il celebre balcone della casa di giulietta a verona Letteratura, poesia, reading

Romeo e Giulietta di William Shakespeare – ebook


William Shakespeare

ROMEO E GIULIETTA

PERSONAGGI

DELLA SCALA, principe di Verona

PARIDE, giovane gentiluomo, parente del Principe

MONTECCHI, CAPULETI: capi di due famiglie in guerra fra di loro

ROMEO, figlio del Montecchi

MERCUZIO, parente del Principe e amico di Romeo

BENVOLIO, nipote del Montecchi e amico di Romeo

TEBALDO, nipote di Madonna Capuleti

Un Vecchio, della famiglia Capuleti

Frate LORENZO, francescano

Frate GIOVANNI, dello stesso ordine

BALDASSARRE, servo di Romeo

SANSONE, GREGORIO: servi dei Capuleti

PIETRO, altro servo dei Capuleti

ABRAMO, servo dei Montecchi

Uno Speziale

Tre Sonatori

Il Paggio di Mercuzio

Il Paggio di Paride

Un Ufficiale

MADONNA MONTECCHI, moglie del Montecchi

MADONNA CAPULETI, moglie del Capuleti

GIULIETTA, figlia del Capuleti

La Nutrice di Giulietta

Cittadini di Verona; Parenti delle due famiglie; Maschere; Guardie; Vigili e Persone del seguito

Scena: Durante la maggior parte del dramma, a Verona: una sola volta, nel quinto atto, a Mantova

PROLOGO

(Entra il Coro)

 

CORO: Nella bella Verona, dove poniamo la scena, per antica ruggine scoppia fra due famiglie di pari nobiltà una nuova rissa, nella quale il sangue civile macchia le mani dei cittadini. Dai fatali lombi di due nemici discende una coppia di amanti, nati sotto cattiva stella, le cui sventurate e pietose vicende seppelliscono con la loro morte l’odio dei genitori. I terribili casi del loro amore segnato dalla morte, e l’ira prolungata dei loro genitori, alla quale nulla potrà mettere fine, se non la morte dei figli, sono lo spettacolo che la nostra scena vi offrirà per due ore; se voi vorrete assistere con paziente orecchio, il nostro zelo cercherà di rimediare a quello che vi sarà di deficiente.

(Esce)

 

ATTO PRIMO

SCENA PRIMA – Verona. Piazza pubblica

(Entrano SANSONE e GREGORIO, della Casa dei Capuleti, armati di spade e di scudi)

 

SANSONE: Gregorio, sulla mia parola, noi non curveremo la schiena.

GREGORIO: No, perché allora saremmo dei facchini.

SANSONE: Voglio dire che se ci monta la collera, infileremo qualcuno.

GREGORIO: Bravo, finché vivi, infila sempre il collo nel colletto.

SANSONE: Io faccio presto a picchiare quando mi riscaldo.

GREGORIO: Già, ma non fai presto a riscaldarti per picchiare.

SANSONE: Un cane di casa Montecchi basta per farmi scattare.

GREGORIO: Scattare vuol dire muoversi, mentre aver coraggio significa tener fermo: perciò se tu scatti, finirai che scappi.

SANSONE: Un cane di quella casa mi moverà a tener fermo: mi terrò al muro con qualunque servo o qualunque serva di casa Montecchi incontrerò.

GREGORIO: Ciò mostra che tu sei un debole marrano, perché al muro ci va sempre il più debole.

SANSONE: E’ vero, e appunto per questo le donne, essendo più deboli degli uomini, sono spinte sempre contro il muro: perciò io caccerò via dal muro i servitori del Montecchi, e spingerò al muro le sue serve.

GREGORIO: Le serve non c’entrano: la contesa è fra i nostri padroni e fra noi servitori.

SANSONE: E’ tutt’uno, voglio farla da tiranno: dopo essermi battuto con gli uomini, sarò spietato con le vergini, toglierò loro l’età.

GREGORIO: L’età delle vergini?

SANSONE: Sì, l’età delle vergini, o la loro vergin… età. Via, prendilo nel senso che tu vuoi.

GREGORIO: Loro che lo sentiranno devono prenderlo nel vero senso.

SANSONE: Sentiranno me, finché avrò forza di star ritto: e via, si sa che io sono un discreto pezzo di ciccia.

GREGORIO: Buon per te che non sei pesce, altrimenti saresti stato un baccalà. Tira fuori il tuo arnese, ecco qualcuno di casa Montecchi.

 

(Entrano ABRAMO e BALDASSARRE)

 

SANSONE: La mia lama è fuori: attacca pure briga; io ti spalleggerò.

GREGORIO: In che modo? voltando le spalle e scappando?

SANSONE: Non aver paura di me.

GREGORIO: No, diamine! Io aver paura di te?

SANSONE: Teniamoci dalla parte della legge: lasciamo che siano i primi loro.

GREGORIO: Passando vicino a loro io aggrotterò le ciglia: se la prendano un po’ come vogliono.

SANSONE: No, come avranno il coraggio. Io li guarderò mordendomi il pollice; è un affronto, per loro, se se lo tengono.

ABRAMO: Messere, vi mordete il pollice per noi?

SANSONE: Io mi mordo il pollice, messere.

ABRAMO: Messere, vi mordete il pollice per noi?

SANSONE (a parte a Gregorio): La legge è dalla nostra, se dico di sì?

GREGORIO: No.

SANSONE: No, messere, non mi mordo il pollice per voi, ma io mi mordo il pollice, messere.

GREGORIO: Avete l’intenzione di attaccar briga, messere?

ABRAMO: Attaccar briga, messere! No, messere.

SANSONE: Se l’aveste, messere, sono a vostra disposizione: io servo un padrone che vale quanto il vostro.

ABRAMO: Ma non di più.

SANSONE: Ebbene, messere.

GREGORIO (a parte a Sansone): Digli che vale di più: ecco che viene un parente del padrone.

SANSONE: Sì, vale più del vostro, messere.

ABRAMO: Voi mentite.

 

(Entra BENVOLIO)

 

SANSONE: Fuori le spade, se siete uomini. Gregorio, ricordati della tua botta maestra. (Si battono)

BENVOLIO: Separatevi, insensati! Giù quelle spade, voi non sapete quello che fate. (Costringendoli ad abbassare le armi)

 

(Entra TEBALDO)

 

TEBALDO: Come, hai tirato fuori la spada in mezzo a questi vili servi?. Volgiti, Benvolio, e guarda in faccia la tua morte.

BENVOLIO: Io non fo che metter pace: riponi la tua spada, o impugnala per aiutarmi a separare costoro.

TEBALDO: Come! Hai la spada in mano, e parli di pace? Io odio questa parola come l’inferno, come te e tutti i Montecchi. A te, vigliacco.

 

(Si battono)

(Entrano parecchi Partigiani delle due famiglie, i quali prendono parte alla rissa, poi sopraggiungono dei Cittadini armati di mazze)

 

PRIMO CITTADINO: Delle mazze! Delle picche! Delle partigiane!

Picchiate! Accoppateli! Morte ai Capuleti! Morte ai Montecchi!

 

(Entrano il CAPULETI, in veste da camera, e MADONNA CAPULETI)

 

CAPULETI: Che cos’è questo baccano? Datemi il mio spadone, olà!

MADONNA CAPULETI: Una gruccia, una gruccia piuttosto. Che cosa volete farne della spada?

 

(Entrano il MONTECCHI e MADONNA MONTECCHI)

 

CAPULETI: La mia spada, dico! Il vecchio Montecchi è qua, e brandisce la sua spada per provocare me.

MONTECCHI: Miserabile Capuleti! – Non mi tenere! Lasciami andare.

MADONNA MONTECCHI: Tu non moverai un passo per andare incontro a un nemico.

 

(Entra il PRINCIPE col Seguito)

 

PRINCIPE: Sudditi ribelli, nemici della pace che profanate cotesta spada rossa di sangue cittadino… Ah! Non mi danno retta! Dico a voi, non uomini, ma belve, che volete spengere il fuoco del vostro cieco furore, facendo scorrere dalle vene vostre dei rivi vermigli di sangue! Pena la tortura, gettate dalle sanguinose mani il mal temprato ferro, ed ascoltate la sentenza del vostro sdegnato principe. E’ già la terza volta che voi, vecchio Capuleti, e voi, Montecchi, per una vana parola, turbate con le vostre risse la quiete delle nostre contrade, e costringete fino i vecchi di Verona a lasciare le vesti che alla loro età si convengono, e ad impugnare con la vecchia mano le vecchie partigiane arrugginite nella pace, per separare voi arrugginiti nell’odio. Se un’altra volta oserete turbare in questo modo le nostre contrade, vi farò pagare con la vita l’infrazione alla pace. Per oggi vada così. Via tutti di qua: voi, Capuleti, seguitemi, e voi Montecchi, stasera vi troverete al vecchio castello di Villafranca, dov’è il nostro tribunale ordinario, e là saprete la mia risoluzione in proposito. Via tutti di qua, ripeto, pena la morte.

 

(Escono il Principe e il suo Seguito, il Capuleti, Madonna Capuleti, Tebaldo, i Cittadini e i Servi)

 

MONTECCHI: Chi ha riacceso questa vecchia lite? Parlate, nipote mio, eravate qui quando è incominciata la rissa?

BENVOLIO: Prima che io mi fossi avvicinato, i servitori del vostro avversario si erano già acciuffati coi vostri. Io ho tirato fuori la spada per separarli: in quell’istante è sopraggiunto il focoso Tebaldo con la spada sguainata, e sussurrandomi agli orecchi parole di sfida, ha incominciato a rotarla intorno alla sua testa e a tagliare il vento, il quale senza essere ferito gli fischiava intorno beffandosi di lui. Mentre noi ci scambiavamo botte e colpi, venne più e più gente, e si misero a combattere parte contro parte, finché è giunto il principe, il quale ha spartito le due parti.

MADONNA MONTECCHI: O, dov’è Romeo? L’avete veduto oggi? Sono molto contenta che non sia trovato a questa rissa.

BENVOLIO: Madonna, un’ora prima che il divino sole si affacciasse al dorato balcone d’oriente, una momentanea tristezza mi spinse ad uscire di casa; e sotto il piccolo bosco di sicomori, che cresce a ponente della città, ho veduto il figlio vostro, il quale passeggiava così a buon’ora. Ho fatto per andargli incontro, ma egli si era già accorto della mia presenza, ed è scomparso nel folto del bosco. Io, misurando la sua tristezza dalla mia, la quale cercava di più i luoghi dove si potesse trovare meno gente, poiché mi pareva d’essere di troppo io stesso alla mia mesta persona, ho seguito il mio umore senza occuparmi del suo, e volentieri ho schivato chi volentieri mi sfuggiva.

MONTECCHI: Molte mattine è stato veduto là, che accresceva con le sue lacrime la fresca rugiada del mattino, che aggiungeva nubi alle nubi coi suoi profondi sospiri; ma non appena il sole, che tutto rallegra, comincia nelle più lontane plaghe d’oriente a tirare le fosche cortine del letto dell’Aurora, l’oppresso mio figlio, fuggendo la luce, corre a nascondersi in casa, si imprigiona nella sua camera, serra le finestre, chiude fuori la bella luce del giorno, e si fa una notte artificiale. Questo umor tetro gli sarà fatale, se qualche buon consiglio non riesce ad allontanarne la cagione.

BENVOLIO: Mio nobile zio, sapete quale sia la cagione?

MONTECCHI: Non lo so, né posso saperlo da lui.

BENVOLIO: Avete cercato di metterlo alle strette in qualche modo?

MONTECCHI: Ho provato io, hanno provato molti amici: ma egli non ha altro confidente delle sue pene che se medesimo (non dirò quanto fedele); ed è chiuso così impenetrabilmente in se stesso, e si lascia così difficilmente scandagliare e spiare, come il boccio di un fiore, morso da un infido verme prima di poter dischiudere all’aria i suoi dolci petali ed offrire al sole tutta la sua bellezza. Se si potesse sapere solamente donde hanno origine gli affanni suoi, saremmo altrettanto desiderosi di guarirli quanto di conoscerli (Entra ROMEO, in distanza)

BENVOLIO: Guardate, eccolo qui che viene: se non vi dispiace, ritiratevi in disparte, io saprò ciò che l’addolora, o egli dovrà dirmi di no più di una volta.

MONTECCHI: Ti auguro di essere così fortunato, restando qui, da sentire una sincera confessione. Venite, madonna, andiamo.

 

(Escono)

 

BENVOLIO: Buon mattino, cugino mio.

ROMEO: E’ ancora così presto?

BENVOLIO: Son sonate le nove solo da poco.

ROMEO: Ohimè! le ore tristi sembrano eterne. Era mio padre quello che se n’è andato di qua cosi in fretta?

BENVOLIO: Sì, era lui. Quale afflizione fa così lunghe le ore di Romeo?

ROMEO: Non aver quello il cui possesso le renderebbe brevi.

BENVOLIO: Sei innamorato?

ROMEO: Non sono…

BENVOLIO: Non sei innamorato?

ROMEO: Non sono nelle grazie di colei che amo.

BENVOLIO: Ohimè, perché amore, il quale ha un aspetto così gentile, deve essere, alla prova, così tiranno e villano!

ROMEO: Ohimè, perché amore, il quale è sempre bendato, deve vedere, senza gli occhi, i sentieri che menano al suo desiderio! Dove pranzeremo? Povero me! Che rissa c’è stata qui? Ma no, non importa che tu me lo dica, perché ho saputo tutto. Qui c’è un gran da fare con l’odio, ma più ancora con l’amore. O amore rissoso! O odio amoroso! O tutto creato dal nulla! O grave leggerezza! O vanità seria! Informe caos di leggiadre forme! Piuma di piombo! Raggiante fumo! Gelido fuoco! Inferma salute! Vigile sonno che non è ciò che è! Questo è l’amore che io sento, senza sentire amore in tutto questo! E tu non ridi?

BENVOLIO: No, cugino, io piango, piuttosto.

ROMEO: Cuore gentile, perché?

BENVOLIO: Perché il tuo cuore gentile è oppresso.

ROMEO: Ebbene, è questa l’inumana legge dell’amore. Le mie pene mi gravano il petto abbastanza; tu le farai traboccare aggiungendovi il peso delle tue: poiché questo affetto che mi dimostri non fa che aggiungere nuovo dolore al mio già troppo grande. L’amore è una nebbia formata col vapore dei sospiri: se la nebbia si dissipa, l’amore è un fuoco che sfavilla negli occhi degli amanti; se vien travagliato, l’amore si risolve in un mare alimentato dalle lacrime degli amanti.

Che cos’altro è l’amore, se non una pazzia molto discreta, una amarezza che soffoca, e una dolcezza che fa bene? Addio, cugino.

 

(Andandosene)

 

BENVOLIO: Adagio! Ti accompagno: se mi lasci così, mi fai un torto.

ROMEO: Toh! mi sono smarrito: io non sono mica qui. Questo non è Romeo, Romeo è altrove.

BENVOLIO: Dimmi con serietà chi è colei che ami.

ROMEO: Come con serietà! Devo mettermi a gemere per dirtelo?

BENVOLIO: Gemere! ecco, no; ma dimmi con serietà chi è.

ROMEO: Di’ a un ammalato di fare con serietà il suo testamento: oh, male rivolta parola ad uno che sta così male! In serietà cugino, io amo una donna.

BENVOLIO: Coglievo presso a poco nel segno, quando pensavo che tu fossi innamorato.

ROMEO: Sei un abilissimo tiratore! E colei che io amo è bella.

BENVOLIO: Un bel bersaglio è presto colpito, cugino bello.

ROMEO: Ebbene, questa volta il tuo colpo fallisce: lo strale di Cupido non può colpirla; essa ha il senno di Diana, e ben chiusa, com’è, in una forte corazza di castità, vive al sicuro dall’innocuo e infantile arco d’Amore. Ella fugge l’assedio delle dolci parole, schiva l’incontro degli occhi che tentano di darle l’assalto, e non apre il suo grembo neppure all’oro, che seduce anche i santi: oh! ella è ricca di bellezza ed è povera solo in questo, che quando morirà, moriranno insieme con la sua bellezza anche le sue ricchezze.

BENVOLIO: Dunque ha fatto voto di castità.

ROMEO: L’ha fatto, e con questa economia fa uno sperpero immane:

poiché la bellezza, privata dalla sua austerità del nutrimento d’amore, perirà defraudando i posteri di ogni bellezza. Essa è troppo bella, troppo savia, troppo saviamente bella, per guadagnarsi la beatitudine celeste facendo disperare me; ha fatto voto di non amare e quel voto lasciandomi vivere uccide me che vivo per dirti ora questo.

BENVOLIO: Segui il mio consiglio, cessa di pensare a lei.

ROMEO: Oh! insegnami come posso cessar di pensare.

BENVOLIO: Rendendo la libertà agli occhi tuoi: contempla altre bellezze.

ROMEO: Sarebbe il mezzo di occuparsi sempre più di quella sua, che è squisita. Le fortunate maschere che baciano le fronti delle belle donne, col loro color nero ci richiamano sempre più alla mente la preclara bellezza ch’esse nascondono: chi è colpito da cecità non può dimenticare il prezioso tesoro della vista perduta. Mostrami una donna di straordinaria bellezza: che cosa sarà per me questa sua bellezza, se non una pagina, dove io leggerò il nome di colei che è ancora più straordinariamente bella? Addio; tu non puoi insegnarmi a dimenticare.

BENVOLIO: Io ti insegnerò questo segreto, o morirò con un debito sulla coscienza.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA – Una strada

(Entrano il vecchio CAPULETI, PARIDE, e un Servo)

 

CAPULETI: Ma il Montecchi è vincolato come me, ed alla stessa pena; del resto io credo che per due vecchi come noi non sarà difficile mantenere la pace.

PARIDE: Siete tutti e due persone ragguardevoli; ed è doloroso che siate vissuti in discordia per così lungo tempo. Ma ditemi ora, signor mio, che cosa avete da rispondere alla mia domanda?

CAPULETI: Non posso fare altro che ripetervi quello che vi ho già detto prima: mia figlia è ancora inesperta del mondo; non ha compiuto quattordici anni: prima che noi possiamo giudicarla matura per le nozze, lasciamo ancora due estati appassire nel loro rigoglio.

PARIDE: Giovinette che hanno meno di lei sono già madri felici.

CAPULETI: Sì, ma quelle che vanno a marito così presto perdono troppo presto la freschezza. La terra ha inghiottito tutte le mie speranze, e non mi ha lasciato che lei, in lei è riposta ogni mia speranza sulla terra. Intanto corteggiatela, gentile Paride, conquistate il suo cuore: la mia volontà non è che accessoria al suo consenso. Se essa è contenta di sposarvi, la sua scelta sarà per voi, nello stesso tempo, il mio consenso e la dolce parola che ve lo accorda. Stasera in casa mia c’è la festa che io sono solito dare per antica consuetudine, alla quale ho invitato molti amici che mi son cari : voi sarete fra questi, ed accrescerete il numero dei miei invitati, di uno che sarà graditissimo. Nella mia povera casa potrete contemplare gli astri terreni che rendono luminoso il cielo notturno. In mezzo ai freschi bocci di rosa femminile che troverete in casa mia stasera vi sarà concesso di godere quel diletto medesimo, che provano i baldi giovani, allorché l’aprile dalla bell’assisa è alle calcagna dell’inverno zoppicante. Parlate con tutte, guardate tutte, e amate quella che per merito vi parrà superiore alle altre: alla maggior vista della quale molte altre – e tra esse mia figlia – potranno contare per far numero, ma nessuna sarà tenuta da conto. Andiamo, venite con me. (Al Servo) Tu giovanotto, va’, percorri le vie della bella Verona, cerca le persone il nome delle quali è scritto qui, (dandogli un foglio) e di’ loro che la mia casa e la mia buona accoglienza sono a loro disposizione.

 

(Escono il vecchio Capuleti e Paride)

 

SERVO: “Cerca le persone il nome delle quali è scritto qui”? E’ scritto che il calzolaio debba maneggiare il metro, il sarto la forma delle scarpe, il pescatore il pennello, e il pittore le reti: io, invece, sono mandato a cercare le persone, il nome delle quali è scritto in questo foglio, mentre non sarò mai buono a leggere che nomi vi abbia scritto chi l’ha scritto. Bisogna che mi rivolga a qualche persona istruita. Alla buon’ora!

 

(Entrano BENVOLIO e ROMEO)

 

BENVOLIO: Via, amico mio, un fuoco con le sue fiamme consuma l’altro, un dolore è attenuato dall’angoscia in cui ci mette un altro; quando a girare in un senso ti prende il capogiro, ti passa girando nel senso contrario; una disperazione si cura col languore d’un’altra; fa’ bere al tuo occhio avvelenato dall’amore un nuovo veleno e sarà distrutta l’azione inveterata di quello antico.

ROMEO: La foglia di piantaggine è un ottimo rimedio per questo.

BENVOLIO: Per che cosa, ti prego?

ROMEO: Per accomodarti uno stinco se l’hai rotto.

BENVOLIO: Via, Romeo, sei pazzo?

ROMEO: Non sono pazzo, eppur legato peggio di un pazzo, chiuso in prigione, tenuto senza mangiare, frustato, torturato! e… [al Servo] Buon giorno, ragazzo mio.

SERVO: Che Dio lo dia buono a voi. Scusate, signore, sapete leggere?

ROMEO: Sì, la mia sorte nella mia infelicità.

SERVO: Forse non avrete avuto bisogno di libri per conoscerla: ma, vi prego, sapete leggere qualunque cosa vedete?

ROMEO: Sì, se si tratta di un alfabeto e di una lingua che io conosco.

SERVO: Dite bene: state allegro!

ROMEO: Fermati, giovanotto; so leggere. (Legge) “Il signor Martino con la moglie e le figlie; il conte Anselmo e le sue belle sorelle; la signora vedova di Vitruvio; il signor Piacenzo con le sue amabili nipoti; Mercuzio e suo fratello Valentino; mio zio Capuleti con la moglie e le figlie; la mia bella nipote Rosalina; Livia; il signor Valente e suo cugino Tebaldo; Lucio e la vivace Elena”. Una bella comitiva: e dove debbono andare?

SERVO: Su.

ROMEO: Dove? a cena?

SERVO: In casa nostra.

ROMEO: In casa di chi?

SERVO: Del mio padrone.

ROMEO: E’ vero, avrei dovuto incominciare a domandarti questo.

SERVO: Ve lo dirò ora senza che me lo domandiate: il mio padrone è il nobile e ricco signor Capuleti; e se non siete uno di casa Montecchi, vi prego, venite a trincare un bicchiere di vino. State allegro!

(Esce)

 

BENVOLIO: A questa stessa festa che i Capuleti danno per antica consuetudine, va a cenare, con tutte le bellezze più ammirate di Verona, anche la bella Rosalina della quale tu sei così innamorato:

recati là, e con occhio imparziale paragona il suo viso a quello di qualche altra fanciulla che io ti mostrerò, e ti farò convenire che il tuo cigno è un corvo.

ROMEO: Se la devota religione del mio occhio proclamasse una simile falsità, le mie lacrime si convertano in fiamme! E questi eretici trasparenti, che tante volte annegati nel pianto non poterono mai morire, siano abbruciati come impostori! Un’altra più bella dell’amor mio! Il sole che tutto vede, non ha veduto mai la sua eguale da che il mondo ebbe principio.

BENVOLIO: Sfido! Ti par bella perché non l’hai vista in mezzo ad altre, e perché nelle due bilance degli occhi tuoi essa è stata pesata sempre da sé sola. Ma metti, in coteste bilance di cristallo, da una parte l’amor tuo, e dall’altra qualcuna delle fanciulle che ti farò veder brillare alla festa, e ti parrà appena mediocre, colei che ora ti sembra la più bella.

ROMEO: Vi andrò, non perché mi sia mostrata la bellezza che tu vanti, ma per bearmi nello splendore della fanciulla mia.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA – Una stanza in casa Capuleti

(Entrano MADONNA CAPULETI e la NUTRICE)

 

MADONNA CAPULETI: Nutrice, dov’è mia figlia? Chiamala, che venga qui.

NUTRICE: Eppure, le avevo già detto di venir qua, com’è vero che a dodici anni ero vergine! Ebbene, agnellina mia! Ebbene pecorella della Madonna! Dio non voglia! Dov’è questa benedetta bambina? Ebbene Giulietta!

 

(Entra GIULIETTA)

 

GIULIETTA: Che c’è? Chi mi chiama?

NUTRICE: Vostra madre.

GIULIETTA: Eccomi, signora, che cosa volete?

MADONNA CAPULETI: Ecco di che cosa si tratta: nutrice, lasciaci per un momento, dobbiamo parlare in segreto… Torna pure qua, nutrice, ora che ci ripenso è bene che tu sia presente al nostro colloquio. Tu sai che mia figlia ha ormai una certa età?

NUTRICE: In fede mia, potrei dirvi la sua età senza sbagliare di un’ora.

MADONNA CAPULETI: Non ha ancora quattordici anni.

NUTRICE: Ci scommetterei quattordici dei miei denti – e tuttavia, dici con gran dolore, non ne ho che quattro – che essa non li ha ancora quattordici anni. Quanto c’è di qui al primo agosto?

MADONNA CAPULETI: Una quindicina di giorni, o poco più.

NUTRICE: Sia più, sia meno, quando di tutti i giorni dell’anno verrà il primo di agosto, la notte di quel giorno essa avrà quattordici anni. Susanna e lei (Dio riposi in pace tutte le anime cristiane!) erano della stessa età: bene, Susanna è con Dio; era troppo buona per me… ma, come dicevo, la notte del primo agosto essa avrà quattordici anni, li avrà, in fede mia: me ne ricordo bene. Sono ormai passati undici anni dal giorno di quel famoso terremoto; e lei fu divezzata (non lo dimenticherò mai) proprio in quel giorno: perché io allora mi ero messa dell’assenzio al capezzolo, e stavo al sole, appoggiata al muro sotto la colombaia; il padrone e voi eravate allora a Mantova…

eh! io ho un cervello che mi serve: ma, come dicevo, quando assaporò l’assenzio che era al capezzolo della poppa, e lo sentì amaro, bisognava vederla la pazzerella, che bizza, e come se la prese con la poppa! Moviti, fece a un tratto la colombaia: vi assicuro che non ci fu bisogno che qualcuno mi dicesse di scappare. E da allora sono passati undici anni, perché essa stava già ritta da sé; non solo, per la croce, ma correva e zampettava da per tutto, tant’è vero che il giorno prima s’era fatta un corno sulla fronte; e allora mio marito (Dio salvi l’anima sua! era un uomo allegro) rizzò la bambina e disse:

“Come, caschi bocconi? Quando sarai più furba, imparerai a cascare supina, non è vero, Giulietta?”. E, per la Madonna, quella birichina smise di piangere, e disse: “Sì”. Guardate un po’ come uno scherzo, alle volte, riesce a proposito! Garantisco che se vivessi mille anni, non dimenticherò mai quella scena. “Non è vero, Giulietta?” fece lui, e la pazzerella smise di piangere e disse: “Sì”.

MADONNA CAPULETI: Basta; ti prego, sta’ zitta.

NUTRICE: Sì, signora. Ma non posso tenermi dal ridere quando penso che s’ebbe a chetare per dire “sì”: e tuttavia, garantisco, aveva sulla fronte un nocciolo grosso come il fagiolo di un galletto; era stato un colpo tremendo, e piangeva dirottamente. “Come – fece mio marito – tu caschi bocconi? Quando sarai più grande, imparerai a cascare supina, non è vero, Giulietta?”. Lei si chetò, e disse: “Sì”.

GIULIETTA: E chetati anche tu, fammi il piacere, nutrice, dico io.

NUTRICE: Un po’ di pazienza, ho finito. Iddio ti abbia nella sua grazia! Tu sei stata la più graziosa bambina che io abbia mai allattato: se potrò vivere fino a vederti un giorno maritata, non avrò altro a desiderare.

MADONNA CAPULETI: Santa Maria! Questa del maritarla è appunto la cosa di cui io voglio parlare. Dimmi, Giulietta mia, che cosa ne pensi? Sei disposta a maritarti?

GIULIETTA: E’ un onore che io non sogno nemmeno.

NUTRICE: Un onore? Se non ti avessi allattata io sola, direi che tu insieme col latte hai succhiato dalla poppa il giudizio.

MADONNA CAPULETI: Ebbene, è ora che tu pensi a maritarti; qui a Verona ci sono delle più giovani di te, signore molto stimate, già divenute madri. Se non mi sbaglio nel conto, io stessa all’età in cui tu sei ancora fanciulla, ero già tua madre. Ecco, in una parola, di che cosa si tratta: il nobile Paride ti chiede in isposa.

NUTRICE: Un uomo, signorina! un uomo, signorina, che tutto il mondo…

Insomma, è un uomo fatto in cera!

MADONNA CAPULETI: L’estate di Verona non ha un fiore così bello.

NUTRICE: Già, è un fiore, davvero, è proprio un bel fiore.

MADONNA CAPULETI: Che ne dici? Senti di poter amare quel gentiluomo?

Questa sera lo vedrai alla nostra festa: leggi sul volume della faccia del giovine Paride, e trova la delizia che in esso ha scritto la penna della bellezza; esamina tutti i suoi lineamenti insiem sposati e osserva come l’uno faccia felice l’altro; se qualche cosa c’è di oscuro in quel bel volume, cercane un commento nel margine degli occhi suoi. Questo prezioso libro d’amore, questo amante non legato, non ha bisogno che di una coperta per diventare ancora più bello: il pesce vive nel mare, ed è un gran vanto, per il bello esteriore, nascondere il bello interiore. Agli occhi di molti, solamente quel libro ha una parte della gloria, il quale racchiuda la sua dorata storia in fermagli d’oro. Così tu, facendolo tuo, parteciperai di tutto ciò che egli possiede, senza diminuire in niente te stessa.

NUTRICE: Che diminuire! anzi si farà più grossa: le donne ingrossano per via degli uomini.

MADONNA CAPULETI: Dillo francamente, senti di potere corrispondere all’amore di Paride?

GIULIETTA: Vedrò di aggradirlo, se il vedere provochi il gradimento:

ma gli occhi miei non lanceranno i loro sguardi più in là di quanto il vostro permesso dia loro forza di volare.

 

(Entra un Servo)

 

SERVO: Signora, gli invitati son giunti, la cena è servita, tutti chiedono di voi, domandano della signorina, giù in dispensa bestemmiano contro la nutrice, e tutto va a rotta di collo! Io devo andare a servire a tavola, vi prego, venite subito.

MADONNA CAPULETI: Eccoci, vi seguiamo. Giulietta, il conte attende.

NUTRICE: Va’, fanciulla, e procura ai tuoi giorni felici delle felici notti.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUARTA – Una strada

(Entrano ROMEO, MERCUZIO e BENVOLIO, insieme con cinque o sei Maschere, Portatori di fiaccole, ed altri. ROMEO è mascherato da pellegrino)

 

ROMEO: Dunque questo discorso per scusarci si fa, o entriamo senza tante scuse?

BENVOLIO: Il tempo di queste lungaggini è finito. Non vogliamo con noi nessun Cupido bendato con la sciarpa, e con l’arco alla tartara di legno tinto, che spaventi le signore come uno spauracchio; non vogliamo fare la nostra entrata col solito prologo detto a memoria, borbottando dietro il suggeritore. Ci giudichino pure con la misura che vogliono: noi misureremo loro una misura di danza, e ce ne anderemo.

ROMEO: Datemi una fiaccola, io non me la sento di ballare: essendo cupo, porterò la luce.

MERCUZIO: Invece, caro Romeo, noi vogliamo che tu balli.

ROMEO: Io no, credetelo. Voi avete scarpine da ballo con suolo leggero: io invece ho l’anima di piombo, che m’inchioda al suolo in modo da non lasciarmi muovere.

MERCUZIO: Tu sei innamorato: fatti prestare le ali da Cupido, e per mezzo di esse librati a volo al di sopra delle tue pene.

ROMEO: Il suo dardo mi ha ferito troppo crudelmente, perché io possa levarmi a volo con le sue lievi penne; e, avvinto come sono nei suoi lacci, non posso vincer d’un salto la triste sommità del dolore: sotto il grave peso dell’amore, io sprofondo.

MERCUZIO: E tu, per sprofondarvi dentro, dovresti gravar d’un peso l’amore; è un’oppressione troppo grande per una creatura delicata.

ROMEO: Amore è delicato? E’ troppo rozzo invece, troppo aspro, troppo violento; e punge come una spina.

MERCUZIO: Se amore è rozzo con te, tu sii rozzo con lui: rendi ad amore puntura per puntura, e lo vincerai. Datemi un astuccio per riporci il viso: (mettendosi una maschera) una maschera per un mascherone! Ed ora che m’importa se un occhio indiscreto noti le mie bruttezze? C’è questo brutto ceffo che arrossirà per me.

BENVOLIO: Via, bussiamo ed entriamo, e appena dentro, ognuno di noi si raccomandi alle sue gambe.

ROMEO: A me una fiaccola: chi è allegro ed ha il cuore leggero, accarezzi coi piedi le insensibili stoie, per me c’è l’adagio del nonno: “io reggo il candeliere, e me ne sto a vedere”. Il giuoco non è mai stato così bello, e la mia ora così grigia.

MERCUZIO: Bah ! Di notte tutte le gatte son grigie, come dice l’ufficiale di ronda; e se tu sei così greggio, cercheremo noi di tirarti fuori dal fango, o (con buon rispetto) da cotesto amore, nel quale sei impegolato fino agli orecchi. Andiamo, se no finiremo per far lume al giorno, eh!

ROMEO: No, non è così.

BENVOLIO: Voglio dire, signor mio, che se ci traccheggiamo in questo modo, i nostri lumi saranno sprecati, come lampade accese di giorno.

Tu devi prendere le nostre parole nel significato buono che è nella nostra intenzione, poiché il nostro senno risiede cinque volte nella nostra intenzione, prima che una sola volta nei nostri cinque sensi.

ROMEO: Infatti noi abbiamo una buona intenzione recandoci a questa mascherata; ma l’andarci non è buon senno.

MERCUZIO: Perché, se è lecito domandarlo?

ROMEO: Stanotte ho fatto un sogno.

MERCUZIO: Anch’io.

ROMEO: Ebbene, che cosa hai sognato?

MERCUZIO: Che coloro i quali sognano, spesso sono messi in mezzo…

ROMEO: In mezzo alle coltri, e sognano delle cose vere.

MERCUZIO: Ah! Allora, lo vedo, la regina Mab è venuta a trovarti. Essa è la levatrice delle fate, e viene, in forma non più grossa di un agata all’indice di un anziano, tirata da un equipaggio di piccoli atomi, sul naso degli uomini, mentre giacciono addormentati. I raggi delle ruote del suo carro son fatti di lunghe zampe di ragno; il mantice di ali di cavallette, le tirelle del più sottile ragnatelo; i pettorali di umidi raggi di luna, il manico della frusta di un osso di grillo, la sferza di un filamento impercettibile; il cocchiere è un moscerino in livrea grigia, grosso neppure quanto la metà del piccolo insetto tondo, tratto fuori con uno spillo dal pigro dito di una fanciulla. Il suo cocchio è un guscio di nocciola, lavorato dal falegname scoiattolo o dal vecchio verme, da tempo immemorabile carrozzieri delle fate. In questo arnese essa galoppa da una notte all’altra attraverso i cervelli degli amanti, e allora essi sognan d’amore; sulle ginocchia dei cortigiani, che immediatamente sognan riverenze; sulle dita dei legulei, che subito sognano onorari, sulle labbra delle dame che immantinente sognano baci, su quelle labbra che Mab adirata spesso affligge di vescicole perché il loro fiato è guasto da confetture; talvolta essa galoppa sul naso di un sollecitatore, e allora, in sogno, egli sente l’odore d’una supplica, talora va, con la coda di un porcellino della decima, a solleticare il naso di un parroco mentre giace addormentato, e allora egli sogna un altro benefizio; talora ella passa in carrozza sul collo di un soldato, e allora egli sogna di tagliare gole nemiche, sogna brecce, agguati, lame spagnole, e trincate profonde cinque tese; poi, all’improvviso, essa gli suona il tamburo nell’orecchio, al che egli si desta di soprassalto, e spaventato bestemmia una preghiera o due, e si riaddormenta. Questa Mab è proprio quella stessa che nella notte intreccia le criniere dei cavalli, e nei loro crini sozzi ed unti fa dei nodi fatali, che una volta strigati pronosticano molte sciagure.

Lei è la strega, che quando le fanciulle giacciono supine, le preme, e insegna loro per la prima volta a portare, e ne fa delle donne di buon portamento. Essa è colei…

ROMEO: Taci, taci, Mercuzio, taci! tu parli di niente.

MERCUZIO: E’ vero, io parlo dei sogni, che sono figli di un cervello ozioso, generati da nient’altro che da una vana fantasia, la quale è di una sostanza sottile come l’aria, e più incostante del vento, che in questo momento carezza il gelido grembo del settentrione, e, corrucciato, se ne va via sbuffando, e volta la faccia verso il mezzogiorno stillante di rugiada.

BENVOLIO: Questo vento del quale tu parli, ci soffia fuori di noi stessi: a quest’ora la cena è finita, ed arriveremo troppo tardi.

ROMEO: Troppo presto, io temo: poiché l’anima mia presente che qualche triste effetto, ancora sospeso nelle stelle, avrà dolorosamente il suo terribile principio nella festa di questa notte, con qualche crudele sentenza di morte immatura. Ma colui che è il pilota della mia rotta, diriga la mia vela! Andiamo, allegri giovani.

BENVOLIO: Suona, tamburo.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUINTA – Una sala in casa Capuleti

(Sonatori che aspettano. Entrano alcuni Servi)

 

PRIMO SERVO: Dov’è Pignatta, che non ci aiuta a sparecchiare? Lui cambiare un tagliere? Lui strofinare un tagliere? Oh sì!

SECONDO SERVO: Quando la pulizia deve dipendere tutta dalle mani di una o due persone, che per giunta non se le sono lavate, l’affare è poco pulito.

PRIMO SERVO: Via gli sgabelli, tira da una parte la credenza, e attento all’argenteria. A te, amico, serbami un boccone di quel marzapane; e se mi vuoi bene, di’ al portiere che lasci entrare Susanna Lamàcina e Nora. Antonio! Pignatta!

TERZO SERVO: Eccolo, compare, pronti!

PRIMO SERVO: Siete cercato, chiamato, desiderato, e domandato nel salone.

TERZO SERVO: Non si può mica essere qui e là nello stesso tempo.

Svelti, ragazzi: e chi più campa pigli tutto. (Si ritirano)

 

(Entrano il CAPULETI, con GIULIETTA ed altri di casa, e si fanno incontro ai Convitati e alle Maschere)

 

CAPULETI: Benvenuti, signori! Le dame che non soffrono di calli ai piedi, desiderano di fare un giro con voi. Ah, ah, signore mie! Chi di voi tutte, ora, rifiuterà di ballare? Colei che fa la ritrosa, ha qualche callo, ve lo giuro, v’ho servito bene questa volta? Benvenuti signori! Ho visto anch’io il tempo in cui mi mettevo una maschera e sussurravo all’orecchio di qualche bella una storia che le piacesse:

ormai è passato, è passato, è passato… voi siete i benvenuti, signori! Andiamo, sonatori, un po’ di musica. (La musica suona, e incomincia il ballo) Largo, largo! fate posto! E voi, ragazze, saltate. Degli altri lumi, giovanotti; ripiegate quelle tavole, e spengete il fuoco, la stanza si è riscaldata troppo. Ah, bravo questa festa improvvisata riesce proprio bene. Via, via, sedete, mio buon cugino Capuleti, per voi e per me è finito il tempo di ballare: quanti anni sono ormai passati, da che noi due ci trovammo insieme ad una mascherata?

SECONDO CAPULETI: Per la Madonna, sono trent’anni.

CAPULETI: Come, amico mio! Non è tanto, non è tanto: è dalle nozze di Lucenzio. Venga pure presto quanto vuole, la Pentecoste, noi ci mascherammo in quella occasione, e sono ormai un venticinque anni.

SECONDO CAPULETI: E’ di più, è di più: suo figlio ha di più ha trent’anni.

CAPULETI: Che cosa mi dite? Suo figlio due anni fa era ancora sotto tutela.

ROMEO: Chi è quella dama che, col tesoro della sua mano, arricchisce la mano di quel cavaliere là ?

SERVO: Non lo so, signore.

ROMEO: Oh, essa insegna alle fiaccole a brillare! Sembra che essa penda sulle guance della notte, come un ricco gioiello dall’orecchio di una Etiope; bellezza di un valore troppo grande perché se ne possa usare, troppo preziosa per la terra! Tale appare una nivea colomba in mezzo a un branco di corvi, quale si mostra quella giovinetta in mezzo alle sue compagne. Finito questo ballo, spierò dove si mette, e procurerò alla mia rozza mano la felicità di toccare la sua. Il mio cuore ha egli amato prima d’ora? Smentitelo, occhi miei! poiché io non avevo mai veduta, fino a questa notte, la vera bellezza.

TEBALDO: Costui, dalla voce, dovrebbe essere un Montecchi. Cercami la mia spada ragazzo. Come! Il marrano osa venir qui, sotto una maschera grottesca, a ridersi e a farsi beffe della nostra festa? Ebbene, per la nobiltà della mia stirpe e per l’onore del mio sangue, freddarlo con un colpo credo che non sia peccato.

CAPULETI: Che c’è, nipote mio? Perché sei così furibondo?

TEBALDO: Zio, costui è un Montecchi, un nostro nemico, un miserabile che è venuto qui a dispetto nostro, a farsi beffe della nostra festa di stasera.

CAPULETI: E il giovine Romeo?

TEBALDO: E lui, quel ribaldo di Romeo.

CAPULETI: Calmati, gentile nipote, e lascialo in pace: egli si comporta con la dignità di un gentiluomo; e, per dire la verità, Verona vanta in lui un giovane virtuoso e bene educato: né io permetterei, per tutte le ricchezze di questa città, che gli fosse fatto un torto qui in casa mia. Perciò abbi pazienza, non ti occupare di lui: voglio così, e se rispetti la mia volontà, mostrati di buon umore, e lascia andare cotesto cipiglio, che non è al suo posto in una festa.

TEBALDO: E’ al suo posto, quando fra gli ospiti vi è un ribaldo come lui: non lo sopporterò qui.

CAPULETI: Sarà sopportato: ebbene, mio bel ragazzo! Ti dico che egli sarà sopportato: andiamo! Chi è qui il padron di casa, io o tu?

andiamo! Non lo sopporterai! Dio protegga l’anima mia! tu vuoi fare uno scandalo fra i miei invitati! Vorresti dar la stura alle passioni!

Pretenderesti di fare una bravata!

TEBALDO:. Ma questa è una vergogna, zio.

CAPULETI: Via, via; sei un arrogante… ma davvero? Questo scherzo ti potrebbe costare caro, so io quel che mi dico. Vorresti metterti a tu per tu con me! In fede mia, è proprio questo il momento! Bene! Bravi ragazzi! Sei un presuntuoso; andiamo, basta, altrimenti… Degli altri lumi degli altri lumi! E’ una vergogna: te la farò finire io! Su, un po’ di allegria, ragazzi miei!

TEBALDO: La pazienza costretta, incontrandosi con la collera irrefrenabile, mi fa tremar la carne addosso per il contrasto della loro opposta natura. Me ne anderò: ma questa intrusione di Romeo, la quale ora sembra una cosa dolce, si convertirà in amaro fiele.

 

(Esce)

 

ROMEO (a Giulietta): Se io profano con la mia mano indegna questa sacra reliquia (è questo il peccato dei pii), le mie labbra, arrossenti pellegrini, sono pronte a render più molle, con un tenero bacio, il ruvido tocco.

GIULIETTA: Buon pellegrino, voi fate troppo torto alla vostra mano, che ha mostrato in ciò la devozione che si conviene: poiché i santi stessi hanno mani, che le mani dei pellegrini possono toccare, e il giunger palma a palma è il bacio dei pii palmieri.

ROMEO: I santi non hanno essi labbra, ed i pii palmieri anche?

GIULIETTA: Sì, o pellegrino, labbra che essi debbono usare nella preghiera.

ROMEO: Oh! allora, cara santa, lascia che le labbra facciano ciò che fanno le mani; esse ti pregano, tu le esaudisci, per timore che la fede non si cambi in disperazione.

GIULIETTA: I santi non si muovono, ancorché esaudiscano le altrui preghiere.

ROMEO: Allora non muoverti, intanto che io raccolgo il frutto della mia preghiera. Ecco, le tue labbra hanno purgato le mie del loro peccato. (La bacia)

GIULIETTA: Allora è rimasto sulle mie labbra il peccato che esse hanno tolto alle vostre.

ROMEO: Il peccato dalle mie labbra? O colpa dolcemente rimproverata!

Rendimi dunque il mio peccato.

GIULIETTA: Voi baciate con tutte le regole.

NUTRICE: Signora, vostra madre ha bisogno di dirvi una parola.

ROMEO: Chi è sua madre?

NUTRICE: Diamine, giovinotto, sua madre è la padrona di questa casa, ed una signora buona, saggia e virtuosa: sua figlia, colei con la quale avete parlato fino ad ora, l’ho allattata io, e vi so dire che chi potrà portarsela via, li avrà sonanti uno su l’altro.

ROMEO: Essa è una Capuleti! Oh il caro prezzo, che io dovrò pagare! La mia vita è un debito che io ho con la mia nemica!

BENVOLIO: Via, andiamocene, ormai abbiamo visto il più bello della festa.

ROMEO: Sì, ho paura che sia proprio così; più stiamo e peggio è per la mia pace.

CAPULETI: No, signori, non vi preparate per andarvene: c’è pronta una modesta cenetta. Volete proprio andare? Ebbene, allora io vi ringrazio tutti; grazie, miei buoni signori, buona notte. Delle altre fiaccole qua! Su, andiamocene a letto. Oh, amico, si fa tardi davvero; io vado a riposare.

 

(Escono tutti, tranne Giulietta e la Nutrice)

 

GIULIETTA: Nutrice, vieni qui: chi è quel signore là?

NUTRICE: E’ il figlio e l’erede del vecchio Tiberio.

GIULIETTA: E l’altro che esce ora dalla porta?

NUTRICE: Diamine, quello credo sia il giovine Petruccio.

GIULIETTA: E quell’altro signore dietro a lui, che non ha voluto ballare?

NUTRICE: Non lo so.

GIULIETTA: Va’, domandagli come si chiama: se egli è ammogliato, la tomba sarà probabilmente il mio letto nuziale.

NUTRICE: Si chiama Romeo, ed è un Montecchi, l’unico figlio del vostro grande nemico.

GIULIETTA: Il mio unico amore nato dal mio unico odio! O sconosciuto che troppo presto io vidi, e troppo tardi conobbi! Oh, nascita d’amor tra le più rare, che un nemico esecrato io debba amare.

NUTRICE: Che c’è! che cosa dite?

GIULIETTA: Sono dei versi che ho imparato poco fa, da uno che ballava con me.

 

(Voce di dentro: “Giulietta!”)

 

NUTRICE: Subito, eccoci! Via, andiamo, gli invitati se ne sono andati tutti.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO SECONDO

 

PROLOGO

(Entra il Coro)

 

CORO: L’antica passione giace ormai sul suo letto di morte, e un nuovo affetto aspira ad esserne l’erede; la bella per causa della quale l’amante si disperava e desiderava di morire, ora, vicino alla gentil Giulietta, non è più bella. Ora Romeo è amato ed ama a sua volta.

Tutti e due gli amanti ora sono incantati dal fascino degli sguardi, ma egli deve sospirare per la sua pretesa nemica, lei deve rubare la dolce esca dell’amore alla punta di terribili ami: essendo considerato come un nemico, egli non può avvicinarla per sussurrarle i voti che gli amanti giurano alle belle; ed essa, innamorata quanto lui, ha anche meno mezzi di trovarsi in qualche luogo col suo novello amante.

Ma la passione presta loro la forza, il tempo offre a tutti e due i mezzi per potersi vedere, mitigando le loro estreme pene con estreme dolcezze. (il Coro esce)

 

 

 

SCENA PRIMA – Una viuzza presso il giardino dei Capuleti

(Entra ROMEO)

 

ROMEO: Posso io andare innanzi quando il mio cuore è là? Torna indietro, o inanimata argilla del mio corpo, e ritrova il tuo centro.

 

(Sale sul muro, e salta in giardino)

(Entrano BENVOLIO e MERCUZIO)

 

BENVOLIO: Romeo! Cugino Romeo! Romeo!

MERCUZIO: Ha giudizio: e, per la vita mia, scommetto che è scappato di nascosto a casa per andarsene a letto.

BENVOLIO: Correva per questa strada, e poi ha scavalcato il muro di questo giardino. Chiamalo, mio buon Mercuzio.

MERCUZIO: Anzi, lo evocherò addirittura. Romeo! Stravagante! Pazzo!

Innamorato furibondo! Apparisci sotto la forma di un sospiro! Rispondi con un verso, e sarò pago! Grida un semplice: ahimè! Pronunzia soltanto una rima: bella e tortorella. Di’ una parola amabile all’indirizzo della mia comare Venere, trova un soprannome per il cieco suo figlio ed erede, per il giovinetto Adamo Cupido, che scoccò la sua freccia così bene, quando il re Cofetua si innamorò della fanciulla mendicante. Non sente, non si fa vivo; non si muove; è morto quel macacco, e bisogna proprio che io lo evochi. Romeo, per i fulgidi occhi di Rosalina, per la superba sua fronte e le sue labbra porporine, per il suo bel piedino, per la sua gamba dritta come un fuso, per le sue sobbalzanti cosce e i territori ad esse adiacenti, io ti scongiuro di apparire a noi nelle tue vere sembianze.

BENVOLIO: Se ti sente, lo farai arrabbiare.

MERCUZIO: Non si potrà arrabbiare per questo. Avrebbe ragione di prendersela, se io coi miei scongiuri facessi sorgere nel cerchio della sua bella uno spirito di strana natura, e lo lasciassi lì ritto, finch’ella lo avesse scongiurato ad abbassarsi e andarsene. Questo sarebbe un dispetto! Ma la mia invocazione è onesta e leale, e i miei scongiuri, in nome della sua donna, non hanno altro scopo che quello di far sorgere lui.

BENVOLIO: Vieni, si deve essere nascosto fra quegli alberi per conversare con l’umida notte Il suo amore è cieco, e sta bene al buio.

MERCUZIO: Se amore è cieco, amore non può colpire il bersaglio. In questo momento Romeo si mette a sedere sotto un nespolo, e si augura che la sua bella rassomigli a quelle tali frutta, che le fanciulle, fra di loro, chiamano, ridendo, “le nespole”. Oh! Romeo, se ella fosse… oh! s’ella fosse una… ‘et caetera’… aperta, e tu una pera spadona!. Buona notte, Romeo. Me ne vado a trovare la mia branda; il campo è un letto troppo freddo perché io vi possa dormire. Vieni, ce ne andiamo?

BENVOLIO: Andiamo pure, poiché è inutile cercare chi non si vuol lasciar trovare.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA – Giardino dei Capuleti

(Entra ROMEO)

 

ROMEO: Ride delle cicatrici, chi non ha mai provato una ferita.

(Giulietta appare ad una finestra in alto) Ma, piano! Quale luce spunta lassù da quella finestra? Quella finestra è l’oriente e Giulietta è il sole! Sorgi, o bell’astro, e spengi la invidiosa luna, che già langue pallida di dolore, perché tu, sua ancella, sei molto più vaga di lei. Non esser più sua ancella, giacché essa ha invidia di te. La sua assisa di vestale non è che pallida e verde e non la indossano che i matti; gettala. E’ la mia signora; oh! è l’amor mio!

oh! se lo sapesse che è l’amor mio! Ella parla, e pure non proferisce accento: come avviene questo? E’ l’occhio suo che parla; ed io risponderò a lui. Ma è troppo ardire il mio, essa non parla con me:

due fra le più belle stelle di tutto il cielo, avendo da fare altrove, supplicano gli occhi suoi di voler brillare nella loro sfera, finché esse abbian fatto ritorno. E se gli occhi suoi, in questo momento, fossero lassù, e le stelle fossero nella fronte di Giulietta? Lo splendore del suo viso farebbe impallidire di vergogna quelle due stelle, come la luce del giorno fa impallidire la fiamma di un lume; e gli occhi suoi in cielo irradierebbero l’etere di un tale splendore che gli uccelli comincerebbero a cantare, credendo finita la notte.

Guarda come appoggia la guancia su quella mano! Oh! foss’io un guanto sopra la sua mano, per poter toccare quella guancia!

GIULIETTA: Ohimè!

ROMEO: Essa parla. Oh, parla ancora, angelo sfolgorante! poiché tu sei così luminosa a questa notte, mentre sei lassù sopra il mio capo come potrebbe esserlo un alato messaggero del cielo agli occhi stupiti dei mortali, che nell’alzarsi non mostra che il bianco, mentre varca le pigre nubi e veleggia nel grembo dell’aria.

GIULIETTA: O Romeo, Romeo! Perché sei tu Romeo? Rinnega tuo padre; e rifiuta il tuo nome: o, se non vuoi, legati solo in giuramento all’amor mio, ed io non sarò più una Capuleti.

ROMEO (fra sé): Starò ancora ad ascoltare, o rispondo a questo che ha detto?

GIULIETTA: Il tuo nome soltanto è mio nemico: tu sei sempre tu stesso, anche senza essere un Montecchi. Che significa “Montecchi”? Nulla: non una mano, non un piede, non un braccio, non la faccia, né un’altra parte qualunque del corpo di un uomo. Oh, mettiti un altro nome! Che cosa c’è in un nome? Quella che noi chiamiamo rosa, anche chiamata con un’altra parola avrebbe lo stesso odore soave; così Romeo, se non si chiamasse più Romeo, conserverebbe quella preziosa perfezione, che egli possiede anche senza quel nome. Romeo, rinunzia al tuo nome, e per esso, che non è parte di te, prenditi tutta me stessa.

ROMEO: Io ti piglio in parola: chiamami soltanto amore, ed io sarò ribattezzato; da ora innanzi non sarò più Romeo.

GIULIETTA: Chi sei tu che, così protetto dalla notte, inciampi in questo modo nel mio segreto?

ROMEO: Con un nome io non so come dirti chi sono. Il mio nome, cara santa, è odioso a me stesso, poiché è nemico a te: se io lo avessi qui scritto, lo straccerei.

GIULIETTA: L’orecchio mio non ha ancora bevuto cento parole di quella voce, ed io già ne riconosco il suono. Non sei tu Romeo, e un Montecchi?

ROMEO: Né l’uno né l’altro, bella fanciulla se l’uno e l’altro a te dispiace.

GIULIETTA: Come sei potuto venir qui, dimmi, e perché? I muri del giardino sono alti, e difficili a scalare, e per te, considerando chi sei, questo è un luogo di morte, se alcuno dei miei parenti ti trova qui.

ROMEO: Con le leggere ali d’amore ho superati questi muri, poiché non ci sono limiti di pietra che possano vietare il passo ad amore: e ciò che amore può fare, amore osa tentarlo; perciò i tuoi parenti per me non sono un ostacolo.

GIULIETTA: Se ti vedono, ti uccideranno.

ROMEO: Ahimè! c’è più pericolo negli occhi tuoi, che in venti delle loro spade: basta che tu mi guardi dolcemente, e sarò a tutta prova contro la loro inimicizia.

GIULIETTA: Io non vorrei per tutto il mondo che ti vedessero qui.

ROMEO: Ho il manto della notte per nascondermi agli occhi loro; ma a meno che tu non mi ami, lascia che mi trovino qui: meglio la mia vita terminata per l’odio loro, che la mia morte ritardata senza che io abbia l’amor tuo.

GIULIETTA: Chi ha guidato i tuoi passi a scoprire questo luogo?

ROMEO: Amore, il quale mi ha spinto a cercarlo: egli mi ha prestato il suo consiglio, ed io gli ho prestato gli occhi. Io non sono un pilota:

ma se tu fossi lontana da me, quanto la deserta spiaggia che è bagnata dal più lontano mare, per una merce preziosa come te mi avventurerei sopra una nave.

GIULIETTA: Tu sai che la maschera della notte mi cela il volto, altrimenti un rossore verginale colorirebbe la mia guancia, per ciò che mi hai sentito dire stanotte. Io vorrei ben volentieri serbare le convenienze; volentieri vorrei poter rinnegare quello che ho detto: ma ormai addio cerimonie! Mi ami tu? So già che dirai “sì”, ed io ti prenderò in parola; ma se tu giuri, tu puoi ingannarmi: agli spergiuri degli amanti dicono che Giove sorrida. O gentile Romeo, se mi ami dichiaralo lealmente; se poi credi che io mi sia lasciata vincere troppo presto, aggrotterò le ciglia e farò la cattiva, e dirò di no, così tu potrai supplicarmi; ma altrimenti non saprò dirti di no per tutto il mondo. E’ vero, bel Montecchi, io son troppo innamorata e perciò la mia condotta potrebbe sembrarti leggera. Ma credimi, gentil cavaliere, alla prova io sarò più sincera di quelle che sanno meglio di me l’arte della modestia. Tuttavia sarei stata più riservata, lo devo riconoscere, se tu, prima che io me n’accorgessi, non avessi sorpreso l’ardente confessione del mio amore: perdonami dunque e non imputare la mia facile resa a leggerezza di questo amore, che l’oscurità della notte ti ha svelato così.

ROMEO: Fanciulla, per quella benedetta luna laggiù che inargenta le cime di tutti questi alberi, io giuro…

GIULIETTA: Oh, non giurare per la luna, la incostante luna che ogni mese cambia nella sua sfera, per timore che anche l’amor tuo riesca incostante a quel modo.

ROMEO: Per che cosa devo giurare?

GIULIETTA: Non giurare affatto; o se vuoi giurare, giura sulla tua cara persona, che è il dio idolatrato dal mio cuore, ed io ti crederò.

ROMEO: Se il sacro amore del mio cuore…

GIULIETTA: Via, non giurare. Benché io riponga in te la mia gioia, nessuna gioia provo di questo contratto d’amore concluso stanotte: è troppo precipitato, troppo imprevisto, troppo improvviso, troppo somigliante al lampo che è finito prima che uno abbia il tempo di dire “lampeggia”. Amor mio, buona notte! Questo boccio d’amore, aprendosi sotto il soffio dell’estate, quando quest’altra volta ci rivedremo, forse sarà uno splendido fiore. Buona notte, buona notte! Una dolce pace e una dolce felicità scendano nel cuor tuo, come quelle che sono nel mio petto.

ROMEO: Oh! mi lascerai così poco soddisfatto?

GIULIETTA: Quale soddisfazione puoi avere questa notte?

ROMEO: Il cambio del tuo fedele voto di amore col mio.

GIULIETTA: Io ti diedi il mio, prima che tu lo chiedessi; e tuttavia vorrei non avertelo ancora dato.

ROMEO: Vorresti forse riprenderlo? Per qual ragione, amor mio?

GIULIETTA: Solo per essere generosa, e dartelo di nuovo. Eppure io non desidero se non ciò che possiedo; la mia generosità è sconfinata come il mare, e l’amor mio quanto il mare stesso è profondo: più ne concedo a te, più ne possiedo, poiché la mia generosità e l’amor mio sono entrambi infiniti. (La Nutrice chiama di dentro)Sento qualche rumore in casa; addio, caro amor mio! Subito, mia buona nutrire! Diletto Montecchi, sii fedele. Aspetta un solo istante, tornerò. (Esce)

ROMEO: O beata, beata notte! Stando così in mezzo al buio, io ho paura che tutto ciò non sia che un sogno, troppo deliziosamente lusinghiero per essere realtà.

 

(Giulietta torna alla finestra)

 

GIULIETTA: Due parole, caro Romeo, e buona notte davvero. Se l’intenzione dell’amor tuo è onesta e il tuo proposito è il matrimonio, mandami a dire, domani, per una persona che farò venir da te, dove e in qual tempo tu vuoi compiere la cerimonia ed io deporrò ai tuoi piedi il mio destino e ti seguirò, come signore mio, per tutto il mondo.

NUTRICE (di dentro): Signora!

GIULIETTA: Vengo subito. Ma se le tue intenzioni non sono oneste, io ti scongiuro…

NUTRICE (di dentro): Signora!

GIULIETTA: Ora vengo! Cessa le tue proteste e lasciami al mio dolore:

domani manderò.

ROMEO: Così l’anima mia sia salva…

GIULIETTA: Mille volte buona notte! (Si ritira dalla finestra)

ROMEO: Mille volte cattiva notte, invece, poiché mi manca la tua luce.

Amore corre verso amore, con la gioia con cui gli scolari lasciano i loro libri, ma al contrario amore lascia amore con quella mestizia nel volto, con la quale gli scolari vanno alla scuola. (Si ritira lentamente)

 

(Riappare GIULIETTA alla finestra)

 

GIULIETTA: Pst! Romeo, pst! Oh avessi io la voce di un falconiere, per richiamare a me questo gentile terzuolo! La voce della schiavitù è fioca, e non può farsi sentire: altrimenti saprei squarciare la caverna dove si cela l’eco e far diventare l’aerea sua voce più fioca della mia, a forza di ripetere il nome del mio Romeo.

ROMEO (tornando indietro): E’ l’anima mia che pronunzia il mio nome; che dolce tinnire d’argento ha nella notte la voce degli amanti! E’ come una musica dolcissima, per un orecchio che ascolta avidamente.

GIULIETTA: Romeo!

ROMEO: Cara!

GIULIETTA: A che ora, domani, devo mandare da te?

ROMEO: Alle nove.

GIULIETTA: Non mancherò; ci sono venti anni di qui allora. Non mi ricordo più perché ti ho richiamato.

ROMEO: Lasciami restar qui finché te ne ricordi.

GIULIETTA: Allora io non me ne ricorderò apposta, affinché tu resti qui ancora, rammentandomi solamente quanto mi è cara la tua compagnia.

ROMEO: Ed io resterò qui, perché tu non te ne ricordi, dimenticando ogni altra mia abitazione fuori di questa.

GIULIETTA: E’ quasi giorno, io vorrei che tu fossi già partito, ma senza allontanarti più dell’augellino, che una monella lascia saltellare per un poco fuori della sua mano, povero prigioniero avvinto nelle sue ritorte catene, e tosto per mezzo di un filo di seta lo riconduce a sé con una stratta, amante troppo gelosa della sua libertà.

ROMEO: Io vorrei essere il tuo augellino.

GIULIETTA: Anch’io vorrei che tu lo fossi o caro: ma avrei paura di ucciderti per il troppo bene. Buona notte, buona notte! L’addio che ci separa è un dolore così dolce, che ti direi “buona notte” fino a domattina. (Si ritira)

ROMEO: Il sonno scenda sugli occhi tuoi, la pace nel tuo petto! Oh fossi io il sonno e la pace per riposare così dolcemente! Ed ora anderò alla cella del mio padre spirituale ad implorare il suo aiuto e a raccontargli la mia buona ventura.

 
(Esce)

 

 

 

SCENA TERZA – La cella di Frate Lorenzo

(Entra Frate LORENZO con un paniere)

 

FRATE LORENZO: Il mattino dai grigi occhi sorride all’accigliata notte, gittando sprazzi di luce sulle nubi orientali; e la tenebra, chiazzata in volto, si ritrae, barcollando come un ubriaco, dal sentiero del giorno e dalle infocate ruote di Titano. Ora, prima che il sole si avanzi, col suo occhio fiammeggiante a rallegrare il giorno e ad asciugare l’umida rugiada della notte, questo paniere di vimini deve esser pieno di erbe velenose e di fiori dal succo prezioso. La terra che è la madre della natura, è anche la sua tomba; il sepolcro della natura è lo stesso grembo dal quale ella ha la vita. E noi vediamo figli di diverso genere, usciti da quel grembo, suggere il materno petto della terra, molti ottimi per molte virtù, nessuno che non ne abbia qualcuna, e pure tutti differenti. Oh! grande è la virtù che risiede nelle erbe, nelle piante, nelle pietre e nelle loro intime qualità; poiché nulla esiste sulla terra di sì vile, che alla terra non dia qualche bene particolare; né cosa alcuna è così buona, che, distratta dal suo buon uso, non si ribelli alla sua origine, cadendo nell’abuso. La virtù stessa diventa vizio, male esercitata; e il vizio talora è nobilitato da una bella azione Sotto la tenera buccia di questo fragile fiore, risiede nello stesso tempo un veleno e una virtù medica, poiché se tu l’odori, risveglia in te una gioconda eccitazione di tutto il senso; se tu lo gusti, ti uccide, insieme col cuore, tutti i sensi. Anche nell’animo dell’uomo, come nelle erbe, stanno accampati, in continua guerra fra di loro, due re nemici: la grazia e la volontà brutale; e la pianta dove la peggiore di queste due potenze trionfa, è divorata tosto dal verme della morte.

 

(Entra ROMEO)

 

ROMEO: Buon giorno, padre.

FRATE LORENZO: ‘Benedicite.’ Qual voce mattutina mi saluta così dolcemente? Figliuolo mio, se tu dai così presto il buon giorno al tuo letto, è segno che hai la mente turbata: nella pupilla dei vecchi veglia assidua la sollecitudine, e dove alberga la sollecitudine, non trova mai posto il sonno; ma ove distende le sue membra la intatta gioventù, che ha la mente sgombra, là regna un ameno sonno. Perciò questa tua visita mattutina mi da la certezza che qualche inquietudine ti ha costretto ad alzarti; o se non è così, questa volta io colgo nel segno: il nostro Romeo stanotte non è andato a letto.

ROMEO: Quest’ultima supposizione è vera: ma il mio riposo è stato, anzi, più dolce delle altre notti.

FRATE LORENZO: Dio perdoni al peccatore! Sei stato con Rosalina?

ROMEO: Con Rosalina, padre mio? No, ho dimenticato quel nome, e le pene che quel nome mi faceva soffrire FRATE LORENZO: Bravo il mio figliuolo: ma dove sei stato dunque?

ROMEO: Te lo dirò, senza che tu me lo domandi un’altra volta. Sono stato a festa dal mio nemico, e là improvvisamente sono stato ferito, da chi io stesso ferivo. Il rimedio che può guarirci tutti e due è riposto nel tuo aiuto e nella tua santa medicina. Io non serbo rancore a nessuno, padre benedetto; poiché, vedi, la mia intercessione profitta anche al mio nemico.

FRATE LORENZO: Sii chiaro, figliuolo mio, e semplice nel tuo discorso; una confessione enigmatica non può avere che una assoluzione enigmatica.

ROMEO: Allora sappi, senz’altro, che il mio cuore ha posto il suo amore più caro nella bella figlia del ricco Capuleti; e come il mio cuore l’ho posto in lei, così lei il suo l’ha posto in me. Tutto è combinato, se non ciò che spetta a te di combinare, per mezzo del santo matrimonio. Quando, dove, e come ci siamo visti, abbiamo parlato di amore, e ci siamo scambiati la fede, te lo dirò mentre camminiamo, ma intanto io ti prego di volerci fare sposare oggi stesso.

FRATE LORENZO: San Francesco sia benedetto, che cambiamento è mai questo? Rosalina, colei che tu amavi così teneramente, l’hai bell’e dimenticata? Dunque l’amore di voialtri giovani non ha la sua vera sede nel cuore ma negli occhi. Gesummaria! e pure quale mare di lacrime ha bagnato le tue pallide guance per cagione di Rosalina!

Quanta acqua salata hai sprecato inutilmente per rendere più saporito un amore, che poi non devi nemmeno assaggiare! Il sole non ha ancora dissipato nel cielo la nebbia dei tuoi sospiri, i tuoi gemiti antichi risuonano ancora nei miei tardi orecchi; vedi, qui sulla tua gota c’è rimasta la macchia di un’antica lacrima, che non si è ancora asciugata. Se tu fosti sempre lo stesso, e queste pene furono tue, tu e queste pene appartenevate unicamente a Rosalina: e sei cambiato così? Allora ripeti questa sentenza: Possono ben cadere le donne, una volta che gli uomini sono così deboli.

ROMEO: Tu mi hai spesso rimproverato di amare Rosalina

FRATE LORENZO: Di essere infatuato, non di amare, figliuolo mio.

ROMEO: E mi hai detto di seppellire questo mio amore.

FRATE LORENZO: Non però in una tomba per mettervene uno e disseppellirne un altro.

ROMEO: Ti prego, non mi rimproverare: colei che amo ora, mi rende grazia per grazia e amore per amore; l’altra non faceva così.

FRATE LORENZO: Oh! perché capiva bene che l’amor tuo non sapeva compitare, e invece di leggere recitava a memoria. Ma andiamo, volubile ragazzo, vieni con me, c’è un motivo per il quale io voglio aiutarti: questo matrimonio potrebbe avere la fortuna di cambiare in un sincero amore l’odio delle vostre famiglie.

ROMEO: Oh! andiamo via; ho bisogno di far molto presto.

FRATE LORENZO: Prudenza e calma; chi corre troppo, inciampa e cade.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUARTA – Una strada

(Entrano BENVOLIO e MERCUZIO)

 

MERCUZIO: Dove diavolo può essere questo Romeo? Che non sia tornato a casa stanotte?

BENVOLIO: A casa di suo padre no certo, ho parlato col suo domestico.

MERCUZIO: Insomma, quella pallida fanciulla dal cuore di sasso, quella Rosalina, lo tormenta così, che egli finirà per diventar matto di certo.

BENVOLIO: Tebaldo, congiunto del vecchio Capuleti, ha mandato una lettera a casa di suo padre.

MERCUZIO: Una sfida, sulla mia vita!

BENVOLIO: Romeo gli saprà rispondere.

MERCUZIO: Chiunque sa scrivere può rispondere ad una lettera.

BENVOLIO: Ma no; dico che egli risponderà debitamente all’autore di quella lettera: sfidato, sfiderà.

MERCUZIO: Ah! povero Romeo, è bell’e morto! Trafitto dagli occhi neri di una bianca fanciulla, ferito in un orecchio da una canzone d’amore, col cuore spaccato nel mezzo dalla freccia del piccolo arciere cieco, è questo l’uomo che può affrontare Tebaldo?

BENVOLIO: Via! Che sarà mai Tebaldo!

MERCUZIO: Qualche cosa di più che Tebaldo il principe dei gatti, te lo dico io. Oh, è il valoroso campione d’ogni compitezza. Si batte con la precisione con cui tu potresti cantare da uno spartito; va a tempo, mantiene la distanza e la misura; ti fa una pausa di un attimo, uno, due, e la terza te la pianta nel petto; è il vero beccaio dei bottoni di seta, un duellista, un duellista; un gentiluomo di primo rango, un vero maestro di prima e seconda causa. Ah, l’immortale passata! il punto riverso! il “toccato”!

BENVOLIO: Il che?

MERCUZIO: Il canchero di questi grotteschi, balbuzienti fantastici, pieni di affettazione; di questi odierni concia-parole! “Per Gesù, una bonissima lama! un uomo di bella taglia! una puttana sopraffina!”.

Insomma, nonno mio, non è una cosa deplorevole, che oggi si debba essere afflitti in tal modo da queste mosche straniere, da questi spacciatori di mode, da questi ‘pardonnez-moi’, i quali s’impancan talmente sull’ultima foggia che non possono più sedere comodamente sulle panche che usavano una volta? O i loro ‘bons’, i loro ‘bons’!

 

(Entra ROMEO)

 

BENVOLIO: Ecco qui Romeo, ecco qui Romeo.

MERCUZIO: Levatogli il latte, come un’aringa secca. O carne, carne, come ti sei fatta pesce! Ora s’è dato ai metri che modulava il Petrarca: Laura a paragone della sua donna non era che una sguattera; ma sfido, aveva un amante assai più valente a cantarla in rima; Didone era una druda: Cleopatra, una zingara; Elena ed Ero, marcolfe e sgualdrine; Tisbe aveva l’occhio cesio o roba simile, ma senza costrutto. Signor Romeo, ‘bonjour’! eccoti un saluto in francese per le tue brache francesi. Stanotte, bellamente, ci hai pagato di mala moneta!

ROMEO: Buon giorno a tutti e due. Che mala moneta vi ho dato?

MERCUZIO: Sei corso fuori, messere, fuori corso, non capisci?

ROMEO: Perdono, o buon Mercuzio, il mio affare era urgente; e in un caso come quello mio, è permesso ad un uomo di deflettere dalle regole della riverenza.

MERCUZIO: Ciò è quanto dire, che un caso come il tuo fa flettere a un uomo i ginocchi.

ROMEO: Cioè fare una riverenza.

MERCUZIO: Ci hai imbroccato proprio per bene.

ROMEO: Una interpretazione veramente riverita, la tua!

MERCUZIO: Diavolo! io sono la riverenza incarnata.

ROMEO: Incarnata come una rosa?

MERCUZIO: Precisamente.

ROMEO: E allora vedrai che anche la suola dei miei scarpini è incarnata.

MERCUZIO: Questo è spirito vero! Infatti la suola dei tuoi scarpini è rósa, e quando la sola suola è rósa, la freddura piglia piede.

ROMEO: Oh! freddura pedestre, che si regge in piedi solo perché è fatta coi piedi.

MERCUZIO: Vieni a separarci, o buon Benvolio mi vien meno lo spirito.

ROMEO: Scudiscio e sproni, scudiscio e sproni, ci vuole per te, altrimenti io proclamerò partita vinta.

MERCUZIO: Perdio! se il tuo spirito vuol fare col mio il gioco dell’oca son bell’e fritto: poiché c’è più oca in uno solo dei tuoi sensi, ne sono sicuro, che io non ne abbia in tutti e cinque i miei messi insieme. Ero io forse pari con te costì quanto all’oca?

ROMEO: Tu non sei mai stato pari con me in nulla, se non lo sei stato costì quanto all’oca.

MERCUZIO: Per questa tua spiritosaggine ti voglio dare un morsichino in un orecchio.

ROMEO: Via! o buona oca, non mordere.

MERCUZIO: Il tuo spirito è molto agrodolce; è una vera salsa piccante.

ROMEO: E non è forse ben servita, come contorno ad una dolce oca?

MERCUZIO: Oh, ecco dello spirito di pelle di capretto, che dalla larghezza di un pollice, a forza di tirare col ferro, si può far diventare largo un braccio!

ROMEO: Allora io lo tiro fino a raggiungere cotesta parola “ferro”, la quale unita ad “oca” dimostra che tu non cerchi di far altro che ferrare le oche.

MERCUZIO: Ebbene, questo non è forse meglio che spasimare d’amore? Ora sei ritornato socievole come prima, ora sì che sei Romeo; ora sei come l’arte e la natura ti hanno fatto; poiché questo farnetico di Amore assomiglia a un grande idiota, che corre su e giù con la lingua di fuori, per trovare un buco dove nascondere il suo gingillo.

ROMEO: Fermati qui, fermati qui.

MERCUZIO: Tu vuoi che io mozzi il mio discorso, proprio a contrappelo.

ROMEO: Sì, tanto lo so che hai pochi peli sulla lingua.

MERCUZIO: Oh! t’inganni: non volevo torcere un pelo perché ero già arrivato in fondo, e non avevo davvero l’intenzione di addentrarmi nel soggetto.

ROMEO: Ecco un bell’arnese!

 

(Entra la Nutrice insieme con PIETRO)

 

MERCUZIO: Una vela, una vela!

BENVOLIO: Due, due, una camicia e una gonnella.

NUTRICE: Pietro!

PIETRO: Subito!

NUTRICE: Il mio ventaglio, Pietro.

MERCUZIO: Sì, o buon Pietro, per nascondervi dietro la faccia: poiché quella del suo ventaglio è la faccia più bella.

NUTRICE: Dio vi dia il buon giorno, signori.

MERCUZIO: Dio ti dia la buona sera, bella gentildonna.

NUTRICE: E’ proprio l’ora di dar la buona sera?

MERCUZIO: Né più né meno, ve lo dico io; poiché ora la mano oscena della meridiana è sull’asta del mezzogiorno.

NUTRICE: Finitela! che razza d’uomo siete?

ROMEO: Un uomo, o gentildonna, che Domineddio ha messo al mondo per sciupare se stesso.

NUTRICE: In fede mia, questa è buona: “per sciupare se stesso” ha detto? Signori, sa dirmi qualcuno di voi, dove potrei trovare il giovine Romeo?

ROMEO: Ve lo posso dire io: ma il giovine Romeo, quando lo avrete trovato, sarà più vecchio di quando lo cercavate. Sono io il più giovane di questo nome, in mancanza di uno peggio.

NUTRICE: Dite bene.

MERCUZIO: Già! il peggio è bene? Oh, bella in verità, che senno, che intelligenza!

NUTRICE: Se siete voi, signore, desidero di farvi una confidenza.

BENVOLIO: Vorrà portargli l’invito per una cena.

MERCUZIO: Una ruffiana, una ruffiana, una ruffiana! All’erta!

ROMEO: Che cosa hai scovato?

MERCUZIO: Una gazza, no di certo, messere, a meno che non sia una putta in un pasticcio di quaresima, che sa già di stantio e puzza prima d’esser mangiata…(Canta)

Una vecchia putta puzza Una vecchia putta pazza, Che buon piatto di quaresima!

Se la putta tanto puzza, L’appetito non s’aguzza, E’ pietanza che si biasima.

Romeo, vieni a casa di tuo padre? Noi andiamo là a desinare.

ROMEO: Vi seguo.

MERCUZIO: Addio, vecchia signora; addio, (cantando) “signora, signora…” (Escono Mercuzio e BENVOLIO)

NUTRICE: Sì! arrivederci! Di grazia, signore, che sfacciato rigattiere è costui, il quale faceva tanta pompa delle sue oscenità da capestro?

ROMEO: E’ un signore, nutrice mia, che si diletta a sentire le sue chiacchiere, capace di dire in un minuto solo molte più cose di quelle che egli non ascolti in un mese.

NUTRICE: Se crede di sparlare di me, lo metterò al posto, fosse anche più gagliardo di quello che è, e di venti Zanni della sua risma; e se non sono buona io, troverò chi sarà capace. Vile ribaldo! Non sono mica una delle sue sgualdrine io! Non sono mica una della sua combriccola! (A Pietro) E tu poi te ne stai costì, e lasci che un mariolo qualunque mi tratti a suo piacere?

PIETRO: Io non ho visto alcuno trattarvi a suo piacere, se l’avessi visto, il mio ferro sarebbe uscito all’istante dal fodero, ve lo garantisco. Poiché ho anch’io il coraggio di sguainare la spada presto come gli altri se vedo l’occasione buona in una lite giusta, ed ho la legge dalla mia parte.

NUTRICE: In questo momento, lo giuro davanti a Dio, sono così arrabbiata, che tremo tutta. Vile ribaldo! Vi prego, signore una parola, come vi dicevo la mia padroncina mi ha ordinato di andare in cerca di voi! Quello che mi ha detto di dirvi me lo terrò qui dentro:

prima lasciatemi dire, che se voi doveste condurla, come si suol dire, al paradiso dei matti, la vostra sarebbe come si dice, una condotta assai perfida; perché la signorina è giovane, e perciò se con lei foste doppio, in verità sarebbe una bricconata che fareste a una gentile signora, e un’azione molto cattiva.

ROMEO: Nutrice, raccomandami alla tua signora e padrona. Ti giuro…

NUTRICE: Che buon cuore! Sì, in fede mia le dirò tutto. Mio Dio, mio Dio, sarà proprio felice!

ROMEO: Che cosa le dirai, nutrice, se non mi stai a sentire?

NUTRICE: Le dirò, o signore, che voi giurate; e questo, se io capisco qualche cosa, è un pegno da gentiluomo.

ROMEO: Dille che stasera trovi qualche pretesto per andare a confessarsi, e alla cella di frate Lorenzo sarà confessata e maritata.

Questo è per la briga che ti prendi.

NUTRICE: No davvero, signore; neppure un soldo.

ROMEO: Andiamo, ti dico di prenderlo.

NUTRICE: Allora, questa sera signore? va bene, sarà là.

ROMEO: Aspetta, buona nutrice: prima che sia passata un’ora ti raggiungerà, dietro al muro del convento, il mio servitore, il quale ti porterà una scala a corda, che nel segreto della notte dovrà condurmi al colmo della gioia. Addio! sii fedele, ed io saprò ricompensare le tue fatiche. Addio! raccomandami alla tua padrona.

NUTRICE: Ed ora, che Dio su in cielo ti benedica! Sentite, signore.

ROMEO: Che dici, mia cara nutrice?

NUTRICE: Il vostro servitore è fidato? Non avete mai sentito dire che due possono serbare un segreto, quando uno di loro sia messo da parte?

ROMEO: Ti garantisco che il mio servitore è sicuro come l’acciaio.

NUTRICE: Bene, signore; la padroncina mia è la più deliziosa damigella del mondo… Mio Dio, mio Dio, l’aveste veduta quando era una piccola chiacchierina! Oh, c’è un nobiluomo qui in città, un certo Paride, il quale per lei metterebbe fuori l’arma volentieri; ma a lei, anima benedetta, piacerebbe vedere un rospo, proprio un rospo, quanto veder lui. Io qualche volta la faccio arrabbiare, e le dico che Paride è l’uomo che ci vuole per lei; ma, ve lo garantisco, quando io dico così, diventa bianca come il più candido panno del mondo. Rosmarino e Romeo non cominciano tutti e due con la medesima lettera?

ROMEO: Sì, nutrice: ebbene? cominciano tutti e due con una r.

NUTRICE: Ah! burlone! Codesta è la lettera del can che ringhia; r è…

per il… No; lo so, incomincia con un’altra lettera, e lei ci ha fatto un motto graziosissimo, su voi e rosmarino: se lo sentiste, vi farebbe bene.

ROMEO: Raccomandami alla tua signora. [Romeo esce).

NUTRICE: Sì, mille volte. Pietro!

PIETRO: Eccomi !

NUTRICE: Pietro, prendi il ventaglio e avviati.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUINTA – Il Giardino dei Capuleti

(Entra GIULIETTA)

 

GIULIETTA: L’orologio sonava le nove quando ho mandato la nutrice:

essa mi aveva promesso che in mezz’ora sarebbe tornata. Forse non riesce a trovarlo. Non può essere: oh, ella è zoppa! I messaggeri d’amore dovrebbero essere i pensieri, che corrono dieci volte più veloci dei raggi del sole, allorché caccia via le ombre sulle fosche cime dei monti. Per questo, appunto, Amore è tirato da celeri colombe e per questo ha le ali Cupido, veloce come il vento. Il sole è ormai al punto culminante del suo cammino di oggi, e dalle nove alle dodici vi sono tre lunghe ore: ed ancora non è tornata. Se avesse gli affetti e il sangue caldo della gioventù, si moverebbe con la rapidità di una palla, le parole mie la lancerebbero diritta al mio dolce amore, e quelle di lui la manderebbero diritta a me. Ma la gente vecchia molte volte pare morta; sono inerti, lenti, pesanti e lividi come il piombo.

 

(Entrano la Nutrice e PIETRO)

 

Mio Dio! viene finalmente! O dolce nutrice, che notizie mi porti?

L’hai trovato? Manda via quell’uomo.

NUTRICE: Pietro, aspetta alla porta.

 

(Pietro esce)

 

GIULIETTA: Ebbene, mia buona, mia dolce nutrice? O Dio! Perché hai quest’aria trista? Se le notizie sono cattive, dammele almeno con lieta cera. Se poi sono buone, tu sciupi la musica delle dolci notizie sonandomela con cotesta faccia arcigna.

NUTRICE: Non ne posso più: lasciatemi riprender fiato un momento. Ahi, come mi dolgono le ossa! che corsa ho fatto!

GIULIETTA: Vorrei che tu avessi le mie ossa ed io le tue notizie. Su, via, te ne prego, parla; mia buona, mia buona nutrice, parla!

NUTRICE: Gesù, che fretta! Non potete aspettare un momento? Non vedete che non posso riprender fiato?

GIULIETTA: Come non puoi riprender fiato, se hai il fiato per dirmi che sei senza fiato? La scusa con la quale tu vuoi giustificare questo indugio, è più lunga del racconto che ti scusi di non poter fare. Le tue notizie sono buone o cattive? Dimmi almeno questo, rispondi sì o no, ed aspetterò a sentire i particolari. Contentami, sono buone o cattive?

NUTRICE: Ebbene, avete fatto una scelta meschina: voi non siete buona a scegliere un uomo. Romeo! no, non è lui quello che ci voleva per voi! Il suo viso, è vero, è più bello di quello di qualunque altro uomo, ma la sua gamba vince quella di tutti gli uomini del mondo, e quanto alla mano, al piede, alla figura… si sa, benché non ci sia nulla da dire, sono senza confronto. Egli non è il fiore della cortesia, però, ne sto garante, è docile come un agnello. Va’ per la tua strada, fanciulla mia, servi Dio. Come, avete già pranzato in casa?

GIULIETTA: No, no; ma tutto questo io lo sapevo già. Che cosa dice del nostro matrimonio? Che cosa ne pensa?

NUTRICE: Dio, come mi fa male la testa! Oh, la mia testa! Me la sento battere come se si volesse fare in venti pezzi. E le spalle di dietro!

oh, le mie spalle, le mie spalle! Avete un bel cuore! mandami in giro ad acchiapparmi la morte a forza di trottare su e giù.

GIULIETTA: In fede mia, mi dispiace che tu non ti senta bene: ma via, mia buona, mia cara, mia dolce nutrice, dimmi, che cosa dice l’amor mio?

NUTRICE: Il vostro amore, da onesto gentiluomo, da uomo cortese, gentile, bello, e, ve lo garantisco, virtuoso com’è, dice… Dov’è vostra madre?

GIULIETTA: Dov’è mia madre? Ma, è in casa: dove deve essere? Che strano modo di rispondere! “Il vostro amore, da onesto gentiluomo, dice… Dov’e è vostra madre?”.

NUTRICE: O madonna cara! Pigliate fuoco così presto? Allora, Vergine santa, immaginiamoci! questo sarebbe l’impiastro per le mie ossa indolenzite? D’ora in poi le vostre imbasciate fatevele da voi.

GIULIETTA: Eh, quanto chiasso!… via, che cosa dice Romeo?

NUTRICE: Avete avuto il permesso di andare a confessarvi oggi?

GIULIETTA: Sì.

NUTRICE: Allora, presto, andate alla cella di frate Lorenzo, là c’è un marito che aspetta per far di voi una moglie. Ecco il sangue birichino che vi sale alle gote: una notizia qualunque basta perché si facciano subito vermiglie. Presto, alla chiesa; io prenderò un’altra strada in cerca di una scala, con la quale il vostro amante appena è buio dovrà salire su al nido di un uccello; io sono il facchino, e fatico per il vostro diletto: ma fra poco, appena sarà notte, il peso lo porterete voi. Andiamo; io vado a desinare, voi, presto, alla cella.

GIULIETTA: Presto, al colmo della felicità! Mia buona nutrice, addio.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SESTA – La cella di Frate Lorenzo

(Entrano Frate Lorenzo e ROMEO)

 

FRATE LORENZO: Il cielo sorrida a questo santo atto, e faccia sì che l’avvenire non debba rimproverarcelo con qualche dolore!

ROMEO: Amen, amen! venga pure qualunque dolore possibile: esso non può valere in cambio, quanto la gioia che mi dà un solo breve minuto della sua presenza. Congiungi soltanto le nostre mani con le tue sante parole, e poi la morte, divoratrice d’amore, faccia pure quello che vuole. A me basta di poter dire che Giulietta è mia.

FRATE LORENZO: Queste gioie violente hanno violenta fine, e muoiono nel loro trionfo, come il fuoco e la polvere che si distruggono al primo bacio. Il più squisito miele diviene stucchevole per la sua stessa dolcezza, e basta assaggiarlo per levarsene la voglia. Perciò ama moderatamente; l’amore che dura fa cosi; chi ha troppa fretta, arriva tardi come chi va troppo adagio.

 

(Entra GIULIETTA)

 

Ecco la donzella. Oh! un piede così leggero non consumerà mai la pietra che dura eterna. Un amante potrebbe cavalcare il filo di ragnatelo che ozieggia sulla lasciva brezza estiva, e non cadere:

tanto è leggera la vanità.

GIULIETTA: Buona sera, mio confessore spirituale.

FRATE LORENZO: Figliuola mia, Romeo ti ringrazierà per tutti e due.

GIULIETTA: Altrettanto anche a lui, se no i suoi ringraziamenti saranno di troppo.

ROMEO: Ah! Giulietta, se la tua gioia è al colmo come la mia, e se tu sei più abile di me a dipingerla con la parola, allora profuma del tuo alito l’aria che ne circonda e il linguaggio della tua ricca musica descriva la ideale felicità che noi due riceviamo, l’uno dall’altra, per via di questo caro incontro.

GIULIETTA: L’immaginazione, più ricca di sostanza che di parole, va superba della sua essenza e non di ornamenti esteriori: sono ben poveri coloro che possono contare le proprie ricchezze, ma il sincero amor mio è giunto ad un tale eccesso, che io non posso calcolare neppur la metà della somma delle mie ricchezze.

FRATE LORENZO: Venite, venite con me, e ci sbrigheremo, poiché, con vostra licenza, voi non resterete soli, finché la santa chiesa non abbia fatto di voi due una persona sola.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO TERZO

 

SCENA PRIMA – Una piazza pubblica

(Entrano MERCUZIO, BENVOLIO, un Paggio e alcuni Servi)

 

BENVOLIO: Te ne prego, buon Mercuzio ritiriamoci: la giornata è calda, i Capuleti son fuori di casa, e, se ci incontriamo, non potremo evitare una rissa, poiché in queste giornate di caldo il sangue, inviperito, ribolle.

MERCUZIO: Tu somigli ad uno di quei compari che, appena varcato il limite della taverna, mi sbattono la spada sulla tavola, e dicono:

“Dio faccia che io non abbia bisogno di te!” e per effetto del secondo bicchiere, la tiran fuori per accoppare il coppiere, senza che in verità ve ne sia bisogno.

BENVOLIO: Somiglio ad un compare di questo genere?

MERCUZIO: Via, via, tu col tuo carattere sei un campione così focoso, che l’Italia non ha l’uguale: tanto pronto ad essere eccitato al cattivo umore, quanto pronto ad avere l’umore cattivo per divenire eccitato.

BENVOLIO: E che altro ancora?

MERCUZIO: Nulla, e se ci fossero due uomini di questa fatta, resteremmo presto senza nessuno dei due poiché uno ucciderebbe l’altro. Tu, insomma, attaccheresti lite con uno, perché ha nella barba un pelo di più o un pelo di meno di quello che tu hai nella tua.

Leticheresti con uno che schiaccia le noci, soltanto per il fatto che tu hai gli occhi color nocciola; ora, quale occhio, che non fosse come quello tuo, scoverebbe un motivo come questo per attaccar briga? La tua testa è piena di litigi, come un uovo è pieno di sostanza; eppure, a forza di leticare, ne ha ricevute tante da diventar guasta come un uovo. Hai fatto lite con un uomo che aveva tossito per la strada, perché con la sua tosse aveva svegliato il tuo cane che dormiva sdraiato al sole. Non ti sei preso a parole con un sarto, perché s’era messo la sua giubba nuova prima di Pasqua? Con un altro non hai avuto che dire, perché s’era legato le scarpe nuove con dei lacci vecchi? E vieni a predicare a me, di non fare l’attaccabrighe!

BENVOLIO: Se io fossi pronto ad attaccar lite come sei tu, potrei vendere il feudo assoluto e semplice della mia vita, al primo che volesse comprarlo, per un’ora e un quarto di esistenza.

MERCUZIO: Il feudo assoluto e semplice? O semplicione d’un uomo!

BENVOLIO: Per la mia testa, ecco qua i Capuleti.

MERCUZIO: Per i miei talloni, non me ne curo.

 

(Entrano TEBALDO ed altri)

 

TEBALDO: Stammi accanto, perché voglio parlare con loro. Signori, buon giorno; una parola con uno di voi.

MERCUZIO: Non più che una parola, e con uno solo di noi ?

Accompagnatela, almeno, con qualche altra cosa; fate: una parola e un colpo di spada.

TEBALDO: Mi troverete discretamente pronto anche a questo, messere, se vorrete darmene l’occasione.

MERCUZIO: Non potreste pigliarvela da voi, qualche occasione, senza che vi fosse data?

TEBALDO: Mercuzio, ti sei concertato con Romeo…

MERCUZIO: Concertato! Che, ci hai preso per dei menestrelli? Se tu ci credi menestrelli, bada che tu non abbia a sentire altro che delle stonature, ecco l’arco del mio violino; e questo è quello che ti farà ballare. Altro che concerto!

BENVOLIO: Noi stiamo parlando in un pubblico ritrovo di gente: o ritiriamoci in un luogo appartato, e ragionate delle vostre lagnanze con un po’ di calma, oppure separiamoci: qui tutti gli occhi ci guardano.

MERCUZIO: Gli occhi furono fatti agli uomini per guardare, lasciate, dunque, che guardino; non mi muovo per il comodo di nessuno, io.

 

(Entra ROMEO)

 

TEBALDO: Ebbene, la pace sia con voi, messere, ecco qua il mio uomo.

MERCUZIO: Ma io mi farò impiccare, messere, se egli indossa la vostra livrea. Su, andate voi per primo sul terreno, ed egli sarà al vostro seguito: allora Vossignoria potrà chiamarlo in questo senso il suo uomo.

TEBALDO: Romeo, l’amore che io ti porto, non mi sa porgere un’espressione migliore di questa: tu sei un vile.

ROMEO: Tebaldo, la ragione che io ho di amarti scusa parecchio la collera insita in codesto saluto. Io non sono un vile, perciò addio:

vedo che non mi conosci.

TEBALDO: Ragazzo, questo non potrà scusare l’onta che tu mi hai fatto, perciò voltati e tira fuori la spada.

ROMEO: Io dichiaro di non averti mai offeso, e ti voglio bene più di quello che tu non potrai comprendere, finché non saprai la ragione del bene che ti voglio: e questo, mio buon Capuleti (nome che io ho caro come il mio nome stesso), ti basti.

MERCUZIO: O fredda, disonorante, ignobile sottomissione! Ah! la stoccata se la porterà via! (Tira fuori la spada) Tebaldo, acchiappa- topi, vuoi fare una passeggiata?

TEBALDO: Che cosa vuoi da me?

MERCUZIO: Buon re dei gatti, nient’altro che una delle tue nove vite, con la quale è mia intenzione di prendermi qualche libertà: poi, secondo il modo con cui mi tratterai in seguito, penserò a picchiare di santa ragione sulle altre otto. Vuoi prender per gli orecchi la tua spada e strapparla fuori dalla sua pelliccia? Fa’ presto, che la mia non t’abbia a ronzare intorno agli orecchi, prima che la tua sia fuori.

TEBALDO: Sono a vostra disposizione.

 

(Tirando fuori la spada)

 

ROMEO: Caro Mercuzio, metti giù la tua spada.

MERCUZIO: Orsù, signore, la vostra botta.

 

(Si battono)

 

ROMEO: Benvolio, fuori la spada; abbassa con un colpo i loro ferri.

Signori, risparmiate, per vergogna, questo scandalo! Tebaldo, Mercuzio, il principe ha proibito assolutamente queste zuffe per le vie di Verona. Fermo, Tebaldo; e tu, mio buon Mercuzio…

 

(Mercuzio è colpito. Escono Tebaldo e i suoi Partigiani)

 

MERCUZIO: Sono ferito; al diavolo le vostre due famiglie! Sono spacciato: e costui se n’è andato, e non ha nulla?

BENVOLIO: Che! sei ferito?

MERCUZIO: Sì, sì, uno sgraffio, uno sgraffio; ma per Dio è tanto quanto basta. Dov’è il mio paggio? Va’, ragazzaccio, cerca un medico.

 

(Il Paggio esce)

 

ROMEO: Coraggio, amico; la ferita non può essere grave.

MERCUZIO: Oh no! non è profonda come un pozzo né larga come la porta di una chiesa; ma può bastare, e non ci sarà bisogno di altro.

Domandate di me, domani, e troverete che son divenuto un uomo serio, e muto come una tomba. Vi garantisco che son condito per bene per questo mondo. Maledizione alle vostre due famiglie! Per Dio! Un cane, un topo, un sorcio, un gatto, graffiare a morte un uomo a questo modo! Un fanfarone, un ribaldo, un briccone come lui, che si batte con la precisione della matematica! Perché diavolo ti sei cacciato fra noi due? Io sono stato ferito di sotto al tuo braccio.

ROMEO: Pensai che tutto questo fosse per il meglio.

MERCUZIO: Benvolio, aiutami a trascinarmi in qualche casa, o verrò meno qui. Maledizione a tutte e due le vostre famiglie! Esse mi hanno ridotto cibo per vermi: l’ho avuta, ed anche bella forte. Le vostre famiglie!…

 

(Escono Mercuzio e Benvolio)

 

ROMEO: Questo gentiluomo, prossimo parente del principe, è mio vero amico, ha ricevuto quella ferita mortale per difendere me; l’onor mio è macchiato dall’onta di Tebaldo, di Tebaldo che è divenuto mio cugino da un’ora. O mia dolce Giulietta, la tua beltà ha fatto di me un effeminato, e ha indebolito nell’animo mio la tempra del valore!

 

(Rientra BENVOLIO)

 

BENVOLIO: O Romeo, Romeo, il prode Mercuzio è morto: quel generoso spirito, che troppo prematuramente ha disprezzato quaggiù la terra, ha raggiunto le nubi.

ROMEO: L’oscuro fato di questo giorno pende sopra ben altri giorni ancora: questo non segna che il principio della sventura, alla quale altri giorni dovranno mettere fine.

 

(Rientra TEBALDO)

 

BENVOLIO: Ecco qua di nuovo il furente Tebaldo.

ROMEO: Vivo e trionfante! E Mercuzio ucciso! Ritorna al cielo, o riguardosa mitezza; e tu, o furia dall’occhio di fiamma, sii ora mia guida! O Tebaldo, riprenditi ora il “vile” che mi hai dato dianzi!

Poiché l’anima di Mercuzio è a poca distanza sopra le nostre teste, e aspetta che la tua vada a fargli compagnia; o tu, od io, o tutti e due, dobbiamo raggiungerlo.

TEBALDO: Tu, sciagurato ragazzo, tu che gli fosti compagno quaggiù, te ne anderai con lui di qua.

ROMEO: Questa deciderà.

 

(Si battono; Tebaldo cade)

 

BENVOLIO: Romeo, vattene, fuggi! I cittadini si levano a rumore, e Tebaldo è ucciso: non te ne stare costì stupito: se ti pigliano il principe ti condannerà a morte. Vattene fuggi! scappa!

ROMEO: Oh! io sono lo zimbello della fortuna!

BENVOLIO: Ma perché rimani?

 

(Romeo esce. Entrano Cittadini, eccetera)

 

PRIMO CITTADINO: Da qual parte è fuggito colui che ha ucciso Mercuzio?

Tebaldo, quell’assassino, dov’è scappato?

BENVOLIO: Eccolo là per terra quel Tebaldo.

PRIMO CITTADINO: Su, signore, venite con me; ve l’ordino in nome del principe, obbedite.

 

(Entrano il PRINCIPE col suo Seguito; il MONTECCHI, il CAPULETI, le loro Mogli, ed altri)

 

PRINCIPE: Dove sono i vili eccitatori di questa rissa?

BENVOLIO: Nobile principe, io posso spiegarvi lo sciagurato svolgimento di questa fatale contesa. Ecco là disteso, ucciso per mano del giovane Romeo, l’uomo che ha ammazzato il parente vostro, il prode Mercuzio.

MADONNA CAPULETI: Tebaldo, il mio nipote! Oh, il figlio del fratello mio! Ohimè, principe! Nipote, marito! Oh! si è versato il sangue del mio caro parente. Principe, se voi siete giusto, per il sangue nostro fate scorrere sangue del Montecchi. O nipote, nipote!

PRINCIPE: Benvolio, chi è che ha cominciato questa rissa sanguinosa?

BENVOLIO: Tebaldo qui morto, ucciso dalla mano di Romeo; di Romeo che gli parlava con buona maniera, che lo esortava a riflettere quanto fosse futile quella lite, e gli metteva innanzi perfino il grande dispiacere vostro: tutto questo, sebbene espresso con accento cortese, con lo sguardo tranquillo, coi ginocchi umilmente piegati, non valse a portare tregua alla rabbia sfrenata di Tebaldo, che fu sordo alla pace, finché a un tratto vibra un colpo, con l’acuto acciaio, al petto del valoroso Mercuzio. Questi, furente del pari, oppone mortalmente punta a punta, e, con marziale disprezzo, d’una mano disvia la fredda morte, dell’altra la ricaccia contro Tebaldo, la cui destrezza la respinge. Allora Romeo grida ad alta voce: “Fermi, amici! amici, separatevi!” e più veloce della sua lingua, il suo agile braccio abbassa con un colpo le loro punte fatali, ed egli si scaglia fra loro due: intanto di sotto al suo braccio una fiera botta tirata da Tebaldo colpisce la vita del valoroso Mercuzio, e Tebaldo fugge: ma tosto torna indietro verso Romeo, che proprio allora aveva accarezzato l’idea della vendetta, e alla vendetta corrono tutti e due come un lampo, tanto che prima che io avessi il tempo di tirar fuori la spada per separarli, l’accanito Tebaldo era ucciso; e poiché egli fu caduto, Romeo si volse e fuggì. Questa è la verità, e se non è, Benvolio possa morire qui!

MADONNA CAPULETI: Costui è un parente del Montecchi, l’affetto lo rende mendace, egli non dice il vero: almeno venti persone si sono azzuffate in questa funesta contesa, e tutte e venti insieme a stento riuscirono ad uccidere una vita. Io domando un atto di giustizia, che voi, principe, dovete compiere: Romeo ha ucciso Tebaldo, Romeo non deve avere il diritto di vivere.

PRINCIPE: Romeo ha ucciso lui, ma Tebaldo ha ucciso Mercuzio, chi, ora, dovrà pagare il suo prezioso sangue?

MONTECCHI: Non Romeo, principe: egli era amico di Mercuzio; la sua colpa non ha altra conseguenza che quella alla quale avrebbe dovuto giungere la legge, cioè la morte di Tebaldo.

PRINCIPE: E per questa offesa alla legge, noi lo mandiamo immediatamente in esilio da questa città; gli effetti di questo vostro odio hanno toccato anche me: per causa dei vostri aspri litigi oggi è corso il mio sangue; ma io vi farò fare ammenda con una multa così forte, che dovrete pentirvi tutti della perdita che io ho fatto. Io sarò sordo a ragioni e a scuse; né lacrime né preghiere varranno a riscattare la violazione della legge: quindi risparmiatevele. Romeo se ne vada in fretta di qua, altrimenti l’ora in cui verrà trovato qui, sarà l’ultima della sua vita. Si porti via di qua quel corpo e sia eseguita la volontà nostra: la pietà non fa che commettere un assassinio, quando perdona a chi uccide.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA – Giardino dei Capuleti

(Entra GIULIETTA)

 

GIULIETTA: Tornate di galoppo, o voi corsieri dai piedi di fiamma, alla dimora di Febo: un cocchiere come Fetonte vi avrebbe già cacciati a colpi di frusta nell’occidente, e avrebbe immediatamente ricondotta la fosca notte. Stendi la tua fitta cortina, o notte, sacerdotessa d’amore; affinché gli occhi del fuggitivo giorno possan chiuder le palpebre, e Romeo balzi fra queste braccia, senza che alcuno si occupi di lui e lo veda. Gli amanti, per compiere i loro riti amorosi, ci vedono abbastanza al lume della loro beltà: se poi l’amore è cieco, tanto meglio si accorda con la notte. Vieni, o notte solenne, o matrona dal severo abbigliamento, tutta vestita di nero, e insegnami a perdere una partita vinta, nella quale si giocano due verginità senza macchia. Copri col tuo nero manto il mio sangue male addomesticato, che si dibatte nelle mie guance, finché il timido amore, fattosi ardito, veda nell’atto dell’amore sincero un gesto di semplice pudore.

Vieni, o notte, vieni, o Romeo, tu che sarai il giorno nella notte, poiché riposerai sulle ali della notte, più bianco che recente neve sul dorso di un corvo. Vieni, o gentile notte, vieni, o amabile notte dalla nera fronte, dammi il mio Romeo; e quando egli morrà, prendilo e taglialo in piccole stelle, ed egli renderà così bella la faccia del cielo che tutto il mondo s’innamorerà della notte, e non presterà più nessun culto all’abbagliante sole. Oh! io ho comprato un palazzo d’amore, ma non lo posseggo: ed io, sebbene venduta, ancora non sono goduta da colui che mi ha acquistata: questo giorno è così tediosamente lungo, come la notte che precede un giorno di festa, per un fanciullo impaziente il quale ha un vestito nuovo, e non vede l’ora di metterselo. Oh! ecco qua la mia nutrice.

 

(Entra la Nutrice con delle corde)

 

Essa mi porta notizie, e per me ogni lingua che pronunzi soltanto il nome di Romeo, parla con una eloquenza celeste. Ebbene, nutrice che nuove? Che cosa c’è lì? Le corde che Romeo ti disse di cercare?

NUTRICE: Sì, sì, le corde.

 

(Le butta in terra)

 

GIULIETTA: Ahimè! che notizie mi porti? perché ti torci le mani così?

NUTRICE: Ah! maledizione! egli è morto, è morto, è morto. Siamo perdute, signora, siamo perdute! Ah, maledetto giorno! egli se n’è andato è ucciso, è morto.

GIULIETTA: Il cielo può esser così malvagio?

NUTRICE: Romeo può esserlo se non lo può essere il cielo. O Romeo, Romeo! Chi l’avrebbe mai pensato! Romeo!…

GIULIETTA: Qual diavolo sei tu, che mi tormenti in questo modo? Una simile tortura dovrebbe ruggire nel buio dell’inferno. Forse Romeo s’è ucciso? Rispondi soltanto “sì”, e questa semplice sillaba avrà un veleno più potente degli occhi del basilisco che scagliano dardi di morte. Io non esisto più, se esiste un tale “sì”, o se si chiusero quegli occhi che ti fanno rispondere “sì”. S’egli è ucciso, dimmi “sì”, se no, dimmi “no”: due parole così brevi decidono della mia gioia o del mio dolore.

NUTRICE: Io ho visto la ferita, l’ho vista con gli occhi miei (Dio l’abbia in gloria!) qui sul suo robusto petto: un cadavere che fa pietà, un miserando cadavere sanguinante; livido, livido come la cenere, tutto lordo di sangue, tutto grumi di sangue: a quella vista sono svenuta.

GIULIETTA: Oh, spezzati, cuore mio! misero fallito, spezzati all’istante! In prigione, occhi miei, voi non dovete più vedere la libertà! Vile terra, ritorna alla terra, cessa sull’istante di essere animata, e tu e Romeo gravate del vostro peso una sola bara.

NUTRICE: O Tebaldo, Tebaldo, il migliore amico che avevo! O gentile Tebaldo, onesto gentiluomo! Così io non fossi mai vissuta per vederti morto!

GIULIETTA: Che uragano è mai questo che imperversa con sì contrari venti ? Romeo è ucciso, e Tebaldo è morto? Il mio ben amato cugino, e il mio signore a me più caro ancora? Allora, o terribile tromba, suona il giudizio universale! poiché chi è ancora vivo, se loro due non sono più?

NUTRICE: Tebaldo è morto, e Romeo è bandito: Romeo, il quale lo uccise, è mandato in esilio.

GIULIETTA: O Dio! la mano di Romeo ha versato il sangue di Tebaldo?

NUTRICE: Sì, sì, oh maledetto giorno, essa lo ha versato!

GIULIETTA: O cuore di serpe nascosto sotto una faccia fiorente di bellezza! Un drago abitò mai una caverna così bella? O tiranno pieno di beltà! Demonio dalle forme di angelo! Corvo dalle piume di colomba!

Agnello dalla voracità di lupo! Spregevole sostanza di una apparenza divina! Opposto preciso di quello che tu sembri! Santo dannato!

Onorevole ribaldo! O natura, che cosa puoi tu fare nell’inferno, se hai dato ricetto allo spirito di un demonio nel paradiso mortale di un corpo così bello? Ci fu mai libro così ben rilegato, che contenesse materia tanto vile? E’ egli possibile che la perfidia abiti un sì splendido palazzo?

NUTRICE: Non c’è più lealtà, più fede, più onestà negli uomini: sono tutti spergiuri, tutti menzogneri, tutti malvagi, tutti ipocriti. Ah, dov’è il mio servo? Datemi un po’ di acquavite: questi dolori, queste pene, queste angosce mi fanno diventar vecchia. La vergogna cada su Romeo!

GIULIETTA: Ti si secchi la lingua per questo tuo voto! Egli non è nato per l’onta! L’onta si vergognerebbe di sedere sulla sua fronte; poiché essa è un trono, sul quale l’onore potrebbe essere incoronato monarca assoluto dell’universo. Ah! qual mostro sono io stata ad inveire contro di lui!

NUTRICE: Vi metterete a dir bene di colui che ha ucciso il vostro cugino?

GIULIETTA: Dovrò dir male di colui che è mio marito? Ah! mio povero signore, quale lingua accarezzerà il nome tuo, se io, che sono tua moglie da tre ore, ne ho fatto scempio? Ma perché, iniquo, uccidesti il cugino mio? Quell’iniquo cugino avrebbe voluto uccidere mio marito:

indietro, stolte lacrime, tornate alla vostra sorgente natìa; le vostre stille sono un tributo che appartiene al dolore, e voi per errore l’offrite alla gioia. Vive mio marito, che Tebaldo avrebbe voluto uccidere, ed è morto Tebaldo, che avrebbe voluto uccidere mio marito; tutto ciò è una notizia consolante, perché piangere dunque? Vi è stata una parola più funesta della morte di Tebaldo, che mi ha ucciso: io vorrei ben dimenticarla, ma ahimè, essa pesa sulla mia memoria, come un esecrando delitto pesa sulla coscienza del colpevole:

“Tebaldo è morto, e Romeo bandito”; quel “bandito”, quell’unica parola “bandito”, ha ucciso diecimila Tebaldi! La notizia della morte di Tebaldo era un dolore abbastanza grande se fosse finita lì: ma se l’amaro dolore si compiace della compagnia, e vuole ad ogni costo trovarsi insieme con altri dolori, perché quando ella ha detto:

“Tebaldo è morto”, non ha aggiunto anche “è morto tuo padre” o “è morta tua madre” ovvero “sono morti tutti e due”? Questo, almeno, mi avrebbe fatto piangere come tutti gli altri: ma quella retroguardia che ha seguito la morte di Tebaldo, quel “Romeo è bandito”, oh! il pronunziare quella parola equivale a dire: padre, madre, Tebaldo, Romeo, Giulietta, sono tutti uccisi, tutti morti! “Romeo è bandito”!

Oh! non c’è fine, non c’è limite, non c’è misura, non c’è confine nella potenza mortale di questa parola! non vi sono parole che possano esprimere un dolore come questo. Nutrice, dove sono mio padre e mia madre?

NUTRICE: A piangere e disperarsi sul cadavere di Tebaldo. Volete andare da loro? Vi condurrò là.

GIULIETTA: Lavino pure con le lacrime le sue ferite: quando gli occhi loro si saranno disseccati, verserò io le mie per l’esilio di Romeo.

Raccogli quelle corde. Povere corde, anche voi siete state ingannate come me, poiché Romeo è esiliato: egli aveva fatto di voi una via maestra per giungere al mio letto; ma io, fanciulla, muoio fanciulla e vedova. Venite corde, vieni, nutrice, io vado al mio letto nuziale; e la morte, non Romeo, s’abbia la mia verginità!

NUTRICE: Andate in camera vostra: io anderò in cerca di Romeo perché venga a confortarvi; io so bene dov’egli è. Ascoltatemi, il vostro Romeo stanotte sarà qui: vado da lui; egli è nascosto nella cella di frate Lorenzo.

GIULIETTA: Oh, trovalo! da’ questo anello al mio fedele cavaliere, e digli che venga a prendere il suo ultimo addio.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA – La cella di Frate Lorenzo

(Entra Frate LORENZO)

 

FRATE LORENZO: Romeo, vieni fuori, esci uomo pavido: il dolore s’è innamorato delle tue qualità, e tu hai sposato la sventura.

 

(Entra ROMEO)

 

ROMEO: Padre, quali notizie? Qual è la sentenza del principe? Qual dolore, che io non conosca ancora, chiede di stringermi la mano per fare la mia conoscenza?

FRATE LORENZO: Il mio caro figliuolo è anche troppo famigliare con triste compagnia di questo genere; io ti porto notizie del giudizio del principe.

ROMEO: Quanto è meno grave del giudizio universale il giudizio del principe?

FRATE LORENZO: Una più mite sentenza è uscita dalle sue labbra: non la morte del corpo, ma l’esilio del corpo.

ROMEO: Ah! l’esilio? abbi pietà, di’ piuttosto la morte, poiché c’è più terrore nello sguardo dell’esilio, molto più terrore, che nella morte: non dire “esilio”.

FRATE LORENZO: Tu sei esiliato di qui, da Verona; pazienza, il mondo è grande e vasto.

ROMEO: Non esiste mondo fuori delle mura di Verona: non c’è che purgatorio, supplizio, l’inferno stesso. Essere esiliato di qui, vuol dire essere esiliato dal mondo, e l’esilio dal mondo è la morte:

l’esilio è dunque una morte sotto falso nome. Chiamando la morte “esilio” tu mi tagli la testa con una scure d’oro, e sorridi al colpo che mi assassina!

FRATE LORENZO: O peccato mortale! O grossolana ingratitudine! Per la tua colpa la nostra legge reclama la morte; ma il buon principe, prendendo le tue parti, ha gettato in un canto la legge, ed ha cambiato la sinistra parola “morte” in “esilio”: questa è vera clemenza, e tu non lo vedi!

ROMEO: E’ tortura, e non clemenza: il cielo è qui dove vive Giulietta; ed ogni gatto, ogni cane, il più piccolo topo, l’essere più insignificante, vive qui nel cielo e può contemplare Giulietta, ma Romeo non può. C’è più riguardo, più dignità, più cortesia per le mosche che volano intorno a una carogna, che per Romeo: esse possono posarsi sopra quella meraviglia di candidezza che è la mano della cara Giulietta, possono rubare una gioia immortale alle sue labbra, che si fanno anche più rosse, nel loro pudore puro e verginale, quasi credessero che quei loro baci sono un peccato; ma Romeo non può, egli è esiliato: tali gioie possono sottrarre a lei le mosche, mentre io debbo sottrarmi a tali gioie. Esse son libere, ma io sono esiliato: e tu seguiti a dirmi che l’esilio non è la morte? Non avevi tu, per uccidermi, una bevanda avvelenata, un coltello affilato, un altro mezzo qualunque di morte pronta, per ignominioso che sia? Non avevi altro che questa parola: “esiliato”? “Esiliato”? Questa parola, o padre, la pronunziano i dannati nell’inferno, e un urlo di dolore l’accompagna. Come hai tu dunque il coraggio, tu che sei un sacerdote, un confessore d’anime, uno che assolve i peccati, tu che ti professi mio amico, di straziarmi con codesta parola “esiliato”?

FRATE LORENZO: O uomo pazzo dalla passione, ascolta, lasciami dire una sola parola.

ROMEO: Oh, ma tu parlerai ancora di esilio.

FRATE LORENZO: Ti darò un’armatura che ti protegga da questa parola; ti darò il dolce latte della sventura, la filosofia, che ti consolerà, sebbene tu sia esiliato.

ROMEO: Ancora “esiliato”? Alla forca la filosofia! Se non può farmi una Giulietta, se non può cambiare di posto una città, annullare la sentenza di un principe, la filosofia non giova a nulla, non può nulla; non me ne parlare.

FRATE LORENZO: Oh, veggo bene che i pazzi non hanno orecchie!

ROMEO: Come potrebbero averle, se i saggi non hanno occhi?

FRATE LORENZO: Lasciami discutere con te della tua situazione.

ROMEO: Tu non puoi parlare di ciò che non senti: se tu fossi giovane come me, e Giulietta fosse l’amor tuo; se tu fossi sposato soltanto da un’ora, e avessi ucciso Tebaldo, se tu fossi pazzo di amore come sono io, e come me esiliato, allora potresti parlare, allora potresti strapparti i capelli, e gettarti per terra, come fo io ora, per prendere la misura di una fossa non ancora scavata.

 

(Battono alla porta)

 

FRATE LORENZO: Alzati, picchiano alla porta; mio buon Romeo, nasconditi.

ROMEO: Io no, a meno che l’alito dei miei angosciosi sospiri mi avvolga come una nube, e mi sottragga all’indagine degli occhi.

 

(Battono ancora)

 

FRATE LORENZO: Senti, come picchiano! Chi è? Romeo, alzati, sarai arrestato. Aspettate un momento! Alzati: corri nel mio studio.

(Battono ancora) Adesso! Sia fatta la volontà di Dio, che maniera è questa? Vengo, vengo! (Battono) Chi è che batte in questo modo? Da parte di chi venite? Che cosa volete?

NUTRICE (di dentro): Fatemi entrare, e saprete la mia imbasciata; vengo da parte della signora Giulietta.

FRATE LORENZO: Siate la benvenuta, allora.

NUTRICE: Oh, santo frate, oh, ditemi, santo frate, dov’è lo sposo della mia signora dov’è Romeo?

FRATE LORENZO: E’ là per terra ubriaco delle sue lacrime.

NUTRICE: Oh! nello stato identico della mia padrona, proprio nello stato di lei!

FRATE LORENZO: Oh, quale simpatia di dolore! quale pietosa situazione!

NUTRICE: Proprio così essa giace per terra: singhiozzando e piangendo, piangendo e singhiozzando. Alzatevi, alzatevi; alzatevi, se siete un uomo, per amore di Giulietta per amor suo, alzatevi e state in piedi; perché abbandonarsi a così profondi omei?

ROMEO: Nutrice!

NUTRICE: Ah signore! Ah signore! Via, la morte soltanto è la fine di tutto.

ROMEO: Parlavi di Giulietta? Come ha preso la cosa? Non mi crede un provetto assassino, ora che ho macchiato l’infanzia della nostra gioia con un sangue che è quasi il suo? Dov’è? Come sta? e che cosa dice, la mia furtiva sposa, del nostro amore spezzato?

NUTRICE: Oh, essa non dice nulla, signore, non fa che piangere e piangere; ora si lascia cadere sul suo letto, ora balza in piedi ad un tratto, e si mette a chiamare Tebaldo; poi grida il nome di Romeo, e ricade giù un’altra volta.

ROMEO: Quasi che quel nome, scaricatole addosso dalla canna letale di un cannone, l’assassinasse, come la mano maledetta di colui che porta quel nome ha assassinato suo cugino. Oh! ditemi, padre, ditemi: in qual vile parte di questa carcassa alberga il nome mio? ditemelo, ch’io possa mettere a sacco la sua odiosa abitazione.

 

(Sguainando la spada)

 

FRATE LORENZO: Ferma la tua mano disperata! Sei tu un uomo? La tua sembianza grida di sì: ma le tue lacrime sono proprio di una femminuccia; i tuoi atti violenti dimostrano l’insensato furore di una belva. O donna indegnamente nascosta sotto la figura apparente di un uomo! o, meglio, belva deforme sotto l’aspetto di entrambi! Tu mi hai fatto stupire: pel sacro ordine al quale appartengo, io ti credevo di un carattere meglio temprato. Hai ucciso Tebaldo? ed ora vuoi uccidere te stesso? vuoi uccidere la donna tua, che vive della tua vita, commettendo un atto di odio maledetto contro te stesso? Perché maledici la tua nascita, il cielo e la terra? Nascita, cielo e terra, tutti e tre in un solo istante si sono incontrati in te, e tu in un solo istante vuoi perderli? Via, via! tu rechi oltraggio alla tua bella persona, al tuo amore, al tuo senno; di questi doni onde sei tanto ricco, tu, simile all’usuraio, in verità non fai di nessuno quel legittimo uso che dovrebbe ornare anche di più la tua persona, il tuo amore, il tuo senno. La tua bella persona non è che un’immagine di cera, poiché ha fatto divorzio da ciò che è l’essenza umana: il tenero amore che giurasti, altro non è che un perfido spergiuro, poiché uccide la donna che tu hai fatto voto di amare teneramente; il tuo senno, quest’ornamento della bellezza e dell’amore, guastato da loro due, ha preso fuoco per la tua inesperienza, come la polvere dentro la fiasca di un inesperto soldato, e tu squarci le tue membra con l’arma stessa che è la tua propria difesa. Andiamo, alzati, giovinotto! La tua Giulietta vive, la tua cara Giulietta, per amor della quale pur ora morivi: per questa parte dunque tu sei felice. Tebaldo voleva uccidere te, tu, invece, hai ucciso Tebaldo: anche in questo tu sei felice. La legge che ti minacciava di morte, ti si fa amica, e cambia la morte in esilio: tu sei felice anche in ciò. Un sacco di benedizioni, dunque, ti casca addosso dal cielo; la fortuna ti fa la corte, vestita dei suoi abiti più belli; e tu, come una ragazzaccia sgarbata e dispettosa, fai il broncio alla tua fortuna e al tuo amore.

Bada, sta’ attento, perché la gente fatta così finisce male. Andiamo, va’ dalla tua amata, come era stato fissato, sali nella sua camera, e procura di consolarla. Ma bada di non trattenerti fino al momento in cui monta la guardia, poiché allora non potresti più uscire di lì per andare a Mantova, dove tu rimarrai, finché troveremo il momento opportuno per rivelare il vostro matrimonio, per riconciliare i vostri amici, per implorare dal principe il perdono, e poterti far ritornare dall’esilio con una gioia a mille doppi più grande del pianto in mezzo al quale sarai partito. Tu va’ innanzi, nutrice: riveriscimi la tua signora, e dille di mandar tutti quelli di casa a letto presto, cosa alla quale saranno disposti per il dolore che li opprime; Romeo viene.

NUTRICE: O signore mio, sarei rimasta qui tutta la notte ad ascoltare questi buoni consigli: oh, che gran cosa è l’istruzione! Signor mio, dirò alla mia padrona che voi venite.

ROMEO: Diglielo, e avverti la mia diletta che si prepari a farmi una gridata.

NUTRICE: A voi, signore; questo è un anello che essa mi ordinò di dare a voi, signore: sbrigatevi, fate presto, perché si sta facendo molto tardi.

 

(Esce)

 

ROMEO: Oh, come la speranza si ravviva in me per questo dono.

FRATE LORENZO: Va’, buona notte; e ricordati che tutto il vostro destino sta qui: o tu vai via prima che sia montata la guardia, o allo spuntar del giorno fuggi di qui travestito: fermati a Mantova, io farò ricerca del tuo servitore, ed egli ti riferirà di tanto in tanto tutto ciò che di bene per te accade qui. Dammi la mano, è tardi; addio, buona notte.

ROMEO: Se una gioia superiore ad ogni altra non mi chiamasse, per me sarebbe un dolore separarmi da voi così in fretta. Addio.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUARTA – Una stanza in casa Capuleti

(Entrano il CAPULETI, MADONNA CAPULETI e PARIDE)

 

CAPULETI: Che volete, signore, le cose han preso una così brutta piega che noi non abbiamo avuto il tempo di interrogare nostra figlia.

Vedete, essa amava teneramente il suo cugino Tebaldo, ed io lo stesso.

Ebbene, siamo nati per morire. E’ molto tardi, stasera essa non scenderà più: vi garantisco, che se non fosse per la vostra compagnia, io sarei stato a letto da un’ora.

PARIDE: Questi momenti di dolore non lascian tempo di parlare di nozze. Signora, buona notte: ricordatemi alla vostra figliuola.

MADONNA CAPULETI: Lo farò, e domattina per tempo saprò il suo pensiero; questa sera essa si è chiusa nel suo dolore.

CAPULETI: Ser Paride, io vi faccio risolutamente offerta formale dell’amore di mia figlia: credo che essa si lascerà regolare da me in tutto e per tutto, anzi, non ne dubito. Moglie mia, voi prima di andare a letto recatevi da lei; fatele noto l’amore di mio figlio Paride, ed avvertitela; statemi bene attenta che mercoledì prossimo…

ma adagio, che giorno è oggi?

PARIDE: Lunedì, signore mio.

CAPULETI: Lunedì? eh, eh! allora mercoledì è troppo presto: sarà per giovedì, ditele che giovedì ella sarà maritata a questo nobile conte… Voi sarete pronto? Vi fa piacere questa sollecitudine? Non faremo gran festa: un amico o due, perché, vedete, essendo così poco tempo che Tebaldo è stato ucciso, si potrebbe pensare che c’importasse poco di lui, benché nostro cugino, se si facessero delle feste molto rumorose: perciò una mezza dozzina di amici e basta. Ma che cosa dite di giovedì?

PARIDE: Signor mio, vorrei che giovedì fosse domani.

CAPULETI: Sta bene, andate pure: allora siamo intesi per giovedì.

Moglie mia, prima di andare a letto recatevi da Giulietta, e preparatela al giorno delle nozze che abbiamo fissato per lei. Addio, signore. Fate lume alla camera mia! ehi! In fede mia è così tardi, che fra poco si potrebbe dire che è presto. Buona notte.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUINTA – Il giardino dei Capuleti

(Entrano ROMEO e GIULIETTA in alto, alla finestra di camera)

 

GIULIETTA: Vuoi già partire? Il giorno non è ancora vicino: era l’usignolo, e non l’allodola, quello che ti ha ferito col suo canto l’orecchio trepidante; esso canta tutte le notti su quel melograno laggiù: credi, amor mio, era l’usignolo.

ROMEO: Era l’allodola, messaggera del mattino, non l’usignolo: guarda, amore, come quelle strisce di luce invidiose della nostra gioia, cingono di una frangia luminosa le nubi che si disperdono laggiù nell’oriente; i lumi della notte si sono spenti a poco a poco, e il dì giocondo si affaccia in punta di piedi sulle nebbiose cime delle montagne: io debbo partire e vivere, o restare e morire.

GIULIETTA: Quella luce laggiù non è la luce del giorno, io lo so bene:

è qualche meteora che il sole emana, affinché stanotte essa ti sia come una face, e rischiari la via a te in cammino per Mantova; perciò rimani ancora; non è vero che tu devi partire ad ogni costo.

ROMEO: Mi prendano pure, mi mettano a morte: io sono contento, se tu vuoi così. Dirò che quel barlume laggiù non è l’occhio del mattino, ma il pallido riflesso della fronte di Cinzia; dirò che non è l’allodola quella che ferisce coi suoi accenti la volta del cielo, su in alto sopra le nostre teste: io ho più desiderio di rimanere che volontà di partire: vieni, o morte, e sii la benvenuta! Giulietta vuol così. Va bene, anima mia? discorriamo, non è ancor giorno.

GIULIETTA: E’ giorno, è giorno: parti, fuggi di qua, presto! è l’allodola quella che canta in sì discordi accenti, sforzando la sua voce a striduli suoni e sgradevoli acuti. Dicono che l’allodola canta come da una dolce partitura: questa no, poiché partisce noi due; dicono che l’allodola e l’aborrito rospo hanno fatto scambio degli occhi: oh, in questo momento io vorrei che si fossero scambiata anche la voce! poiché quella voce ci strappa con terrore l’una dalle braccia dell’altro e scaccia di qui te sonando la sveglia al giorno. Ah, parti, ora: la luce si fa sempre più chiara.

ROMEO: Più chiara, sempre più chiara; e di più in più cupi i nostri dolori!

 

(Entra in camera la Nutrice)

 

NUTRICE: Signora!

GIULIETTA: Nutrice?

NUTRICE: Vostra madre viene in camera vostra: il giorno è spuntato; siate prudente, fate attenzione.

 

(Esce)

 

GIULIETTA: Su via, finestra, lascia entrare il giorno ed uscire la mia vita.

ROMEO: Addio, addio, un bacio e scendo.

 

(Romeo scende)

 

GIULIETTA: Sei dunque partito così? amor mio, mio signore, ah, mio marito, amico mio! Tu mi devi mandare tue notizie ogni giorno che c’è in un’ora poiché in un solo minuto vi sono più giorni: oh! contando le ore così, sarò già vecchia prima di rivedere il mio Romeo!

ROMEO: Addio! Io non mi lascerò sfuggire nessuna occasione, amor mio, che possa portarti i miei saluti.

GIULIETTA: Oh! dimmi, pensi tu che noi ci rivedremo mai più?

ROMEO: Non ne dubito; e tutte queste angosce, un giorno, saranno per noi due argomento di dolci discorsi.

GIULIETTA: O Dio! Io ho nell’anima una triste visione. Mi par di vederti, ora che sei costaggiù, come se tu fossi un morto in fondo ad una tomba; o la vista m’inganna, o tu sembri pallido.

ROMEO: E credimi, amor mio, anche tu, agli occhi miei, sembri così:

l’angoscia sitibonda beve il nostro sangue. Addio! Addio!

 

(Esce)

 

GIULIETTA: O fortuna, fortuna! tutti gli uomini ti chiamano incostante; se tu sei incostante, che ti importa di lui, famoso per la sua fedeltà? Sii incostante, o fortuna; poiché allora io spero che tu non lo terrai lontano per lungo tempo, ma lo rimanderai presto.

MADONNA CAPULETI (di dentro): Figlia mia! sei alzata?

GIULIETTA: Chi è che chiama? è mia madre? Ancora non è andata a letto, sebbene sia così tardi, oppure si è alzata così presto? Quale insolita ragione la conduce qui?

 

(Entra MADONNA CAPULETI)

 

MADONNA CAPULETI: Ebbene, come va ora, Giulietta?

GIULIETTA: Signora, non sto bene.

MADONNA CAPULETI: Ancora piangi per la morte di tuo cugino? Che cosa credi, di portarlo via dalla sua tomba col fiotto delle tue lacrime? E se anche tu potessi portarlo via, non potresti mica farlo rivivere; dunque smetti: un dolore moderato è segno di molto affetto, ma un dolore esagerato è sempre indizio di poco senno.

GIULIETTA: Lasciate, tuttavia, che io pianga una perdita così sensibile.

MADONNA CAPULETI: Facendo così sentirai la perdita, ma non già l’amico per il quale tu piangi.

GIULIETTA: Sentendo così amaramente la sua perdita, io non posso fare altro che pianger sempre l’amico.

MADONNA CAPULETI: Ebbene, fanciulla mia, tu non piangi tanto per la morte di lui, quanto perché sai che è vivo il ribaldo che lo ha ucciso.

GIULIETTA: Quale ribaldo, signora?

MADONNA CAPULETI: Proprio quel ribaldo che si chiama Romeo.

GIULIETTA (a parte): La ribalderia e lui sono separati da molte miglia di distanza. Dio gli perdoni! Io gli perdono con tutto il cuore; e pure non c’è uomo che mi strazi il cuore al pari di lui.

MADONNA CAPULETI: Questo è perché il traditore assassino vive ancora.

GIULIETTA: E’ vero, signora: perché egli vive lungi dalla portata di queste mie mani. Oh! potessi io sola vendicare, a modo mio, la morte del mio cugino!

MADONNA CAPULETI: Ne avremo vendetta, non aver paura: perciò non piangere più. Manderò da una persona in Mantova, dove si trova quel bandito vagabondo, la quale gli somministrerà una bevanda così straordinaria, ch’egli anderà presto a tenere compagnia a Tebaldo: e allora, spero, tu sarai soddisfatta.

GIULIETTA: In verità, io non sarò mai soddisfatta, finché non vedrò Romeo… morto… il mio povero cuore sarà torturato così per un parente! Signora, sol che voi poteste trovare un uomo che procurasse un veleno, penserei io a prepararlo in modo che Romeo, appena l’avesse tirato giù, si addormenterebbe subito in pace. Oh! come il mio cuore aborre dal sentirlo nominare, e quanto mi duole di non potere andare a trovarlo per sfogare l’amore che portavo a mio cugino sul corpo di colui che lo ha ucciso!

MADONNA CAPULETI: Tu trova i mezzi, ed io troverò l’uomo che ci vuole.

Ma ora, fanciulla, debbo darti delle notizie piene di gioia.

GIULIETTA: La gioia viene a proposito in un momento in cui ce n’è tanto bisogno. Vi prego, signora, quali sono queste notizie?

MADONNA CAPULETI: Ecco, ecco, tu hai un padre amoroso, fanciulla; un padre che per levarti dalla tua tristezza, ti ha destinato improvvisamente un giorno di gioia, che tu non ti aspetti, e che io stessa non prevedevo.

GIULIETTA: Ma in buon’ora, madonna, che cos’è questo giorno?

MADONNA CAPULETI: Ecco, fanciulla mia, giovedì prossimo, di buon mattino, il prode, giovine, e nobile gentiluomo, il conte Paride, avrà la fortuna di far di te una lieta sposa nella chiesa di San Pietro.

GIULIETTA: Ah no! per la chiesa di San Pietro, e per San Pietro stesso, egli non farà di me la sua lieta sposa in quel luogo. Io mi meraviglio di questa fretta, mi meraviglio ch’io debba andare a nozze, prima che l’uomo il quale dovrebbe essere mio marito sia mai venuto a farmi la sua corte. Ve ne prego, signora, dite al mio signore e padre che io ancora non ho intenzione dl prender marito, e che quando l’avrò, questi, lo giuro, sarà Romeo, che voi sapete che io odio, piuttosto che Paride. Queste sono belle notizie davvero!

MADONNA CAPULETI: Ecco qui vostro padre; diteglielo da voi stessa, e vedete un po’ come egli la prende.

 

(Entrano il CAPULETI e la Nutrice)

 

CAPULETI: Quando il sole tramonta, la terra stilla rugiada; ma pel tramonto del figlio di mio cognato piove a dirotto. Ebbene! sei divenuta una grondaia, fanciulla mia? Come, ancora in lacrime? Ancora ti sciogli in pianto? Nella tua piccola persona tu raffiguri, ad un tempo, una barca, il mare, e il vento: infatti negli occhi tuoi, che io chiamerei il mare, c’è un incessante flusso e riflusso di lacrime, il tuo corpo è la barca, che veleggia in mezzo a quell’onda salata, e i tuoi sospiri sono i venti. E i sospiri infuriando contro le lacrime, e queste contro quelli, se non sopraggiunge una improvvisa bonaccia, travolgeranno il tuo corpo sbattuto dalla tempesta. Ebbene moglie mia, le avete annunziato la nostra decisione?

MADONNA CAPULETI: Sì, signore, ma essa non ne vuol sapere, e vi ringrazia. Ben le starebbe, alla stolta, di sposarsi la sua tomba!

CAPULETI: Adagio! lasciatemi il tempo di capire! lasciatemi il tempo di capire, moglie mia. Come! non ne vuol sapere? e non ci ringrazia, invece? Non è orgogliosa? non si reputa felice, indegna com’è, che noi siamo riusciti a darle in isposo un gentiluomo così degno?

GIULIETTA: Non ne sono orgogliosa, ma ve ne sono grata: non potrei essere mai orgogliosa di ciò che è per me una cosa aborrita; ma posso essere riconoscente anche di una cosa aborrita, che mi è fatta per amore.

CAPULETI: Come? come? spigolistra! Che cosa è questo “sono orgogliosa”, questo “vi ringrazio” e “non vi ringrazio”; e poi ancora:

“non sono orgogliosa”? Voi, bellina mia, risparmiatevi pure i vostri ringraziamenti e serbate per voi i vostri orgogli; pensate, piuttosto a tener pronte per giovedì prossimo le vostre belle gambine, per andare insieme con Paride alla chiesa di San Pietro, altrimenti ti ci trascino io sopra un graticcio. Vattene, clorotica carogna! Via di casa, bagascia, faccia di sego!

MADONNA CAPULETI: Via, via! ma che siete pazzo?

GIULIETTA: Padre mio, ve ne supplico in ginocchio, abbiate la pazienza di ascoltare una sola parola.

CAPULETI: Impiccati, sgualdrinella! sciagurata ribelle! Bada bene a quello che ti dico: o giovedì tu vai in chiesa, o non guardarmi mai più in faccia; non parlare, non replicare, non rispondere, mi prudono le mani! Moglie mia, noi non ci credevamo abbastanza felici, perché Dio ci aveva mandato soltanto questa figlia; ma ora veggo che anche quest’una è troppo, e che l’averla fu per noi una maledizione. Al diavolo, sbrindellona!

NUTRICE: Dio che è in cielo la benedica! Voi avete torto, signore mio, a trattarla così.

CAPULETI: Eccola, la signora dottoressa! tenete a casa la vostra lingua, monna Prudenza: ciarlate con le vostre comari, andate.

NUTRICE: Non è un delitto, quello ch’io dico.

CAPULETI: Oh, Dio vi danni!

NUTRICE: Non si può parlare?

CAPULETI: Zitta, vi dico, borbottona, imbecille! Andate a sciorinare le vostre sentenze fra una tana e l’altra, con le vostre comari, poiché qui non ne abbiamo bisogno.

MADONNA CAPULETI: Voi vi scaldate troppo.

CAPULETI: Per l’ostia santa! io ci divento matto: di giorno, di notte, ad ogni ora, ad ogni minuto, ad ogni istante, durante le mie occupazioni, in mezzo ai divertimenti, solo o in compagnia, il mio pensiero è stato sempre quello di vederla maritata: ed ora che le ho trovato un gentiluomo, di nobile famiglia, che ha un bel patrimonio, è giovane, nobilmente educato, che è zeppo, come si dice, di eccellenti qualità, compìto quanto si potrebbe desiderare che fosse un uomo, ha da venire una sciagurata scioccherella che frigna sempre, una bambola piagnucolosa, che quando le si offre la sua fortuna, vi risponde: “non voglio maritarmi!; io non posso amare, sono troppo giovane; vi prego di perdonarmi”. Ma se voi non volete maritarvi, lo vedrete come io vi perdono: andate a mangiar l’erba dove vi piacerà, voi non starete più in casa con me: badate, pensateci bene, io non sono uso a scherzare.

Giovedì è vicino; mettetevi una mano sul cuore e riflettete. Se fate a modo mio, io vi darò al mio amico; se no, impiccati, va’ a chiedere l’elemosina, crepa di fame, muori in mezzo alla strada, poiché, per l’anima mia, io non ti riconoscerò più per figlia, e nulla di quanto è roba mia apparterrà mai a te. Credi a quel che ti dico, e rifletti; io manterrò la mia parola.

 

(Esce)

 

GIULIETTA: Oh! non c’è un Dio pietoso, lassù in mezzo alle nubi, il quale vegga in fondo al mio dolore? O buona madre mia, non mi abbandonate! Ritardate questo matrimonio di un solo mese, di una sola settimana; o se no, preparatemi il letto nuziale in quella buia tomba dove giace Tebaldo.

MADONNA CAPULETI: Non mi parlare, perché non ti risponderò una sola parola: fa’ quello che ti pare, di te non ne voglio più sapere.

 

(Esce)

 

GIULIETTA: O Dio! Nutrice mia, come si potrà impedire ciò? Il mio sposo è quaggiù in terra, la fede che io gli ho giurato è su in cielo; come potrà quella fede ritornare in terra, a meno che il mio sposo non me la rimandi giù dal cielo abbandonando la terra? Fammi coraggio, consigliami! Ahimè, ahimè! è possibile che il cielo tenda di questi inganni a una povera creatura debole come me? Che cosa dici? Non hai una parola che mi consoli? Un po’ di conforto, nutrice.

NUTRICE: In fede mia, eccovela: Romeo è esiliato, ed io ci scommetto il mondo intero contro nulla, ch’egli non oserà mai tornare qui a reclamarvi; o se lo farà, bisogna che lo faccia di nascosto. Allora, poiché le cose purtroppo stanno così, io credo che il miglior partito sia quello che voi sposiate il conte. Oh! egli è un amabile gentiluomo! Romeo, in confronto a lui, è uno strofinaccio! un’aquila, signora mia, non ha l’occhio così verde, così vivo, così bello come quello di Paride. Maledetta l’anima mia, se io non credo che per voi questo secondo partito sia una fortuna, poiché è molto migliore del primo: d’altronde se anche non fosse, il vostro primo marito è morto, o tanto varrebbe che fosse morto, poiché anche vivo in questo mondo, non vi serve a nulla.

GIULIETTA: Parli col cuore?

NUTRICE: Col cuore e con l’anima; e se non è vero, siano maledetti tutti e due!

GIULIETTA: Amen!

NUTRICE: Come?

GIULIETTA: Ebbene, tu mi hai consolata a meraviglia. Va’, e di’ alla signora che io, avendo recato dispiacere a mio padre, sono andata alla cella di frate Lorenzo a confessarmi e a prendere l’assoluzione.

NUTRICE: Per la Madonna, vado subito; questa è una cosa fatta con giudizio.

 

(Esce)

 

GIULIETTA: Vecchia dannata! Iniquissimo demonio! Io non so se ella commetta un peccato più grande col voler fare di me in questo modo, una spergiura, o calunniando così lo sposo mio, con quella medesima lingua, con la quale tante migliaia di volte lo ha esaltato, mettendolo al di sopra di ogni confronto. Vattene pure, consigliera!

tu ed il mio cuore da questo momento siete due cose che non hanno più niente di comune. Andrò a trovare il frate per sentire qual è il rimedio che egli ha per me; se ogni altro venga a mancare ne ho uno in mio potere: morire.

 

(Esce)

 

 

 

ATTO QUARTO

SCENA PRIMA – La cella di Frate Lorenzo

(Entrano Frate LORENZO e PARIDE)

 

FRATE LORENZO: Giovedì, signore? il tempo è assai breve.

PARIDE: Mio padre Capuleti vuole che sia così; ed io non ho nessuna ragione d’esser pigro, e di rallentare la sua fretta.

FRATE LORENZO: Voi dite che non conoscete i sentimenti della fanciulla a vostro riguardo: questo modo di procedere non è regolare; non mi piace.

PARIDE: Ella piange senza moderazione per la morte di Tebaldo, e però io le ho potuto parlare ben poco d’amore, poiché Venere non sorride in una casa di lacrime Ora, signore, suo padre stima pericoloso ch’essa si lasci dominare così dal dolore; e nella sua saggezza affretta il nostro matrimonio per mettere un argine alla piena delle sue lacrime.

Stando così sola sola, ella dà troppo mente ad un dolore che potrebbe essere allontanato da lei con la compagnia. Ed ora voi conoscete la ragione di questa fretta.

FRATE LORENZO (a parte): Così io non conoscessi la ragione per cui essa dovrebbe essere rallentata! – Guardate, signore, ecco la fanciulla, che viene verso la mia cella.

 

(Entra GIULIETTA)

 

PARIDE: Felice incontro, questo, mia signora e mia sposa!

GIULIETTA: Ciò potrà essere, signore, quando io potrò essere sposa.

PARIDE: E questo potrà essere, anzi deve essere, giovedì prossimo, amor mio GIULIETTA: Ciò che deve essere sarà.

FRATE LORENZO: Questa è una massima sicura.

PARIDE: Venite dal padre per confessarvi?

GIULIETTA: Per rispondere a ciò, dovrei confessarmi con voi.

PARIDE: Non gli negate che voi mi amate.

GIULIETTA: Confesserò, invece, a voi che io amo lui.

PARIDE: E confesserete anche, ne sono sicuro, che voi mi amate.

GIULIETTA: Se veramente io vi amo, la mia confessione avrà più valore s’io lo dico dietro le spalle vostre, che in faccia a voi.

PARIDE: Povera anima, il tuo viso è molto sciupato dalle lacrime.

GIULIETTA: Le lacrime hanno riportato, con ciò, una ben piccola vittoria: poich’esso era già discretamente brutto, prima d’essere offeso dalla loro rabbia.

PARIDE: Tu lo offendi anche più delle lacrime con cotesta affermazione.

GIULIETTA: Non è calunnia, signore, la verità: e ciò che ho detto, l’ho detto al mio viso.

PARIDE: Il tuo viso appartiene a me, e tu lo hai calunniato.

GIULIETTA: Potrebbe anch’essere, poiché non appartiene a me. Siete comodo ora, padre santo, o debbo ritornare da voi stasera dopo la funzione?

FRATE LORENZO: Io son comodo ora, mia pensosa figliuola. Signore, abbiamo bisogno di restar soli un momento.

PARIDE: Dio mi guardi dal recare disturbo in un momento di devozione!

Giulietta, giovedì di buon mattino verrò a svegliarvi, addio fino allora e tenete questo bacio rispettoso.

 

(Esce)

 

GIULIETTA: Oh! chiudi la porta, e quando l’hai chiusa, vieni a piangere con me: non c’è speranza, non c’è rimedio, non c’è soccorso!

FRATE LORENZO: Ah! Giulietta, conosco già il tuo dolore; esso mi strazia in modo superiore alle forze del mio spirito; sento che giovedì prossimo, e nulla può prorogarlo, tu dovrai essere maritata a questo conte.

GIULIETTA: Non me lo dire padre, che tu hai sentito questo, se non sai dirmi anche come io posso impedirlo: se nella tua saggezza non puoi darmi nessun soccorso, di’ almeno che la mia risoluzione è saggia, ed io con questo coltello vi metterò rimedio all’istante. Dio ha unito il mio cuore e quello di Romeo, tu le nostre mani; e prima che questa mano, che per opera tua ha suggellato la mia unione con Romeo, sia il suggello di un altro atto, o il mio cuore leale con una perfida ribellione si volga ad un altro, questo coltello trafiggerà mano e cuore; perciò con la lunga esperienza della tua vita dammi un pronto consiglio; se no, guarda, fra la mia disperazione e me sarà arbitro questo coltello di sangue, decidendo di ciò che l’autorità dei tuoi anni e della tua scienza non seppero condurre ad una fine veramente onorevole. Non indugiare così a parlare; a me tarda il morire, se ciò che tu dici non è una parola di rimedio.

FRATE LORENZO: Calmati, figlia mia; io veggo una sorta di speranza, ma essa richiede una esecuzione disperata, come è disperata l’azione che noi vorremmo impedire. Se proprio, piuttosto che sposare il conte Paride, tu hai la forza di volontà di ucciderti, allora è probabile che tu, che sfidi la morte stessa per sottrarti a quell’onta, voglia, pur di respingerla lontana da te, avventurarti ad una prova che ha somiglianza con la morte. Se tu hai il coraggio, io ti darò il rimedio.

GIULIETTA: Oh! piuttosto che sposare il conte Paride dimmi di spiccare un salto dai merli di quella torre laggiù, o ch’io passeggi per vie battute dai ladri; dimmi ch’io mi appiatti dove han nido le serpi; incatenami insieme con orsi che ruggiscano, o chiudimi di notte in un ossario pieno zeppo di scricchiolanti ossa di morti, di putridi stinchi e di gialli crani scarniti; dimmi di entrare in una fossa recente e di nascondermi insieme col morto nel suo stesso lenzuolo; cose, tutte queste, che mi hanno sempre fatto rabbrividire soltanto a sentirle raccontare; ed io le farò tutte senza paura, senza esitazione, pur di rimanere la sposa incontaminata del dolce amor mio.

FRATE LORENZO: Senti, dunque: torna a casa, mostrati allegra, e acconsenti a sposare Paride: domani è mercoledì; domani notte cerca di dormir sola, e non lasciare che la nutrice venga a dormire con te nella tua camera; quando sei in letto, prendi questa ampolla, e bevi questo liquore preparato: subito ti correrà per tutte le vene un fluido freddo che addormenterà in te la vita; poiché il polso non conserverà più il suo movimento regolare, ma cesserà di battere:

nessun calore, non un respiro, attesteranno che tu vivi; le rose delle tue labbra e delle tue guance appassiranno e si faranno pallide come la cenere; sugli occhi ti cadrà il velo delle palpebre, come quando la morte chiude il giorno della vita. Ogni membro del tuo corpo, privato della padronanza del movimento e della flessibilità, rigido, intirizzito e freddo, avrà l’aspetto della morte: sotto questa temporanea sembianza di mortale rattrappimento tu resterai per quarantadue ore, e quindi ti desterai come da un placido sonno. Ora, quando lo sposo la mattina viene per farti alzare dal letto, tu sei lì morta: allora, secondo il costume del nostro paese, vestita dei tuoi abiti più belli, e distesa scoperta sulla bara, sarai portata a quella stessa antica volta sotterranea dove giacciono sepolti tutti i congiunti dei Capuleti. Intanto prima che tu ti desti, Romeo informato da una mia lettera del nostro disegno, verrà qua; lui ed io spieremo il tuo ridestarti, e in quella notte stessa Romeo ti condurrà via a Mantova. Così, se un capriccio del momento o una paura da femminetta non la vinceranno sul tuo coraggio all’istante della esecuzione, tu sarai salva dall’imminente disonore.

GIULIETTA: Dammi qua, dammi qua! Oh, non mi parlare di paura!

FRATE LORENZO: Tieni, vattene subito, e sii forte e felice in questa tua risoluzione: io manderò in fretta un fratello a Mantova con una lettera per tuo marito.

GIULIETTA: Amore, dammi tu forza! e la forza mi porgerà aiuto. Addio, caro padre!

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA – Una sala in casa Capuleti

(Entrano il CAPULETI, MADONNA CAPULETI, la Nutrice e due Servi)

 

CAPULETI: Inviterai tutte le persone che sono scritte qui. (Il Servo esce) Tu, giovanotto, vammi a fissare venti abili cuochi.

SECONDO SERVO: Non ne avrete neppur uno che sia un cattivo cuoco, signore, poiché io li metterò alla prova, per vedere se sanno leccarsi le dita.

CAPULETI: E come puoi provare se son bravi, facendo così?

SECONDO SERVO: Sfido, signore: è un cattivo cuoco quello che non sa leccarsi le dita e allora chi non se le sa leccare, non viene con me.

CAPULETI: Via, vattene. (Il Servo esce) Saremo assai sprovvisti in questa circostanza. Come, mia figlia è andata da frate Lorenzo?

NUTRICE: Sì, davvero.

CAPULETI: Bene, bene, potrebbe essere ch’egli le giovasse un poco: è una sgualdrina stizzosa e ostinata.

 

(Entra GIULIETTA)

 

NUTRICE: Guardate, eccola qua che ritorna dalla confessione tutt’allegra.

CAPULETI: Ebbene, che c’è, signora testarda? Dove siete stata a vagabondare?

GIULIETTA: Dove ho imparato a pentirmi del peccato di disobbediente resistenza a voi ed ai vostri comandi, e dove mi è stato ingiunto dal buon padre Lorenzo di prostrarmi qui ai vostri piedi e di domandarvi perdono: perdonatemi, ve ne scongiuro! D’ora innanzi mi lascerò sempre guidare da voi.

CAPULETI: Mandate per il conte, andate, avvertitelo di questo: voglio che questo nodo sia stretto domattina GIULIETTA: Alla cella di frate Lorenzo ho incontrato il giovane conte e gli ho dato quelle prove d’affetto convenienti che potevo dargli senza uscire dai limiti della modestia.

CAPULETI: Via, sono contento, così va bene: alzati; questo è il modo come le cose devono andare. Fatemi vedere il conte; sì, diamine, andate, dico, e conducetelo qui. Ed ora, lo dichiaro davanti a Dio, tutta la intera città dev’essere molto obbligata a questo frate venerando e benedetto.

GIULIETTA: Nutrice, volete venire con me nella mia stanza, per aiutarmi a scegliere gli ornamenti necessari che vi sembreranno adattati per abbigliarmi domani?

MADONNA CAPULETI: No, fino a giovedì no: c’è abbastanza tempo.

CAPULETI: Andate, nutrice, andate pure con lei: domani anderemo in chiesa.

 

(Escono Giulietta e la Nutrice)

 

MADONNA CAPULETI: Saremo a corto dell’occorrente: ormai è quasi notte.

CAPULETI: Ma che! mi darò attorno io stesso ed ogni cosa anderà bene, te lo garantisco io, moglie mia: va’ da Giulietta, e aiutala ad abbigliarsi; stanotte io non vado a letto; lasciami solo: per questa volta voglio farla da massaia. Olà! ehi! son tutti fuori; ebbene arriverò io stesso dal conte Paride a prepararlo per domani: mi sento l’animo straordinariamente sollevato, ora che quella pazzerella ha messo giudizio a questo modo.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA – La camera di Giulietta

(Entrano GIULIETTA e la Nutrice)

 

GIULIETTA: Sì, quell’abito è il più adatto: ma, te ne prego, mia buona nutrice, stanotte lasciami sola, poiché ho bisogno di fare molte preghiere, per impetrare dal cielo che voglia sorridere alla situazione nella quale mi trovo, che, come tu sai bene, è trista e piena di peccato.

 

(Entra MADONNA CAPULETI)

 

MADONNA CAPULETI: Come, siete ancora occupata, eh? avete bisogno del mio aiuto?

GIULIETTA: No, signora; abbiamo già scelto quanto sarà necessario e conveniente per il mio abbigliamento di domani: se non vi dispiace, ora, permettete che io rimanga sola, e stanotte lasciate che la nutrice stia alzata insieme con voi, poiché son certa che voi avrete le mani molto impicciate per quest’improvviso avvenimento.

MADONNA CAPULETI: Buona notte; va’ a letto e riposati, che ne hai bisogno.

 

(Escono Madonna Capuleti e la Nutrice)

 

GIULIETTA: Addio! Dio sa quando noi ci rivedremo. Mi sento correre per le vene un leggero brivido freddo di paura, che quasi agghiaccia il calore della vita: le richiamerò per prendere un po’ di coraggio.

Nutrice! Ma che farebbe qui? Io debbo assolutamente esser sola a recitare la mia lugubre scena. Vieni, o ampolla. E se questa miscela non avesse alcun effetto? Domattina dovrò maritarmi? No, no: questo lo impedirà. Resta qui tu. (Posando un pugnale) Ma se fosse un veleno che il frate mi ha somministrato, astutamente, per farmi morire, per paura di disonorarsi con questo matrimonio avendomi già maritata a Romeo? Io ho paura che sia proprio un veleno: ma d’altra parte, penso, ciò non può essere affatto, perch’egli è stato conosciuto sempre per un santo uomo. Che succederà se, quando io sarò nella tomba, mi sveglio prima che Romeo venga a liberarmi? Ecco un terribile punto! Non sarò io soffocata dentro quella volta sotterranea nella cui fetida bocca non entra un alito di aria pura, e là dentro non morrò strozzata, prima che venga il mio Romeo? O, se rimango viva, non è molto probabile che l’orribile idea della morte e della notte, insieme col terrore del luogo, di quel sotterraneo, che è un antico ricettacolo dove per molte centinaia d’anni si sono ammucchiate le ossa di tutti i miei antenati sepolti, dove l’insanguinato Tebaldo, ancor fresco in terra, giace putrefacendosi; dove, come dicono, a una cert’ora della notte hanno ritrovo gli spiriti; ahimè, ahimè, non è egli probabile che io, svegliandomi troppo presto, in mezzo a sozzi odori e a strilli come quelli della mandragora strappata dalla terra, che fanno diventar pazzi i mortali che li odono: oh, se mi sveglio allora, non perderò io la ragione, circondata da tutti questi orribili terrori? E non mi metterò, come una pazza, a giocare con le ossa dei miei padri? E non strapperò dal funebre lenzuolo le membra straziate di Tebaldo? E in questo accesso di furore brandendo, come una clava, un osso di qualche mio vecchio antenato non mi farò schizzar fuori dalla testa le mie pazze cervella? Oh, guarda, mi par di vedere l’ombra del mio cugino che insegue Romeo, il quale lo infilzò con la punta dello stocco:

ferma, Tebaldo, ferma! Romeo, eccomi! Questo lo bevo a te.

 

(Si getta sul letto)

 

 

 

SCENA QUARTA – Una sala in casa Capuleti

(Entrano MADONNA CAPULETI e la Nutrice)

 

MADONNA CAPULETI: Tieni, nutrice, prendi queste chiavi, e metti fuori delle altre spezie.

NUTRICE: Il pasticcere, in cucina, chiede datteri e mele cotogne.

 

(Entra il CAPULETI)

 

CAPULETI: Andiamo, movetevi, movetevi, movetevi! il gallo ha cantato già la seconda volta, la campana ha suonato, sono le tre. Abbi un occhio ai piatti al forno, mia buona Angelica: non risparmiare spese.

NUTRICE: Andate via, faccendone, andatevene a letto; in fede mia, domani starete male, per essere stato su stanotte.

CAPULETI: No, niente affatto: ma che! Altre volte, prima di questa, ho fatto nottata per ragioni meno importanti, e non mi sono mai sentito male.

MADONNA CAPULETI: Eh! sì, al tempo vostro siete stato un cacciatore di gonnelle; ma d’ora in poi veglierò io a che non facciate dl codeste veglie.

 

(Escono Madonna Capuleti e la Nutrice)

 

CAPULETI: La donna gelosa! la donna gelosa!

 

(Entrano dei Servi portando spiedi, legna e canestri)

 

Ebbene, giovinotto, che cos’è cotesta roba?

PRIMO SERVO: Roba per il cuoco, signore, ma non so che cosa.

CAPULETI: Fate presto, fate presto. (Il Servo esce) Tu, galantuomo, va’ a prendere della legna più secca: chiama Pietro, che t’insegnerà dove si trova.

SECONDO SERVO: Ho anch’io il capo sulle spalle, signore, e saprò trovare della legna, senza aver bisogno di seccar Pietro per questo.

 

(Esce)

 

CAPULETI: Ben detto, per la messa! Costui è un allegro briccone, eh !

ti nomineremo capo… di legno. Affeddidio, è giorno: il conte sarà presto qui con la musica, poiché m’ha detto che l’avrebbe menata con sé. (Musica di dentro) Lo sento, è qui. Nutrice! Moglie! Olà eh! Olà, nutrice, dico!

 

(Rientra la Nutrice)

 

Va’ a svegliare Giulietta, va’ e aiutala ad abbigliarsi; io anderò a chiacchierare con Paride: sbrigati, presto, presto! lo sposo è già venuto: presto, dico.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUINTA – La camera di Giulietta

(GIULIETTA è distesa sul suo letto. Entra la Nutrice)

 

NUTRICE: Signora! Su via, signora! Giulietta! Posso garantire che dorme la grossa! Su, agnellino! Via, signorina! ah, dormigliona!

ebbene, dico, amor mio! Padroncina! cuore mio! andiamo, signora sposa!

Come, nemmeno una parola? Volete farvi la vostra provvista ora, eh?

dormite pure per una settimana: poiché stanotte, ve lo garantisco, il conte Paride riposa nell’idea che voi dobbiate riposare ben poco. Dio mi perdoni, madonna, ed amen, come dorme profondamente! Debbo svegliarla in tutti i modi. Signora, signora, signora! Sì, lasciatevi trovare a letto dal conte, e poi vedrete in fede mia, s’egli vi fa alzare su dallo spavento! Non sarà così? Come? vi siete vestita e abbigliata, e poi vi siete messa giù di nuovo? Debbo svegliarvi ad ogni costo! Signora! signora! signora! Ahimè! ahimè! Aiuto, aiuto! la mia signora è morta! Oh maledetto giorno! ch’io non fossi mai nata! un po’ d’acquavite, olà! Signore mio! Signora mia!

 

(Entra MADONNA CAPULETI)

 

MADONNA CAPULETI: Che cos’è questo chiasso?

NUTRICE: O giorno di pianto!

MADONNA CAPULETI: Che cos’è stato?

NUTRICE: Guardate, guardate! O sventurato giorno!

MADONNA CAPULETI: Povera me, povera me! Figlia mia, mia unica vita, rivivi, riapri gli occhi o io morrò insieme con te. Aiuto! aiuto!

chiamate aiuto!

 

(Entra il CAPULETI)

 

CAPULETI: Che vergogna è questa? menate fuori Giulietta: il suo sposo è già arrivato.

NUTRICE: Essa è morta! è morta! è morta! Dio mio!

MADONNA CAPULETI: Dio mio, essa è morta! è morta! è morta!

CAPULETI: Ah! lasciatemela vedere! E’ finita, ahimè! è già fredda, il sangue s’è arrestato e le membra sono irrigidite; la vita e le sue labbra si sono lasciate da un pezzo. La morte si è posata sopra di lei, come una brina fuori di stagione sul fiore più gentile di tutto il campo.

NUTRICE: O giorno di pianto!

MADONNA CAPULETI: O momento di strazio!

CAPULETI: La morte, che me l’ha portata via per farmi gemere di dolore, mi incatena la lingua e non mi permette di parlare.

 

(Entrano Frate LORENZO e PARIDE coi Sonatori)

 

FRATE LORENZO: Andiamo, la sposa è pronta per andare in chiesa?

CAPULETI: Pronta per andarci, ma per non ritornare mai più. (A Paride) O figlio mio, la notte innanzi alle tue nozze la Morte è stata nel letto della tua fidanzata: eccola qui distesa, fiore, quale ella era, disfiorato dall’amplesso di lei. La Morte è mio genero, la Morte è mia erede; essa ha sposato mia figlia: io morrò e lascerò tutto a lei; la mia vita, i miei beni, tutto è della Morte.

PARIDE: Ho dunque atteso con tanta ansietà di vedere spuntare questo giorno, ed esso mi offre uno spettacolo come questo?

MADONNA CAPULETI: O giorno maledetto, fatale sciagurato, abominevole!

Ora, la più disgraziata che il tempo abbia mai visto nell’eterna fatica del suo pellegrinaggio! Non avevo che una figlia, soltanto una povera figlia, un’unica povera adorata figlia, la sola cosa nella quale io vedevo tutta la mia gioia e tutta la mia consolazione, e la Morte crudele l’ha strappata agli occhi miei!

CAPULETI: O sventurato, sventurato, sventurato giorno! Il più doloroso, il più sventurato giorno, che io abbia mai, mai visto ancora! O giorno! O giorno! O giorno! O abominevole giorno! Mai fu veduto, ancora, un giorno brutto come questo: o sventurato giorno, o sventurato giorno!

PARIDE: Tradito, costretto al divorzio, offeso, tormentato, assassinato! Tradito da te, odiosissima Morte, da te rovinato per sempre, crudele, crudele che sei! O amore! O vita, non più vita, ma amore riposto nella morte!

CAPULETI: Disprezzato, abbandonato, odiato, torturato, ucciso!

Malaugurato tempo, perché sei venuto ora ad assassinare, ad assassinare la nostra festa? O figliuola, o figliuola mia! o, più che figlia, anima mia! tu sei morta! Ahimè, la mia figliuola è morta, e insieme con la figliuola mia sono sepolte tutte le mie gioie!

FRATE LORENZO: Pace, dunque! vergogna! Il rimedio ai guai non si trova in questi guai. Il cielo e voi possedevate in comune questa bella fanciulla, ora il cielo la possiede tutta per sé, ed è maggior ventura per la fanciulla: voi, infatti, non potevate salvare dalla morte la parte di lei che era vostra; il cielo, invece, serba la sua parte in una vita eterna. Il vostro supremo desiderio era la esaltazione di lei, poiché il vederla in alto era il vostro paradiso: e voi piangete, ora che la vedete in alto, su al di sopra delle nubi, alta come il cielo stesso? Oh! con questo amore, voi amate così male la vostra figliuola, che diventate pazzi vedendo ch’ella sta bene: non è bene maritata colei che vive lungamente col marito; la meglio maritata è colei che muore moglie giovinetta. Asciugate le vostre lacrime, spargete su questo bel corpo il vostro rosmarino, e, secondo l’usanza, fate portare in chiesa la morta, vestita dei suoi abiti più belli.

Sebbene la sciocca natura ci spinga tutti al pianto, le lacrime della natura destano il sorriso della ragione.

CAPULETI: Tutte le cose che avevamo preparate per una festa, mutano improvvisamente il loro ufficio, e serviranno per un tetro funerale: i nostri strumenti si cambiano in meste campane; la nostra allegria nuziale in un triste mortorio; i nostri inni solenni si mutano in lugubri nenie; i nostri fiori di nozze servono per una sepoltura, ed ogni cosa si cambia nel suo contrario.

FRATE LORENZO: Signore, ritiratevi, e voi signora, andate insieme con lui; anche voi, signor Paride, andate; ognuno si prepari ad accompagnare questa bella salma alla sua tomba: il cielo vi guarda accigliato per qualche vostra colpa; non lo irritate maggiormente, ribellandovi ai suoi alti voleri.

 

(Escono il Capuleti, Madonna Capuleti, Paride e il Frate)

 

PRIMO SONATORE: In fede mia, noi possiamo riporre le nostre pive nel sacco e andarcene.

NUTRICE: Buona e brava gente, ah, riponetele, riponetele! poiché, lo vedete bene, siamo al fondo del sacco.

 

(Esce)

 

PRIMO SONATORE: Già, in fede mia, il sacco è colmo.

 

(Entra PIETRO)

 

PIETRO: Sonatori, oh! sonatori, l’aria: “Pace del cuore”; oh! se volete ridarmi la vita, sonate “Pace del cuore”.

PRIMO SONATORE: Perché “Pace del cuore?”.

PIETRO: Oh! sonatori miei, perché il mio cuore stesso suona: “Il mio cuore è pieno di dolore”. Oh! sonatemi qualche allegra nenia, per confortarmi.

SECONDO SONATORE: Neppure una, noi: questo non è il momento di sonare.

PIETRO: Non volete sonare dunque?

PRIMO SONATORE: No.

PIETRO: Allora vi darò sonoramente.

PRIMO SONATORE: Che cosa ci darai?

PIETRO: In fede mia, non del danaro: vi darò… di strimpelloni, di menestrelli.

PRIMO SONATORE: E io ti darò… di servitore.

PIETRO: E io vi sonerò sulla zucca la daga del servitore. Io non vi sonerò delle semiminime: vi darò dei re, vi darò dei fa! notate bene quel che vi dico.

PRIMO SONATORE: Se ci soni dei re e dei fa, sarai tu che noti noi.

SECONDO SONATORE: Ti prego, metti dentro la tua daga, e metti fuori il tuo spirito.

PIETRO: Allora in guardia, contro i colpi del mio spirito! Io picchierò su voi botte da orbi con la lama del mio spirito, e rimetterò nel fodero la lama della mia daga. Rispondete dunque, da uomini, ai colpi miei:

Se il cuor ferisce torvo tormento E rea mestizia lo spirto opprime, Allor la musica, col suon d’argento…

perché “suono d’argento”? perché: “la musica col suon d’argento”? Che ne dici tu, Simon Cantino?

PRIMO SONATORE: Sfido! signore: perché l’argento ha un dolce suono.

PIETRO: Ciance! Che cosa dici tu, Ugo Ribeca?

SECONDO SONATORE: Dico, che dice “suono d’argento”, perché i sonatori sonano per avere dell’argento.

PIETRO: Ciance anche queste! E tu che cosa dici, Giacomo dell’Anima?

TERZO SONATORE: In fede mia, io non so che dire.

PIETRO: Oh, hai ragione, ti chiedo scusa: tu sei un cantore.

Risponderò io per te. Dice: “la musica col suon d’argento”, perché i sonatori per sonare non hanno mai oro:

Allor la musica, col suon d’argento Con presto aiuto dal duol redime.

 

(Esce)

 

PRIMO SONATORE: Che sozzo briccone è costui!

SECONDO SONATORE: Impiccalo, che furfante! Andiamo, entriamo dentro, aspettiamo i piagnoni, e fermiamoci per il desinare.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO QUINTO

 

SCENA PRIMA – Mantova. Una strada

(Entra Romeo)

 

ROMEO: Se io posso prestar fede alle lusinghiere visioni del sonno i miei sogni mi presagiscono vicina qualche notizia piena di gioia: il tiranno del mio cuore se ne sta assiso allegramente sul suo trono, e tutto il giorno, oggi, una insolita animazione mi solleva al di sopra della terra con giocondi pensieri. Ho sognato che la mia donna veniva e mi trovava morto (strano sogno, questo, che concede ad un morto la facoltà di pensare!), e che a forza di baci infondeva nelle mie labbra un tale soffio di vita, ch’io rivivevo ed ero imperatore. Ahimè! come deve esser dolce il vero possesso dell’amore, se la sua ombra soltanto è così ricca di gioia!

 

(Entra BALDASSARRE, stivalato)

 

Notizie da Verona! Ebbene, Baldassarre, non mi porti lettere del frate? Che fa la mia signora? Mio padre sta bene? Come sta la mia Giulietta? te lo domando di nuovo, perché nulla può andar male, se ella sta bene.

BALDASSARRE: Allora ella sta bene, e nulla può andar male: il suo corpo dorme nel monumento dei Capuleti, e quella parte di lei che è immortale, vive insieme con gli angeli. Io l’ho vista deporre giù nella volta sotterranea dei suoi congiunti, e immediatamente sono partito per venirvelo a dire: oh! perdonatemi se vi reco queste tristi nuove, poiché voi stesso, signore, me ne lasciaste l’incarico.

ROMEO: E’ proprio così? Allora io vi sfido, o stelle! Tu sai la mia abitazione: comprami dell’inchiostro o della carta, e noleggiami dei cavalli di posta. Stasera io parto.

BALDASSARRE: Signore, ve ne scongiuro, calmatevi: voi avete l’aspetto pallido e stravolto, e mi fate temere qualche sciagura.

ROMEO: Ma che! t’inganni: lasciami, e fa’ quel che ti ordino di fare.

Non hai lettere del frate per me?

BALDASSARRE: No, mio buon signore.

ROMEO: Non importa: va’ subito, e noleggiami quei cavalli, io ti raggiungo immediatamente. (Baldassarre esce) Ebbene, Giulietta, stasera io dormirò accanto a te. Vediamo con quali mezzi. O distruzione, come fai presto ad entrare nei pensieri degli uomini che disperano! Mi viene in mente uno speziale… egli sta qui nei dintorni, che io ho visto ultimamente, con un vestito a brandelli e fronte aggrottata, intento a cercare erbe medicinali. Era allampanato, una miseria atroce l’aveva spolpato fino all’osso: e nella sua squallida bottega stavano appesi una tartaruga, un coccodrillo imbalsamato ed altre pelli di pesci mostruosi. Qua e là per gli scaffali una misera accozzaglia di scatole vuote, di pentoli di coccio tinti di verde, di vesciche e di semi ammuffiti, di pezzi di spago e pasticche di fior di rosa stantie, era sparsa alla meglio per fare un po’ di apparenza. Notando tanta miseria, dissi fra me: se uno avesse bisogno di qualche veleno (vendere il quale a Mantova vuol dire essere condannato subito a morte) ecco uno sciagurato che glie lo venderebbe.

Oh, questo stesso pensiero non fece altro che precorrere il mio bisogno, e questo stesso uomo bisognoso deve, appunto, vendermelo. Se mi ricordo bene, questa dovrebbe essere la sua casa: essendo giorno di festa, la bottega del disgraziato è chiusa. Ehi! olà! Speziale!

 

(Entra lo Speziale)

 

SPEZIALE: Chi è che chiama così forte?

ROMEO: Vieni qua, amico. Vedo che tu sei povero; tieni, questi sono quaranta ducati: dammi un grammo di veleno; ma una roba così sbrigativa, che appena si sparge per le vene, faccia cader morto colui che stanco della vita lo ha preso, e il corpo sia scaricato del respiro, con la violenza e la rapidità con cui la polvere infiammata si precipita fuori dalle fatali viscere del cannone.

SPEZIALE: Io ne ho di questa merce micidiale; ma la legge di Mantova punisce con la morte chiunque la spaccia.

ROMEO: Tu sei così nudo e pieno di miseria, e hai paura di morire? La fame è sulle tue guance; il bisogno e i patimenti ti agonizzano negli occhi; il disprezzo e la miseria ti stanno appesi alle spalle, il mondo non ti è amico, e nemmeno la sua legge; il mondo non ha per te una legge che ti faccia ricco: dunque non esser più povero, ma rompi la legge, e prendi questo.

SPEZIALE: La mia povertà acconsente, ma non acconsente la mia volontà.

ROMEO: Io pago la tua povertà e non la tua volontà.

SPEZIALE: Mettete questo in un liquido qualunque a piacer vostro, e bevete fino all’ultima goccia: se anche aveste la forza di venti uomini sarete spacciato immediatamente.

ROMEO: Ecco qua il tuo oro, il quale è un veleno peggiore, per l’anima degli uomini, e commette in questo odioso mondo più assassinii, che non queste povere misture che tu non puoi vendere; sono io che vendo a te il veleno, tu non ne hai venduto a me. Addio: comprati da mangiare, e rimettiti in carne. Vieni, o cordiale, e non veleno: vieni insieme con me alla tomba di Giulietta; poiché là io debbo servirmi di te.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA – La cella di Frate Lorenzo

(Entra Frate GIOVANNI)

 

FRATE GIOVANNI: Reverendo frate francescano! fratello, olà!

 

(Entra Frate LORENZO)

 

FRATE LORENZO: Questa dovrebb’essere proprio la voce di frate Giovanni. Ben tornato da Mantova: che dice Romeo? Se egli mi ha scritto il suo pensiero, dammi la sua lettera.

FRATE GIOVANNI: Andavo in cerca di un fratello scalzo del nostro ordine (che è qui in città per andare a visitare gli ammalati), perché mi fosse compagno di via, quand’ecco, nel momento in cui lo trovavo, gl’inquisitori della città, sospettando che noi due fossimo stati in una casa dove infieriva la peste contagiosa, serrarono le porte, e non ci vollero lasciare uscire dalla città. Cosicché il mio viaggio a Mantova restò lì.

FRATE LORENZO: Allora chi ha portato la mia lettera a Romeo?

FRATE GIOVANNI: Eccola qui: io non ho potuto né mandarla, né trovare un messo che te la riportasse, tanto erano spaventati tutti dell’infezione.

FRATE LORENZO: Oh sorte avversa! Pel sacro ordine mio, quella lettera non era insignificante, ma piena di cose di preziosa importanza, che trascurate potrebbero essere causa di una grave sciagura. Frate Giovanni, va’ cercami una leva di ferro, e portala immediatamente qui alla mia cella.

FRATE GIOVANNI: Fratello, vado e te la porto.

 

(Esce)

 

FRATE LORENZO: Ed ora bisogna che io mi diriga solo, al monumento; in queste tre ore la bella Giulietta si sveglierà; chi sa quanto imprecherà contro di me, perché Romeo non ha avuto notizie di questi avvenimenti: ma io scriverò di nuovo a Mantova, e tratterrò lei nella mia cella, finché giunga Romeo. Povera salma vivente, chiusa nella tomba di un morto!

 

(Esce)

 

 

 

SCENA TERZA – Un cimitero. Monumento dei Capuleti

(Entrano PARIDE e il suo Paggio, il quale porta dei fiori ed una torcia)

 

PARIDE: Dammi la tua torcia, ragazzo: vattene, e fermati ad una certa distanza di qui: anzi, spengila, poiché non vorrei essere veduto.

Mettiti disteso sotto quei tassi laggiù, con l’orecchio vicino al terreno risonante; così nessun piede passerà sul cimitero che è smosso e mal fermo per le fosse che vengono scavate, senza che tu lo senta.

Allora fammi un fischio, come segno che senti qualcuno avvicinarsi.

Dammi quei fiori. Fa’ quello che ti dico, va’.

PAGGIO (a parte): Ho quasi paura a star solo qui nel cimitero, tuttavia mi ci arrischierò.

 

(Si ritira)

 

PARIDE: O dolce fiore, io spargo di fiori il tuo letto nuziale, ahimè!

il tuo baldacchino è polvere e sassi), ed ogni notte li bagnerò di dolce acqua, o, mancando essa, di lacrime distillate dai miei singhiozzi. Le esequie che io celebrerò per te saranno: spargere di fiori, ogni notte, la tua tomba e piangere. (Il Paggio fischia) Il ragazzo mi avverte che qualcuno si avvicina. Qual piede maledetto erra stanotte in queste parti, per disturbare le esequie e i riti del vero amore? Come, con una torcia! Nascondimi, o notte, per un istante.

 

(Si ritira)

(Entrano ROMEO e BALDASSARRE con una torcia, un piccone, eccetera)

 

ROMEO: Dammi quel piccone e la leva di ferro. Tieni, prendi questa lettera, domani mattina di buon’ora guarda di consegnarla al mio signore e padre. Dammi il lume. Per la tua vita, ti do quest’ordine:

qualunque cosa tu oda o veda, non ti avvicinare, e non interrompermi nella mia opera. La ragione per la quale io discendo in questo letto di morte, è in parte per contemplare la faccia della mia donna, ma principalmente per portar via dalla sua morta mano un prezioso anello; un anello del quale io debbo fare un uso importante. Perciò vattene di qua: che se tu, sospettoso, tornassi a spiare quello che io intendo di fare fra poco, per il cielo, io ti farò a brandelli, e seminerò delle tue membra questo affamato cimitero: il momento e le mie intenzioni sono feroci, più tremendi e inesorabili, molto, di tigri digiune o del mare ruggente.

BALDASSARRE: Vado subito, signore, e non vi disturberò.

ROMEO: Così tu mi dimostrerai la tua amicizia. Prendi qua: vivi e sii felice; addio, buon giovinotto.

BALDASSARRE (a parte): Ciò nonostante io mi nasconderò qui intorno: i suoi sguardi mi fanno paura, e dubito delle sue intenzioni (Si ritira)

ROMEO: Detestabili fauci, o tu, ventre della morte, satollato col boccone più prezioso della terra, così io forzo le tue putride mascelle ad aprirsi, (apre la tomba) e a tuo dispetto voglio impinzarti ancora di altro cibo.

PARIDE: Costui è quel bandito orgoglioso Montecchi, che uccise il cugino dell’amor mio, pel cui dolore si crede che la bella creatura morisse, ed è venuto qui a fare qualche villano insulto agli estinti:

io lo arresterò. (Avanzandosi) Cessa la tua empia fatica, o vile Montecchi! Può la vendetta essere spinta oltre la morte? Infame bandito, io ti arresto: obbedisci, e vieni con me, poiché tu devi morire.

ROMEO: Io debbo morire veramente, e appunto per questo venni qui. O buono e gentile giovinotto, non tentare un uomo disperato; fuggi di qui e lasciami; pensa a questi morti, e il loro pensiero ti spaventi.

Io ti scongiuro, giovinotto, non accumulare sul mio capo un altro peccato, spingendomi al furore. Oh, vattene! Per il cielo io ti amo più di me stesso, poiché io vengo qui armato contro me stesso; non restare, vattene: vivi, e racconta, fin da questo momento, che la clemenza di un pazzo ti ordinò di fuggire.

PARIDE: Io sfido i tuoi scongiuri, e ti arresto qui come un fellone.

ROMEO: Tu vuoi provocarmi? allora in guardia, fanciullo!

 

(Si battono)

 

PAGGIO: O Signore, si battono! anderò a chiamare la guardia.

 
(Esce)

 

PARIDE: Oh, sono ucciso! (Cade) Se tu sei pietoso, apri la tomba, e mettimi accanto Giulietta.

ROMEO: In fede mia lo farò. Esaminiamo questa faccia: il parente di Mercuzio, il nobile conte Paride? Che cosa diceva il mio servitore, quando la mia mente agitata non badava a lui mentre cavalcavamo? Mi pare ch’egli mi dicesse che Paride avrebbe sposato Giulietta; non disse così? o me lo sono sognato? O sono io un pazzo, sentendolo parlare di Giulietta, a pensare che egli dicesse questo? Oh, dammi la tua mano, tu che fosti inscritto con me nel libro dell’arcigna sventura! Io ti seppellirò in una tomba splendida; una tomba? oh no, un faro, o mia giovane vittima; poiché qui giace Giulietta e la sua bellezza trasforma questa tomba in una sala piena di festa e di luce.

O morte, riposa là dentro, sotterrata da un uomo morto. (Deponendo Paride nel monumento) Oh, come spesso gli uomini sul punto di morire provano un istante di gioia! Un istante, che chi li veglia suole chiamare: il lampo che precede la morte. Ma io come potrei chiamare questo un lampo? O amor mio, o mia sposa! La morte che ha libato il miele del tuo respiro, nulla ha potuto ancora sulla tua bellezza: tu non sei conquistata; l’insegna della bellezza è ancora rosea sulle tue labbra e sulle tue guance, e il pallido vessillo della morte non vi si è ancora spiegato. Tebaldo, giaci tu là nel tuo sanguinoso lenzuolo?

Oh! quale più grande favore poss’io farti, che con quella mano stessa che spezzò in due la tua giovinezza, spezzare quella di colui che fu tuo nemico? Perdonami, cugino! ah! cara Giulietta, perché sei tu ancora così bella? Debbo io credere che la morte immateriale senta l’amore, e che lo smunto aborrito mostro ti tenga qui nelle tenebre, perché tu sia la sua amante? Per paura di questo, io resterò per sempre accanto a te e non mi partirò mai più da questo palazzo della scura notte: qui, qui io voglio rimanere insieme coi vermi che sono le tue ancelle: oh! qui io fisserò il mio sempiterno riposo, e scoterò, da questa carne stanca del mondo, il giogo delle avverse stelle.

Occhi, guardatela per l’ultima volta! Braccia, prendete il vostro ultimo abbraccio! e voi, labbra, voi che siete la porta del respiro, suggellate, con un leale bacio un contratto indefinito con la morte che tutto rapisce! Vieni, amaro conduttore, vieni, disgustante giuda!

Via, o disperato pilota, precipita d’un colpo sugli scogli, che la infrangeranno, la tua barca afflitta e stanca dal mare. Bevo all’amor mio! (Beve) O speziale veritiero! Il tuo veleno è rapido. Io muoio così con un bacio. (Muore)

 

(Dall’altra parte del cimitero entra Frate LORENZO con una lanterna, una leva ed una vanga)

 

FRATE LORENZO: San Francesco mi accompagni! quante volte stanotte il mio vecchio piede ha inciampato nelle tombe! Chi c’è la?

BALDASSARRE: C’è un uomo che vi è amico, e che vi conosce bene.

FRATE LORENZO: Siate benedetto! Ditemi, mio buon amico, che cos’è quella torcia laggiù, che fa luce inutilmente a dei vermi e a dei teschi senz’occhi? A quel che vedo, essa è accesa nel monumento dei Capuleti.

BALDASSARRE: E’ proprio così, padre santo; e là c’è il mio padrone, uno che vi ama.

FRATE LORENZO: Chi è?

BALDASSARRE: Romeo.

FRATE LORENZO: Quanto tempo è che è là?

BALDASSARRE: Una buona mezz’ora.

FRATE LORENZO: Vieni con me al sotterraneo.

BALDASSARRE: Io non oso signore: il mio padrone sa che io me se sono andato di qui; egli mi ha minacciato tremendamente di morte se fossi rimasto a spiare le sue intenzioni.

FRATE LORENZO: Allora resta; anderò solo. La paura mi prende; oh, io temo molto qualche triste sciagura!

BALDASSARRE: Mentre dormivo qui sotto questo tasso, ho sognato che il mio padrone si batteva con un altro, e che il mio padrone l’ha ucciso.

FRATE LORENZO (avvicinandosi al monumento): Romeo! Ahimè, ahimè! che cos’è questo sangue che macchia la marmorea entrata del sepolcro? Che significano quelle spade senza padrone e imbrattate, che giacciono per terra, rosse di sangue in questo luogo di pace? (Entra nel monumento) Romeo! oh qual pallore sulla sua faccia? Chi c’è ancora? Come, anche Paride? E’ bagnato di sangue? Ah, quale sciagurata ora è rea di così lacrimevole sventura! La fanciulla si muove.

 

(Giulietta si sveglia)

 

GIULIETTA: O padre consolatore! Dov’è il signor mio? Io mi ricordo bene in qual luogo debbo essere; e infatti ci sono: ma dov’è il mio Romeo?

 

(Si sente del rumore)

 

FRATE LORENZO: Sento del rumore. Fanciulla, esci da cotesto nido di morte, di contagio, di sonno artificiale; una potenza superiore, alla quale noi non possiamo opporci, ha attraversato i nostri disegni:

vieni, vieni via; tuo marito giace costì morto, accanto te, e Paride anche; vieni, io ti metterò in un convento di sante monache; non mi chiedere spiegazioni, poiché la guardia arriva. Vieni, andiamo, mia buona Giulietta (il rumore si avvicina) io non oso restare più a lungo.

 

(Frate Lorenzo esce)

 

GIULIETTA: Va’, fuori pure di qui, poiché io non anderò via. Che cosa c’è qui? una tazza che il fido amor mio tiene stretta in mano?

Comprendo: il veleno è stato la causa della sua fine immatura; oh cattivo! lo ha bevuto tutto, e non ne ha lasciato una benefica goccia, che dopo lui aiutasse me? Voglio baciare le tue labbra; forse vi rimane ancora un po’ di veleno, che basti per farmi morire con le dolcezze di un cordiale. (Lo bacia) Le tue labbra sono ancora calde.

PRIMA GUARDIA (di dentro): Guidaci, ragazzo, quale strada dobbiamo prendere?

GIULIETTA: Che! del rumore? Allora bisogna far presto. Oh, pugnale benedetto! (Afferrando il pugnale di Romeo) ecco, il tuo fodero è questo: (si colpisce) arrugginisci qui dentro, e fammi morire. (Cade sul corpo di Romeo, e muore)

 

(Entra la Guardia col Paggio di Paride)

 

PAGGIO: Ecco il luogo: là dove arde quella torcia.

PRIMA GUARDIA: Il terreno è insanguinato: cercate intorno pel cimitero: andate, alcuni di voi, e chiunque trovate arrestatelo.

(Escono alcuni della Guardia) Oh pietosa vista! Qui giace ucciso il conte e per terra c’è Giulietta sanguinante, ancora calda, e appena morta, lei che da due giorni era stata sepolta qui! Andate, avvertite il Principe, correte dai Capuleti, fate venir qui i Montecchi: altri di voi si diano a cercare intorno. (Escono altre Guardie) Noi vediamo il terreno sul quale giacciono le vittime di queste sventure; ma il vero terreno dal quale germogliò il seme di tutte queste lacrimevoli sventure, non potremo scoprirlo senza conoscere le circostanze particolari.

 

(Rientrano alcuni della Guardia con BALDASSARRE)

 

SECONDA GUARDIA: Ecco il servo di Romeo: l’abbiamo trovato nel cimitero.

PRIMA GUARDIA: Trattenetelo in un luogo sicuro, finché giunga il principe.

 

(Rientra un’altra Guardia con Frate LORENZO)

 

TERZA GUARDIA: Qui c’è un frate che trema, spira e piange: questa leva e questa zappa, le abbiamo sequestrate a lui mentre veniva da questa parte del cimitero.

PRIMA GUARDIA: Egli è molto sospetto: trattenete anche il frate.

 

(Entra il PRINCIPE col suo Seguito)

 

PRINCIPE: Quale sventura si è alzata oggi così di buon’ora, da toglierci al nostro riposo mattutino?

 

(Entrano il CAPULETI, MADONNA CAPULETI ed altri)

 

CAPULETI: Che può esser mai accaduto, che tutti urlano a questo modo per le vie?

MADONNA CAPULETI: La gente, per la strada va gridando chi “Romeo”, chi “Giulietta”, e chi “Paride”; e tutti con grande schiamazzo corrono verso il nostro monumento.

PRINCIPE: Che cosa sono queste grida paurose che ci colpiscono gli orecchi?

PRIMA GUARDIA: Signore, qui c’è il conte Paride assassinato, e Romeo morto, e Giulietta, che era già morta, è qui uccisa in questo istante e ancora calda.

PRINCIPE: Cercate, domandate, e informateci come si spiega questo orrendo massacro.

PRIMA GUARDIA: Qui c’è un frate e un servo dell’ucciso Romeo, che avevano addosso degli strumenti necessari per aprire le tombe di questi morti.

CAPULETI: O cielo! Moglie mia, guarda come versa sangue la nostra figliuola! Questo pugnale ha sbagliato strada, poiché, vedi, la sua guaina è là vuota al fianco del Montecchi, e per errore s’è riposto nel seno di mia figlia!

MADONNA CAPULETI: Ohimè! questo spettacolo di morte è come una campana che annunzia alla mia vecchiaia la partenza per il sepolcro.

 

(Entrano il MONTECCHI ed altri)

 

PRINCIPE: Vieni, o Montecchi, tu ti sei alzato innanzi tempo, per vedere il tuo figliuolo ed erede ancor più innanzi tempo coricato.

MONTECCHI: Ah! mio principe, stanotte è morta mia moglie; il dolore cagionatole dall’esilio del suo figliuolo le ha stroncato il respiro:

quale nuova angoscia cospira contro la mia vecchiaia?

PRINCIPE: Guarda e vedrai.

MONTECCHI: O screanzato figliuolo! qual rispetto è cotesto: spingersi innanzi al proprio padre verso una tomba?

PRINCIPE: Chiudi per un istante la bocca alla disperazione finché siamo in grado di chiarire questi misteri e conoscerne l’origine, l’occasione, il loro vero principio, e allora io stesso mi farò guida ai tuoi dolori, e ti accompagnerò fino alla morte: per ora frenati, e lascia che la sventura sia schiava alla pazienza. Fate venire innanzi le persone sospette.

FRATE LORENZO: Fra queste io sono la più importante, e sebbene il meno capace di sì orrendo misfatto, io sono, tuttavia, il più sospetto, cosi gravemente depongono contro di me il tempo e il luogo; ed eccomi qui pronto umilmente ad accusarmi e a discolparmi di ciò che in me è condannabile c scusabile.

PRINCIPE: Allora racconta subito quello che sai.

FRATE LORENZO: Sarò breve, poiché il poco fiato che mi avanza non è tanto che mi basti per annoiarvi con un lungo racconto. Romeo qui morto, era marito di Giulietta; e lei, lì morta, era la fedele moglie di Romeo: li avevo sposati io, e il giorno del loro segreto matrimonio fu quello stesso in cui morì Tebaldo, l’immatura morte del quale fece bandire da questa città il novello sposo e per lui, non per Tebaldo, si struggeva Giulietta. Voi per liberarla dal dolore onde era oppressa, la fidanzaste, e l’avreste maritata per forza, al conte Paride. Lei, allora venne da me, e con la disperazione negli occhi mi scongiurò di trovare qualche mezzo onde liberarla da questo secondo matrimonio, altrimenti si sarebbe uccisa nella mia cella stessa.

Allora io, consigliato dall’esperienza, le detti un sonnifero, il quale fece l’effetto che io desideravo, poiché operò su di lei l’apparenza della morte. Nello stesso tempo scrissi a Romeo che fosse venuto qui proprio in questa fatale notte, per aiutarmi a trarla fuori dalla sua finta tomba essendo giunto il momento nel quale l’azione del narcotico doveva cessare. Ma quegli che portava la mia lettera, cioè frate Giovanni, fu trattenuto per un malaugurato caso, e ieri notte venne a restituirmi la lettera. Allora, al momento preciso del suo risvegliarsi, sono venuto da me solo qui per farla uscire dalla volta sotterranea dei suoi congiunti, con l’intenzione di tenerla nascosta nella mia cella, finché avessi potuto mandarla in modo conveniente a Romeo. Ma allorché giunsi, qualche minuto prima del momento in cui si doveva svegliare, il nobile conte Paride e il fedele Romeo giacevano qui morti immaturamente. Essa intanto si svegliava, ed io la scongiuravo di venir via e sopportare con rassegnazione quest’opera del cielo: ma in quell’istante un rumore mi fece allontanare, per subita paura, dalla tomba, e lei in preda ad una estrema disperazione non volle venir via con me, ma, a quel che pare, fu violenta contro se stessa. Questo è tutto quello che so io: del matrimonio è consapevole anche la sua nutrice; e se in tutto ciò qualche sciagura è accaduta per colpa mia, questa mia vecchia vita sia sacrificata qualche ora prima della sua fine naturale al rigore della legge più severa.

PRINCIPE: Noi ti abbiamo conosciuto sempre per un sant’uomo. Dov’è il servo di Romeo? Che cosa può dire di tutto questo?

BALDASSARRE: Io portai al mio padrone la notizia della morte di Giulietta, ed egli allora senz’indugio parti da Mantova, e venne qui in questo luogo, proprio qui a questo monumento. Mi ordinò di consegnare di buon mattino questa lettera a suo padre, e mi minacciò di morte, entrando nella volta sotterranea, s’io non mi fossi allontanato, e non lo avessi lasciato lì solo.

PRINCIPE: Datemi la lettera, voglio vederla. Dov’è il paggio del conte, che è andato a chiamar la guardia? Monello, che cosa veniva a fare il vostro padrone in questo luogo?

PAGGIO: Veniva con dei fiori per spargerli sulla tomba della sua donna, e a me aveva ordinato di restare in distanza, ciò che io avevo fatto: poco dopo venne uno con una torcia per aprire la tomba, e il mio padrone in un attimo trasse fuori la spada contro di lui, ed io allora scappai via a chiamare la guardia.

PRINCIPE: Questa lettera rende ragione alle parole del frate, racconta le peripezie del loro amore, e accenna alla notizia della morte dl lei: ed egli scrive, qui, che aveva comprato un veleno da un povero speziale e che con quello era venuto in questa volta sotterranea, per morire e giacere accanto a Giulietta. Dove sono questi nemici?

Capuleti! Montecchi! Guardate quale maledizione è caduta sul vostro odio: il cielo per uccidere le vostre gioie si è servito dell’amore!

Ed io per aver chiuso gli occhi sopra le vostre discordie, ho perduto due parenti. Noi siamo tutti puniti.

CAPULETI: O fratello Montecchi, dammi la tua mano: eccoti in questa stretta la dote di mia figlia, poiché io non posso chiedere di più.

MONTECCHI: Ma io posso darti di più: io farò innalzare a tua figlia una statua d’oro puro, affinché nessuna immagine, finché duri il nome di Verona, sia tenuta in così alto pregio, come quella della leale e fedele Giulietta.

CAPULETI: E in una forma egualmente preziosa starà Romeo presso la sua donna: povere vittime, tutt’e due, della nostra inimicizia.

PRINCIPE: Questa mattina è foriera di una pace che rattrista; il sole pel dolore non mostrerà la sua faccia. Andiamo via di qui, a ragionare ancora di questi dolorosi avvenimenti; a qualcuno sarà perdonato ed altri sarà punito; poiché non ci fu mai storia più pietosa di questa di Giulietta e del suo Romeo.

 

(Escono) 

Romeo e Giulietta – Traduzione Salvatore Quasimodo


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