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Accessibilità Chiesa Santa Maria Antica


l'interno della chiesa di santa maria antica a verona, accessibile ai disabili

La bella Chiesa di Santa Maria Antica, nel piazzale delle Arche Scaligere, accanto a Piazza dei Signori, è accessibile alle persone in carrozzina tramite piccoli scivoli per superare i due scalini della strada (che permette anche di accedere alle Arche Scaligere) e quello all’entrata della chiesa.

cappella con madonna ed ex-voto alla chiesa di santa maria antica a verona

La chiesa di Santa Maria Antica – assunta poi a notorietà per aver custodito entro e accanto a sé le tombe dei Signori scaligeri – nacque in pieno centro storico di Verona nell’anno 744 o 745, cioè verso la fine della dominazione longobarda, come chiesa annessa ad un monastero femminile. Il monastero – fondato da Autconda e Natalia sorelle, con Nazario, rispettivamente cognato e marito, e dotato di tutti i possessi di costoro – era stato messo sotto la protezione dell’abate di Santa Maria in Organo. Il documento relativo – una pagina ordinacionis dettata il 13 maggio – non c’è pervenuto in originale ma in copia del secolo IX, in bella scrittura calligrafica veronese, con correzioni dei secoli X e XI.

Gli storici hanno discusso, con differenti esiti, se il documento in questione si riferisca proprio a questa chiesa invece che a quella di Santa Maria in Solaro (presso l’attuale porta Garibaldi), che pur era dipendente da Santa Maria in Organo, ed alla quale era altresì annesso un monastero di donne: di quest’ultima opinione fu fra gli altri – ma con scarso seguito – Giambattista Biancolini, lo storico settecentesco delle chiese di Verona.

Dell’altro partito si sono tra gli altri dichiarati recentemente anche Cristina La Rocca e Peter Hudson, che hanno qui svolto qualche anno fa – precisamente nel cortile del Palazzo del Tribunale – ricerche archeologiche approfondite. Peter Hudson, in particolare, in un suo intervento su “Archeologia Veneta”, sostiene che il monastero femminile dedicato a Santa Maria fondato nel 744 o 745 dalle due sorelle Autconda e Natalia nel territorio pertinente alla loro abitazione, e più volte identificato con la chiesa di Santa Maria in Solaro, va invece interpretato come Santa Maria Antica, posta nell’angolo nord-orientale del Cortile del Tribunale. “Infatti – annota Hudson – quest’ultima è già chiamata Antiqua nel 908, ed è inoltre documentata in più occasioni nel corso del X secolo, mentre l’unica attestazione anteriore all’XI secolo di Santa Maria in Solaro è una lettera del Papa, ritenuta falsa, del 919. Non si può neppure ipotizzare che siano andate perdute attestazioni precedenti, perché entrambe le chiese dipendevano dal monastero veronese di Santa Maria in Organo, il cui archivio è fra i meglio forniti per l’alto medioevo. Si dovrà pertanto concludere che il documento del 744 si riferisca a Santa Maria Antica”.

“Concorde con questa datazione – soggiunge poi lo stesso Peter Hudson – potrebbe essere un lacerto con decorazioni a tessere bianche e nere, rinvenuto nell’absidiola sinistra della chiesa durante gli scavi effettuati fra il 1887 e il 1893. Descritto sommariamente dal Cipolla, esso è stato ignorato dagli studiosi che si sono in seguito occupati di questa chiesa. Il mosaico, tuttora visibile, è eseguito con decorazione nera su fondo bianco che comprende tre motivi diversi. Verso l’abside si trova una fascia a triangoli bianchi e neri alternati, poi un campo a pelte creato da semicerchi neri, con al centro crocette nere. Una fascia nera divide questo motivo da un campo a cerchi intrecciati neri. In ambito veronese, quest’ultimo motivo è presente nel pavimento della chiesa di Santa Maria di Gazzo, anch’essa dipendente dal monastero di Santa Maria in Organo, databile stilisticamente al secolo VIII, e cioè coevo con le prime attestazioni documentarie. Questo puntuale confronto suggerisce che si tratti del pavimento originale della chiesa di Santa Maria Antica, attribuibile attorno alla metà dell’VIII secolo”.

Le recenti ricerche archeologiche hanno tra l’altro attestato l’esistenza, nei pressi della chiesa, di un’area cimiteriale abbastanza vasta. Sono state qui, infatti, rinvenute una cinquantina di sepolture, tutte d’età successiva alla fondazione della chiesa e probabilmente attribuibili in buona parte al secolo XI: “Quello che colpisce – racconta Peter Hudson – è la loro varietà: alcune sono allineate est-ovest, altre nord-sud: quanto alle tecniche costruttive delle tombe, la maggioranza è costituita da semplici fosse in piena terra. Alcune si compongono di un contorno di pietre e mattoni; in un caso di una cassa di legno. Due tombe in particolare sono costituite da lastre di marmo, con loculo di mattoni romani reimpiegati”.

Particolari anche i resti umani scoperti all’interno di qualcuna di esse. In una tomba, da una parte si è trovato uno scheletro articolato in posizione supina, dall’altra un mucchio d’ossa di scheletri diversi. Una conteneva solo scheletri di adulti, un’altra solo di bambini. Si potrebbe spiegare questo fatto in modo assai semplice: le due tombe furono usate per più sepolture successive. Ogni volta che veniva aggiunto un nuovo defunto, le ossa del precedente venivano spostate e accostate al suo fianco. L’indagine del cimitero ha anche dimostrato che esso era suddiviso in sei aree da muri bassi, da interpretarsi forse come zone di sepoltura di diverse famiglie.

Ed è stato anche accertato che il cimitero si è sviluppato in un’area di pertinenza del monastero già adibita, come attestano documenti del secolo X. Alla coltura di vigne ed alberi da frutto. Poi, dal secolo XI fino alla metà del secolo XIV, la storia del Cortile del Tribunale è dominata da due fattori: il restringersi della proprietà di Santa Maria Antica e la progressiva influenza della famiglia scaligera sulla conformazione della zona.

Nella seconda metà dell’XI secolo il Cortile del Tribunale, fino ad ora appartenente a Santa Maria Antica, venne frazionato in cinque proprietà diverse. Ad est sono stati rinvenuti i muri perimetrali e le basi di colonna della piazza porticata adibita, come testimoniano le fonti scritte, a mercato di stoffe. AI centro si trovava il cortile esterno di un impianto artigianale che produceva arnesi di ferro e di bronzo e le fondazioni di una casa torre appartenente alla famiglia Briccio. Ad ovest sono state rinvenute più superfici di ciottoli attribuibili alla documentata piazza di Santa Maria Antica ed i resti di due case affiancate, una con cantina.

Dalla fine del Duecento lo scavo è riuscito a documentare la progressiva espansione del palazzo scaligero che, da un primitivo nucleo nella parte sud-orientale dell’isolato, porterà all’occupazione di metà isolato ed infine, nel 1360, alla costruzione del palazzo turrito di Cansignorio della Scala, nelle volumetrie pervenuteci.

Ovviamente la cappella longobarda fondata nel secolo VIII non esiste più, nonostante sia ancora testimoniata, oltre che dalle documentazioni scritte, anche dal già citato frammento di pavimento a mosaico, con tessere bianche e nere in fondo alla navata.

E’ in questa chiesa che, il 23 novembre 995, venne tenuto un sinodo da Otberto, vescovo di Verona, che ebbe a lamentarsi non poco contro i chierici di Santa Maria Antica nonché di Santa Margherita, unite all’abazia di Santa Maria in Organo, poco docili a certe sue prescrizioni. Dovette intervenire nella controversia anche Giovanni, patriarca d’Aquileia – presente al sinodo con altri vescovi veneti – che sentenziò il dovere per i chierici dell’obbedienza al loro vescovo. Anche questo documento ci conferma dunque che accanto alle monache si era qui stabilita una comunità di chierici addetti ad una stabile officiatura della chiesa.

La chiesa longobarda dovette poi rimanere seriamente danneggiata o forse anche completamente distrutta nel corso del terremoto del 1117. Se ne progettò, pochi anni dopo il cataclisma, la ricostruzione, ed il nuovo tempio venne consacrato finalmente, nel 1185, dal patriarca d’Aquileia, mentre papa Alessandro III, nel 1177, ne avrebbe consacrato l’altare maggiore.

E’ Alessandro Canobbio a riportare per primo il testo della lapide, conservata in questa chiesa, ricordante la consacrazione dell’altar maggiore avvenuta nel 1177 da papa Alessandro lll, e quello dell’altra lapide del 1185 che ricorda la consacrazione di tutta la chiesa, fatta dal patriarca di Aquileia. Lo seguono Ludovico Moscardo, che riporta anch’egli le due e lapidi, e Scipione Maffei.

Giambattista Biancolini cita pur’egli le due lapidi, ma dichiara falsa, con buone ragioni, quella del 1177. Luigi Simeoni, riprendendo l’esame dell’iscrizione del 1177 già iniziato fruttuosamente dal Biancolini, ne ribadisce la falsità, e la prova della metà del secolo XV. Nella sua Guida dà della chiesetta un’accurata descrizione, senza offrire però una precisa opinione cronologica.

Come riferisce Edoardo Arslan, altri autori, fidando sulla data della consacrazione, ritengono la chiesa indubbiamente del 1185. Fra questi il Porter, “non considerando, come spesso gli avviene, il nessun affidamento che danno nei riguardi stilistici le date delle consacrazioni, molto spesso avvenute a decenni di distanza dalla costruzione; quando addirittura non si tratti di consacrazioni avvenute in seguito a restauri, più o meno profondi, a profanazione, a visite occasionali di vescovi, papi ecc.”.

In ogni caso, la chiesa dovrebbe essere stata ricostruita fra l’anno successivo al terremoto e l’anno della sua consacrazione, presumibilmente entro la metà del secolo, di esigue dimensioni, ma a tre navate divise da due file di colonne sormontate da rozzi capitelli, con navatelle coperte da volticine a crociera; la navata centrale doveva invece certamente mostrare, in origine, le incavallature scoperte appoggiate ai due archi trasversali di sostegno; in capo alle tre navate, le tre absidi, di cui la centrale maggiore. Infatti “l’esame degli archi che dividono la navata dalla austera chiesetta – soggiunge Arslan – conferma la sua parentela con le costruzioni di San Fermo (chiesa inferiore) e del primo San Lorenzo. Come in quelle chiese ecco qui archi a sesto rialzato, di leggero sapore musulmano-bizantino, con doppia ghiera, di diverso aggetto. Di queste ghiere, quella interna è per lo più a piccoli conci di tufo; quella esterna è trattata, in alcuni archi a soli conci di tufo, in altri, invece, con la solita nota tecnica arcaica alternante un concio di tufo a un mattone”.

Sempre secondo Edoardo Arslan si tratta di un procedimento che si ritrova, costante e regolarissimo, sul fianco settentrionale, sulla parte posteriore, sulla facciata, nell’arco trionfale, nei grandi archi trasversi della navata centrale, nei semicatini delle absidiole e nei sottarchi che le precedono, mentre il fianco meridionale e le pareti della nave maggiore sono costruiti a grandi conci regolari di tufo, come la porta a tutto sesto della chiesa, gli archi delle due nicchie scavate nell’abside maggiore, anch’essi formati di bei conci di tufo, con fattura tipica dell’inizio dell’XI secolo.

Così continua l’Arslan la descrizione della chiesa nelle sue strutture architettoniche: “I capitelli hanno varie forme, che si ripetono appaiate. Sono privi di ogni decorazione animale o vegetale, e appaiono come grandi cubi rastremati verso il basso, scantonati, sormontati da una specie di pulvino formato da un grosso listello, unito ad un abaco a forma di piramide tronca capovolta, e tale, in sezione, da ricordare la cornice dell’XI secolo nel San Michele di Mizzole. Opere cui manca l’esperta raffinatezza dei capitelli della chiesa inferiore di San Fermo, e certamente di una maestranza secondaria, ma non ritardataria”.

Infine: “La chiesa riceve luce da finestre a strombo gradonato, a feritoia, una in corrispondenza di ogni arcata, che incontriamo qui per la prima volta. Lo strombo si addentra seguendo l’angolo retto e nettissimo di tre gradoni; ogni stipite è ricavato da un solo blocco di tufo; e così l’arco”. Tutto questo induce l’insigne studioso del romanico veronese a confermarlo nell’opinione che la chiesa possa senz’altro essere datata al secondo quarto del secolo XII. “E’ ormai -scrive infatti Arslan – la tipica basilica veronese a tre navate, senza transetto, terminata da tre absidi, coperta di tetto a incavallature (qui sorretto da archi trasversi, come a San Zeno; le volte demolite dal restauro erano certamente d’epoca seriore); il cui spazio mostra già il tipico slancio verso l’alto, reso più acuto dall’angustia e dalla scarsezza delle luci. Il ritrovarvi poi paramenti murari condotti con notevole accuratezza, pari a quelli delle più notevoli chiese veronesi di quel torno di tempo, e, contemporaneamente, la presenza di un sistema prettamente basilicale rappresentato da due file di colonne coi primitivi capitelli, starebbe a dimostrare, a parer nostro, come a quel tempo il sistema alternato di San Giovanni in Valle, San Floriano e di altre chiese pertinenti al più avanzato romanico, non fosse ancora maturo nella mente di quegli architetti, tipicamente veronese, che non osavano, o non volevano, guardare alle novità d’Oltralpe realizzate in San Fermo; oppure, e ritengo questa ipotesi la più probabile, lavora qui accanto alle maestranze che erigono le cortine, un’altra maestranza, visibilmente più trascurata, di lapicidi. In nessun caso però sembra lecito datare l’angusta chiesetta, che offre il fianco a sfondo delle fiorite tombe dei Signori di Verona, alla seconda metà del secolo XII”.

Come tante altre chiese coeve del Veronese, anche Santa Maria Antica venne via via perdendo, lungo i secoli, le sue peculiarità stilistiche originarie: vari interventi ne modificarono infatti notevolmente l’aspetto, con l’apertura di cappelle laterali, la costruzione di nuove volte di copertura, l’aggiunta di decorazioni barocche, di altari, di nicchie, di dipinti, di statue e di altri arredi, e persino, all’esterno, l’appoggio di varie costruzioni che finirono per ottunderne i lineamenti romanici così caratteristici.

Si imponeva quindi un restauro sul quale ebbe poi a riferire ampiamente, in una sua nota, Carlo Cipolla, non estraneo evidentemente, anche in questo caso come in molti altri, alle iniziative volte al riscatto di questa notevole architettura.

Fin dal 1874 veniva infatti rimesso al Municipio di Verona un progetto di lavori ritenuti indispensabili per ridurre la chiesa alla forma primitiva. La pratica non ebbe peraltro immediatamente seguito, sebbene ci fosse motivo di credere che, qualora il Municipio avesse deciso di concorrere nella spesa, altrettanto avrebbe fatto il Ministro, trattandosi di un monumento interessante. Nel 1878 la Commissione per la salvaguardia e la valorizzazione dei monumenti presso la Prefettura propose che si invitasse perciò il Municipio a riesaminare la pratica e riprendere in considerazione le antiche proposte, riconoscendo la convenienza di provvedere al riordino in questione. Si deliberò in conformità, espressamente dichiarando che i lavori da eseguirsi dovessero essere diretti a restituire la chiesa alle forme primitive, mentre in caso contrario non si sarebbe mai concessa l’approvazione.

Nel 1892 Carlo Cipolla era già in grado – mentre i lavori ancora fervevano – di dare un completo ragguaglio sui restauri della chiesa (condotti su progetto dell’architetto dilettante don Angelo Gottardi), i quali dapprima mirarono a togliere gli stucchi barocchi dalle pareti. Apparvero allora le absidi laterali e, nella maggiore, due nicchie. Venne reintegrata una colonna a destra; le altre colonne, in parte deturpate, vennero restaurate. Si ritrovarono, scalpellate, le due coppie di semicolonne, ai lati dell’arco trionfale e della facciata interna. La demolizione della volta a botte centrale portò alla precisazione di tre campate divise da due archi, di cui si ritrovarono le tracce, separanti tre volte a crociera: queste tre volte vennero, per ragioni di statica, ricostruite a incannucciato. Una cappella a destra, verso la facciata, venne chiusa, lasciandovi una porticina, moderna, come moderna e la porticina a destra verso l’altar maggiore. Una porta, rettangolare, tra le due venne chiusa. Infine la scoperta delle volte della navata portò al ripristino della copertura originale a più spioventi in luogo dell’unico spiovente prima esistente. Si ritrovarono e si riaprirono altresì, nella stessa circostanza, le finestre a feritoia.

Un restauro un po’ pesante, a dire il vero, che ha più il sapore di un rifacimento, con criteri che oggi alla luce di più aggiornate teorie -forse anche qui esasperando in senso contrario – non si adotterebbero. Lo avvertiva, come poteva avvertirlo, anche lo stesso Carlo Cipolla, il quale annotava tra l’altro: “Per esser sincero, mentre in punti d’importanza tanto maggiore mi sembra che il restauro sia stato molto studiato e sia felicemente riuscito, esiterei prima di approvare in tutto e per tutto, e la costruzione delle due nuove porticine, e la soppressione della porticina antica, col residuo della scala a chiocciola. E’ ben vero che non bisogna ammazzare i vivi nella speranza di far risuscitare i morti, ma pur si può cercare sempre un accordo fra le esigenze del presente e il ricordo del tempo passato. Ora mi sembra che tale linea, segnante l’accordo fra l’antico e il nuovo, non sia stata in questa particolarità pienamente raggiunta dall’egregio architetto. Avrei preferito che le porticine nuove non ci fossero, o, in quanto la necessità l’avesse richiesto, fossero, non ad arco, come ora sono, ma quadrangolari e semplicissime, così che appena si potessero osservare. D’altra parte mi spiace che le circostanze abbiano condotto alla soppressione della porticina antica”.

E’ ancora da aggiungere che in data recente – a cent’anni di distanza da questi restauri – per interessamento del rettore don Franco Segala, e con la consulenza dell’architetto Giorgio Forti, la chiesa è stata sottoposta ad opere di manutenzione straordinaria, che hanno portato al rifacimento del tetto e a varie operazioni di consolidamento e pulizia della struttura, per assicurare alla bella chiesetta, cappella palatina dei Signori della Scala che qui riposano nel sonno della morte, di affrontare, per i prossimi decenni, gli acciacchi della lunga età.

Fonte: Notiziario BPV numero 1 anno 1998