che sono invece il massimo della socializzazione, una voliera gigantesca dove infilare uomini e donne per farli conoscere e figliare.

E non si dovrebbe mai essere nostalgici, altrimenti si finisce a rimpiangere gli anni in cui per autarchìa i bar si chiamavano “mescita” e i cocktail erano la “bevanda arlecchina”. Però ecco, insomma il cambiamento è stato davvero radicale.

Quello che prima era un buco illuminato da un neon e un’insegna luminosa del Vov, adesso è un ambiente “carino” ed elegante, con luci soffuse e musica zuccherosa che crea l’atmosfera, mentre una volta tutti sapevano che l’unico a creare l’atmosfera era il brandy Vecchia Romagna etichetta nera. Oggi pareti bianchissime, arredo essenziale e anch’esso bianco, l’impressione è quella di stare in un ambulatorio. Ci si presenta tutti in tiro e si sta attenti a come si parla, come si balla, come si sorseggia l’Americano Sbagliato. Se in un posto del genere entrasse per caso un anziano con le carte in mano, verrebbe guardato come un alieno e scacciato verso l’ospizio più vicino.

E invece del tavolo da biliardo trionfa il tavolinetto basso in stile giapponese, carico di vassoi con gli “stuzzichini” da aperitivo, che la folle concorrenza tra i bar ha ormai trasformato in un banchetto surreale: le vecchie ciotole con due olive, salatini e noccioline sono il triste ricordo di un’epoca di stenti, schiacciato da maestose teglie di pasta al forno, vassoi di riso freddo e cus cus, pentole di polenta col coniglio in umido. E nel bar si mangia, si beve, si sorride e ci si guarda intorno.

Le donne sono in tiro come se ogni sera fosse capodanno, gli uomini si salutano gasati e carichi, tutti ossessionati dal mettersi in mostra, dallo scattare foto che li certifichino al centro del divertimento, impegnati nell’inutile tentativo di trasformare ogni solita giornata in un evento eccezionale.

E ingollando teglie di maccheroni e litri di gin tonic, cerchiamo di buttare giù anche la consapevolezza che di eccezionale, in tutto questo, c’è davvero poco.

Fabio Genovesi nasce a Forte dei Marmi nel 1974, fa le elementari e le medie come tutti e poi sceglie il liceo scientifico perché è il più vicino a casa. Ma suoi veri maestri sono i lunghi pomeriggi tra fossi e canali, e suoi compagni di scuola carpe, tinche e lucci, topi, rospi, zecche e altre bellezze del creato. Si iscrive a filosofia perché almeno dopo trova subito lavoro, e intanto gira le località di pesca meno gettonate d’Europa e degli Stati Uniti, dove sfiora l’arresto a causa di un würstel incautamente arrostito in un bosco. Spende così i pochi soldi messi da parte coi lavori stagionali: raccattapalle in un tennis club, portatore di spese a domicilio, cameriere, aiuto bagnino, guida ciclistica e insegnante di italiano per americani, giardiniere, rivenditore di pellicole e poster di film sexy e horror anni settanta. Conduce un furioso programma radiofonico heavy metal, e collabora con la rivista “Flash” occupandosi di musica e cinema dell’orrore.

Intanto scrive monologhi e spettacoli teatrali, soggetti per il cinema e documentari, traduce vari autori americani legati alla musica, tra cui Lee Ranaldo dei Sonic Youth e Les Claypool dei Primus per la casa editrice Quarup, oltre a Hey Rube, la Spirale discendente dell’Idiozia di Hunter S. Thompson (quello di Paura e Disgusto a Las Vegas) e The Imagination of the Heart di Barry Gifford, per Fandango.

Nel 2007 esce – solo in Toscana – la raccolta di racconti Il bricco dei vermi, e l’anno successivo tocca al primo romanzo, Versilia Rock City (Transeuropa), di cui è in uscita una nuova versione per Mondadori.

Collabora con “Vanity Fair”, “La Lettura”, l’inserto culturale del “Corriere della Sera”, “Repubblica Firenze” e “Il Tirreno”.

Nel gennaio 2011 Mondadori pubblica il suo secondo romanzo, Esche Vive, in corso di traduzione in otto Paesi.

Lavora anche alla stesura di diversi saggi, tra cui il più notevole resta Come insidiare la trota con la mosca sommersa (a oggi dolorosamente inedito).